Annotazioni in tema di autorizzazione al trattamento dei rifiuti: il caso della ventilazione forzata del CDR

04 Giu 2019 | giurisprudenza, amministrativo

di Carlo Tanzarella

T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 21 settembre 2018, n. 885 – Pres. Est. Politi – S.I.E.M. S.p.A. (Avv. Gianolio) c. Provincia di Mantova (Avv.ti Persegati Ruggerini e Noschese)

La ventilazione forzata del CDR è un’operazione di trattamento finalizzata al recupero dei rifiuti, e come tale deve essere espressamente autorizzata

Con la decisione in commento, il Tar per la Lombardia ha ritenuto legittimo il provvedimento con il quale un’Amministrazione provinciale aveva diffidato una società pubblica esercente il servizio di igiene urbana nel territorio, dal proseguire la gestione di un impianto di trattamento di rifiuti speciali non pericolosi in difformità dalla relativa autorizzazione.

Il contrasto riguardava il sistema di ventilazione forzata installato nel capannone di stoccaggio provvisorio del CDR (combustibile da rifiuti) decadente dal ciclo produttivo: l’autorizzazione ne consentiva infatti la messa in riserva (R13) funzionale al suo avvio a recupero energetico presso altri impianti, ma non anche la ventilazione forzata.

All’esame del Tar è stata posta la questione se tale attività fosse giuridicamente qualificabile come operazione di trattamento, o non dovesse invece ritenersi – come sostenuto dalla ricorrente – un’attività di semplice mantenimento delle caratteristiche merceologiche originarie del materiale, in quanto tale non bisognevole di autorizzazione.

Confermando una propria precedente decisione, con cui aveva definito un’identica controversia tra le medesime parti [1], il Tar Lombardia ha concluso che l’insufflazione di aria deve ritenersi a tutti gli effetti un’operazione di trattamento, per due ordini di ragioni.

Innanzitutto, secondo i Giudici, essa è tesa a far conseguire al CDR le caratteristiche di umidità che il D.M. 5 febbraio 1998 prescrive perché se ne possa fare impiego come combustibile [2].

Inoltre, la ventilazione incide sulla qualità delle emissioni in atmosfera e sui gas e sugli odori che il rifiuto produce, svolgendo così un ruolo significativo nel processo fisico di recupero.

I due profili sono tra loro complementari e, nel loro insieme, danno corpo a conclusioni condivisibili.

Da un punto di vista funzionale, l’attività di “conservazione” del materiale stoccato non pare avere una propria autonomia: il CDR, se privo delle necessarie caratteristiche tecniche, non può infatti essere avviato al recupero energetico, e in tale prospettiva non vi è differenza tra un’attività di essicazione volta a ridurre l’umidità dei rifiuti e la medesima attività di essicazione strumentale invece al mantenimento di caratteristiche che, in assenza di ventilazione, i rifiuti stoccati perderebbero.

Il tema sottende la questione dell’individuazione del momento in cui, cessata la qualifica di rifiuto, non trova più applicazione la relativa disciplina [3], nel cui contesto è “recupero” (e dunque “trattamento” [4]) ogni operazione volta a consentire ai rifiuti di svolgere un ruolo utile in sostituzione di altri materiali [5]: con riguardo specifico al CDR, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che “il recupero avviene soltanto nel momento stesso in cui la sostanza de qua svolge effettivamente una funzione utile, segnatamente all’atto della produzione di energia attraverso la combustione” [6]. Sino a tale momento, ogni attività integrante una modalità di gestione di beni giuridicamente qualificabili come rifiuti è soggetta alla relativa disciplina e, se funzionale al loro reimpiego utile, è attività di recupero [7].

Ascritta l’operazione in argomento alla categoria giuridica del trattamento di rifiuti, il Tar – si è detto – ha ritenuto insufficiente il pur esistente e valido titolo abilitativo all’esercizio dell’impianto, poiché esso non contemplava specificamente la ventilazione forzata tra le attività consentite.

Occorre precisare, al riguardo, che, secondo la ricorrente, l’insufflazione, sebbene non esplicitamente menzionata, avrebbe comunque dovuto ritenersi ricompresa nel perimetro dell’autorizzazione, poiché indicata nelle relazioni tecniche di progetto unite alla domanda di rilascio del titolo.

Si tratta allora di porsi l’interrogativo se possa configurarsi un’autorizzazione alla costruzione e gestione di un impianto di trattamento di rifiuti, i cui contenuti siano definiti per relationem in quanto integrati dalle previsioni progettuali proposte all’esame della competente Autorità amministrativa.

Al quesito deve rispondersi negativamente: è infatti vero che, a mente dell’art. 208 del codice dell’ambiente, la domanda è valutata sulla scorta del progetto definitivo dell’impianto e della relativa documentazione tecnica [8] e che l’Amministrazione autorizza la costruzione e gestione dell’impianto “in caso di valutazione positiva del progetto” [9], ma è anche vero che l’istruttoria deve essere condotta con l’obiettivo di acquisire e valutare “tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall’art. 177, comma 4” [10], e dunque con lo scopo di garantire che la gestione dei rifiuti si svolga “senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero arrecare pregiudizio all’ambiente” [11].

