Al vaglio della Suprema Corte gli elementi costitutivi del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti

04 Giu 2019 | giurisprudenza, penale

di Vincenzo Morgioni

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 28 febbraio 2019, n. 16056 – Pres. Izzo – Rel. Ramacci 

La recente decisione della Suprema Corte catturerà senz’altro  l’attenzione dell’interprete che si trovi a doversi confrontare con il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies, considerando che la pronuncia verte su alcuni dei punti nodali della fattispecie: la nozione di profitto, elemento portante del dolo “specifico” richiesto dalla norma, la natura abituale del reato e la nozione di “allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate”, attraverso cui il reo, secondo il disposto normativo,  dovrebbe  dar luogo a uno dei comportamenti puntualmente indicati dal legislatore.

Un breve inquadramento del delitto si rende necessario quantomeno per agevolare il lettore nella comprensione delle argomentazioni difensive e delle successive statuizioni della Suprema Corte.

Originariamente incardinato nel d.lgs. 152 del 2006 (da adesso anche solo T.U.A.) e successivamente trasportato nel corpo del titolo VI bis del codice penale a seguito del riordino sistematico intrapreso dal legislatore con il d.lgs. 1 marzo 2018 n. 21, il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies, rubricato come “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, punisce con la pena della reclusione chiunque al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti.

Esiste una diversità di opinioni sul bene giuridico protetto dalla fattispecie: a chi lo individua nella pubblica incolumità, si contrappongono la tesi volta a inquadrare l’interesse protetto esclusivamente nell’ambiente e la soluzione di equilibrio tesa, invece, a sottolineare la natura plurioffensiva del reato[1].

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, si tratta di un reato comune caratterizzato da una condotta a forma vincolata descritta attraverso un susseguirsi di termini tesi ad allargare quanto più possibile lo spettro applicativo della norma. Il comportamento criminoso deve essere perpetrato in forma “abusiva”, ovvero in violazione delle norme penali e amministrative che regolano l’esercizio dell’attività. Indubbia la natura di reato di pericolo presunto, posto che la sua configurabilità non richiede né la sussistenza di un vero e proprio danno all’ambiente né tantomeno la minaccia grave dello stesso[2].

L’elemento soggettivo, da individuarsi nel dolo specifico, è caratterizzato da una finalità di profitto che deve muovere il soggetto agente.

Ciò premesso e venendo al cuore delle questioni affrontate dalla pronuncia in esame, nel procedimento cui ha fatto seguito il ricorso dinanzi alla Suprema Corte l’indagato era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione al reato in esame, perché, secondo la tesi accusatoria “in concorso con altri, al fine di conseguire un ingiusto profitto [e] avvalendosi della disponibilità di mezzi riferibili alla società [di cui era socio, dipendente e amministratore unico] realizzava una vera e propria filiera del commercio illecito di ferro e acciaio dietro lo schermo della società, autorizzata unicamente al trasporto di rifiuti non pericolosi”.

Nello specifico, l’indagato avrebbe ricevuto “quotidianamente ingenti quantitativi di ferro, acciaio e, in alcuni casi, anche di rifiuti speciali e pericolosi, dietro il pagamento di un corrispettivo a soggetti conferitori” occultando la reale provenienza dei materiali attraverso la mancata compilazione o la falsificazione del formulario obbligatorio di cui all’art. 258 del T.U.A. In seconda battuta, tali materiali, dopo essere stati lavorati e stoccati, venivano poi rivenduti a un maggior prezzo ad altre società, “lucrando quindi sulla differenza e gestendo in questo modo abusivamente ingenti quantitativi di tali rifiuti a fini di profitto”.

Avverso il provvedimento cautelare la difesa aveva proposto istanza di riesame, rigettata con ordinanza dal GIP del Tribunale di Catanzaro successivamente impugnata avanti alla Suprema Corte.

Con riferimento ai temi di interesse per questa sede e tralasciando le questioni di natura squisitamente processuale, nel ricorso era stata dedotta innanzitutto la mancata individuazione del profitto ingiusto, atteso che tanto l’ordinanza applicativa della custodia cautelare quanto il successivo provvedimento del Tribunale non “avrebbero compiutamente indicato in che cosa esso sia consistito”. Tantomeno, argomento del secondo motivo di ricorso, potrebbe definirsi come “abituale” la condotta osservata dall’indagato, posto che “le attività oggetto di incolpazione sarebbero riferite ad un periodo limitato” di tempo. Infine, non sarebbe neppure stata ravvisabile un’organizzazione di mezzi, sia pure in forma rudimentale. In altri termini, la mancanza di un rapporto formale tra i coimputati e la società avrebbe impedito di ravvisare la sussistenza di un vero e proprio “allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate”, ulteriore elemento costitutivo della fattispecie contestata.