Ciascuna operazione deve allora essere specificamente autorizzata a valle di un esame che abbia determinato nell’Amministrazione il convincimento che essa, tanto individualmente quanto in relazione alla complessiva attività dell’impianto, non arrechi alcun vulnus ai beni (salute e ambiente) tutelati dalla disciplina di settore: il che deve tradursi, operativamente, in un provvedimento che non può avere contenuti impliciti, poiché, viceversa, il perimetro delle attività autorizzate non sarebbe delineato con un grado di certezza sufficiente a permettere il monitoraggio nel tempo del mantenimento delle condizioni di sicurezza [12].

L’interpretazione letterale trova dunque conforto in quella sistematica, che affonda le radici in quei principi fondamentali della materia nel cui solco si muove anche la decisione in commento, laddove afferma che di autorizzazione espressa vi è bisogno nella misura in cui un’attività (nel caso di specie, la ventilazione forzata), potendo influire sulle matrici naturali (nel caso di specie, incidendo sulle emissioni prodotte in atmosfera e sui gas e gli odori che il rifiuto produce), deve per ciò stesso ritenersi attività di “trattamento” [13].

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato Tanzarella_TAR Brescia, 885-2018

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[1] Il riferimento è a Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 1463, confermata da Cons. Stato, Sez. V, 17 novembre 2012, n. 5800, quest’ultima in Riv. Giur. Amb., 2013, 242, con nota di L. Prati, La nozione di <<trattamento>> dei rifiuti alla luce della ratio della norma.

[2] Come è noto, il D.M. 5 febbraio 1998 individua le condizioni specifiche di esercizio al ricorrere delle quali determinate attività di recupero di precise tipologie di rifiuti non pericolosi possono essere autorizzate in procedura semplificata: emanato nel vigore del Decreto Ronchi, ad esso opera tuttora rinvio l’art. 214, quarto comma, del Codice dell’ambiente. Per quanto qui di interesse, le condizioni di utilizzo dei rifiuti come combustibile sono definite nell’allegato 2, suballegato 1. In materia, si v. B. Albertazzi, Le procedure semplificate in materia di rifiuti: una novità che stenta a decollare, in Riv, Giur. Amb., 1998, 633.

[3] L’art. 184 ter, inserito nel codice dell’ambiente dall’art. 12, comma 1, del D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 e intitolato “cessazione della qualifica di rifiuto”, recepisce l’art. 6 della Direttiva n. 2008/98/CE e stabilisce che un rifiuto perde tale qualifica quando, essendo stato sottoposto ad un’operazione di recupero, soddisfi criteri specifici individuati caso per caso (vale a dire, per singola tipologia di rifiuti), secondo la pertinente disciplina dettata a livello comunitario o, in assenza, da uno o più regolamenti ministeriali. A mente del suo ultimo comma, “la disciplina in materia di gestione di rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto”. La tematica del c.d. “end of waste” sta alimentando un vivace dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, che si innesta sulle rilevanti difficoltà pratiche determinate dalla mancanza, per diverse categorie di rifiuti, di criteri per l’individuazione delle caratteristiche del prodotto finito: si rinvia, in proposito, a R. Gubello, La Regione non può decidere quando un rifiuto non è più rifiuto, nota a Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1229, in Riv. Giur Amb., 2018, 374.

[4] Ai sensi dell’art. 183, lett. s) del Codice dell’ambiente, la nozione di “trattamento” comprende “operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento”.

[5] Ai sensi dell’art. 183, lett. t) del Codice dell’ambiente, è “recupero” “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale”.

[6] CGUE, Sez. VIII, sentenza 22 dicembre 2008, causa C-283/07, § 63, in Foro it., 2009, IV, 173.

[7] Occorre segnalare che la categoria del CDR non è più prevista dal Codice dell’ambiente per effetto della riscrittura dell’art. 183 ad opera del D.lgs. n. 205/2010. Nel testo attualmente vigente è stata invece introdotta, alla lettera cc), la definizione di “combustibile solido secondario (CSS)”, espressamente qualificato come rifiuto speciale, fatta salva l’eventuale cessazione della qualifica di rifiuto la cui disciplina è recata, per tale categoria di rifiuti e in applicazione dell’art. 184 ter del Codice dell’ambiente, dal D.M. 14 febbraio 2013, n. 22.

[8] Art. 208, primo comma, del Codice dell’ambiente.

[9] Art. 208, sesto comma, del Codice dell’ambiente.

[10] Art. 208, quarto comma, lett. b), del Codice dell’ambiente.

[11] Art. 177, quarto comma, del Codice dell’ambiente.

[12] Quanto considerato trova ancora conferma nel testo dell’art. 208, il cui undicesimo comma individua i contenuti minimi dell’autorizzazione, tra i quali il seguente: “per ciascun tipo di operazione autorizzata, i requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti e alla modalità di verifica, monitoraggio e controllo della conformità dell’impianto al progetto approvato”.

[13] Non può che condividersi quanto annotato da L. Prati, La nozione di <<trattamento>> cit., secondo cui il precedente conforme alla sentenza qui annotata “valorizza la ratio della normativa che impone l’autorizzazione espressa del trattamento dei rifiuti, ratio dichiarata anche nel <<considerando>> n. 6 della direttiva 2008/98/CE, che ribadisce come <<l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente>>”, di talché, “in definitiva, nei casi dubbi il criterio diretto a considerare l’impatto ambientale e sanitario di una determinata operazione sembra essere effettivamente l’indice di maggior rilevanza per stabilire se l’operazione stessa consista in un autonomo <<trattamento>> del rifiuto.

 

 

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