In ordine al primo motivo di ricorso, la Corte, preliminarmente, ha osservato come, secondo il consolidato orientamento sinora espresso, il profitto possa assumere non solo una connotazione strettamente patrimoniale, inteso come guadagno derivante dall’attività illecita, ma possa anche consistere in un semplice risparmio di spesa o in una riduzione dei costi sostenuti nell’ambito dell’esercizio dell’attività di impresa[3]. Interpretazione, a dire il vero, del tutto condivisibile atteso che, come rilevato nella sentenza in esame, “il rifiuto, dalla sua produzione e per tutte le fasi di gestione, genera costi nella maggior parte dei casi, in quanto la specifica disciplina di settore richiede adeguate misure di cautela e rigorosi controlli finalizzati alla prevenzione o riduzione degli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti”. Sicché la semplice inosservanza delle disposizioni che regolano la materia può comportare per i soggetti coinvolti “un notevole risparmio di spesa”.

Applicando tale ragionamento al caso sottoposto alla Sua attenzione, la Corte ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso considerato che dal compendio probatorio era emerso in maniera limpida che l’indagato avesse svolto “una serie di attività di gestione di rifiuti per la quale non disponeva di alcuna autorizzazione” ricevendo, inoltre, dai conferitori “una considerevole quantità di rottami ferrosi peraltro di incerta provenienza che poi rivendeva a prezzo maggiore”.

Passando al secondo motivo, per la Suprema Corte la breve durata del periodo temporale in cui si sarebbero realizzati i comportamenti criminosi non ne escluderebbe l’abitualità. Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità aveva già chiarito come la verifica della rilevanza penale della condotta osservata non si debba fondare solo sul mero dato numerico (due o più episodi) ma si debba estendere fino a sondare la sussistenza degli altri elementi della fattispecie, come il compimento di più operazioni e l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, finalizzate alla abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti[4]. E questo, sul presupposto che “tale valutazione complessiva consentirebbe di superare agevolmente eventuali margini di incertezza proprio in ragione della sostanziale pianificazione e strutturale organizzazione della condotta che la norma richiede”. Tutti aspetti che la Corte ha ritenuto adeguatamente esplorati e valorizzati nel provvedimento impugnato, con la conseguenza che anche in relazione a tale secondo profilo non possono trovare accoglimento le tesi esposte dalla difesa.

Con riferimento all’ultimo punto di interesse della pronuncia in esame, la Corte ha osservato come il requisito dell’allestimento di mezzi e persone possa dirsi sussistente anche in presenza di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale idonea a realizzare l’obiettivo criminoso preso di mira anche se essa non sia destinata in via esclusiva alla realizzazione di attività illecite. In tale ottica, l’essere titolare di un’impresa in cui l’attività criminosa è esercitata in modo marginale rispetto alla principale attività lecitamente svolta, sarebbe indicativa della sussistenza di quella predisposizione di mezzi che la norma richiede. Nel caso di specie non vi è nessun dubbio che l’indagato abbia gestito e diretto l’impresa durante il periodo oggetto di contestazione, anche avvalendosi della collaborazione degli altri coimputati che, seppur non legati formalmente da alcun rapporto di lavoro, erano stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza mentre “partecipavano attivamente all’illecita attività, alcuni dirigendo le singole operazioni, altri svolgendo compiti di mera manovalanza”.

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato Morgioni_Cass. pen. 16056-2019

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[1] Per un approfondimento sul tema si vedano C. Ruga Riva, Diritto Penale dell’Ambiente, Giappichelli Editore, 2011, p.147. V. Tuffariello, I delitti ambientali, Giuffrè Editore, 2008, p.221.

[2] Sul punto, Cass. pen., sez. III, 2 maggio 2013 n. 26404.

[3] Sul punto, ex multis Cass. pen., sez. III, 28 giugno 2017, n. 53136; Cass. pen., sez. III, 10 novembre 2005, n. 40828.

[4] Cass. pen., sez. III, 14 luglio 2016, n. 52838; Cass. pen., sez. III, 22 ottobre 2015, n. 44629.

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