Acque meteoriche di dilavamento o acque reflue industriali?

20 Mag 2021 | giurisprudenza, penale, in evidenza 2

di Alberta Leonarda Vergine

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 24 febbraio 2021 (dep. 23 marzo 2021), n. 11128 – Pres. Di Nicola, Est. Ramacci – ric. A.M.

Sono da considerare “acque reflue industriali” qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono le attività commerciali o di produzione di beni diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento.

Per “acque meteoriche di dilavamento”, mancando una chiara definizione normativa, debbono intendersi quelle originate da una precipitazione atmosferica che, non evaporate o assorbite dal suolo, esercitano un’azione di dilavamento della superficie sulla quale scorrono, mentre le “acque di prima pioggia” sono quelle che cadono su una determinata superficie nella fase iniziale della precipitazione atmosferica con effetti di dilavamento maggiormente incisivi  in relazione proprio a tale dato temporale ed alle condizioni in cui originariamente versa la superficie raggiunta dalle acque.

La sentenza in commento conclude una vicenda processuale un po’ particolare, almeno per come riassunta del relatore.

Sembra infatti che nel capo di imputazione si fossero contestate al ricorrente due condotte penalmente rilevanti: l’una, punita dal comma 9 dell’art. 137 T.U.A., integrata dal fatto di non avere presentato nei termini previsti dalla normativa regionale il piano di prevenzione e gestione delle acque meteoriche; la seconda, riconducibile al comma 1 dell’art. 137, per avere “al contempo, effettuato nuovi scarichi di acque reflue industriali” in assenza di previa autorizzazione.

Tuttavia la sentenza di condanna è relativa solo alla prima condotta; la seconda, “sebbene espressamente contestata, non è stata però presa in considerazione dal giudice del merito, il quale si è limitato a considerare soltanto la prima parte dell’imputazione, ignorando del tutto la seconda, sulla quale ha taciuto del tutto”. E già ciò sarebbe abbastanza singolare, come singolare è il fatto che il P.M. non abbia ritenuto di impugnare la sentenza del Tribunale sul  punto, ma altrettanto singolare è che la difesa dell’imputato nei motivi di ricorso contro la decisione – che, si ripete, solo della prima contestazione si occupa abbia ritenuto di dover lamentare anche che, se fosse stato “corretto l’inquadramento della fattispecie, [ciò] avrebbe escluso anche la sussistenza dell’ulteriore condotta contestata nella seconda parte del capo di imputazione, relativa alla effettuazione di scarichi non autorizzati di acque reflue industriali” sulla quale, come si è appena evidenziato, il Tribunale tuttavia “ha taciuto del tutto”.

L’utilità di questa censura difensiva, sinceramente, ci sfugge. Comunque sia, la Corte doveva giudicare sui motivi di ricorso presentati dal ricorrente contro la condanna per il reato di cui al comma 9 dell’art. 137, in specie su quello per il quale “le violazioni della disciplina regionale adottata per regolare le modalità di gestione, trattamento ed immissione delle acque meteoriche di dilavamento non sarebbe soggetta al regime sanzionatorio di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, ciò in quanto le acque di dilavamento e di prima pioggia, quali quelle oggetto del giudizio, non sarebbero assimilabili alle acque reflue industriali e, pertanto, sarebbero soggette alla diversa disciplina specifica applicabile in ragione del combinato disposto del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 133, comma 9 e art. 113, comma 1, lett. b) con la conseguenza che, in caso di violazione, sarebbe applicabile la sola sanzione amministrativa pecuniaria”. Anche questo motivo di ricorso, almeno per come riassunto dalla sentenza in commento, non brilla per lucidità espositiva. Comunque sia, ci saremmo aspettati che di fronte a tale affermazione la Corte si limitasse a osservare, come ha fatto nelle ultime pagine della lunga motivazione, “come, trattando l’art. 7 [del Regolamento della regione Piemonte citato nel capo di imputazione] delle acque di prima pioggia e di lavaggio con riferimento, per quel che rileva, agli impianti stradali e lacuali di distribuzione del carburante di cui alla lett. b) del medesimo articolo, nel caso di specie, per l’inosservanza delle disposizioni del medesimo regolamento, si versa, pacificamente, nell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 113, comma 3 penalmente sanzionata, in caso di inosservanza della disciplina regionale, ai sensi dell’art. 137, comma 9 e non anche, come sostiene il ricorrente, nella diversa ipotesi di inottemperanza alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. b) che comporta l’applicazione della sola sanzione amministrativa pecuniaria”. E, quindi, si limitasse a rigettare il ricorso. Invece la Corte di Cassazione, prendendo spunto dal richiamo operato dalla difesa del ricorrente alla seconda contestazione del capo di imputazione, sulla quale, ribadiamo, il Tribunale in sentenza “ha taciuto”, e alla considerazione dalla stessa formulata con la quale si negava che le acque meteoriche di prima pioggia potessero considerarsi acque reflue industriali che, quindi, quando scaricate senza autorizzazione, avrebbero integrato il reato di cui al comma 1 dell’art. 137, ha ritenuto necessario “formulare alcune considerazioni ulteriori al fine di meglio inquadrare la questione che, pur presentando ancora profili non ben definiti a causa delle modalità con le quali le singole disposizioni sono state strutturate, vede ormai consolidato un indirizzo giurisprudenziale che può definirsi maggioritario e che deve essere, sostanzialmente, confermato”.

Tuttavia, l’ammissione esplicita che sulla questione è opportuno vadano fatte “ulteriori” considerazioni, che la stessa presenti ancora “profili non ben definiti”, il fatto che la Corte abbia utilizzato il verbo servile “potere” (può definirsi) e il fatto che abbia impiegato l’avverbio di modo “sostanzialmente” a limitare la portata della conferma dell’indirizzo citato, a avviso di chi scrive rappresentano importanti  indici di permanenti incertezze interpretative anche all’interno della Suprema Corte, incertezze che dovrebbero finalmente indurre il legislatore a fornire una indicazione espressa e inequivoca sulla questione, visto che, nonostante la dottrina lo richieda da tempo[i], non si è ancora posta la questione alle Sezioni Unite per risolvere il contrasto interpretativo implicitamente ammesso anche dalla sentenza in commento.

Rinviando al testo della sentenza per l’illustrazione dei precedenti sul punto, vale ora la pena di rapidamente proporre e commentare alcune delle affermazioni contenute nella lunga digressione in punto di disciplina delle acque meteoriche di dilavamento che precede la motivazione, in senso stretto, con la quale la Corte ha rigettato il ricorso.

La Corte afferma anzitutto “la netta distinzione tra le acque meteoriche di dilavamento in genere che l’art. 113, commi 1 e 2 evidentemente presuppone non contaminate […] e quelle di prima pioggia e di lavaggio”.

Tuttavia non riusciamo a capire: la lett. b) del comma 1 si riferisce ai “casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione”; se queste acque meteoriche sono “evidentemente” presupposte dal legislatore “non contaminate”, perché mai dovrebbero essere “sottoposte a particolari prescrizioni”? Comunque, la Corte prosegue affermando che “al di fuori di tali casi specifici, si pone dunque il problema di come valutare casi differenti che non rientrano nelle particolari previsioni dell’art. 113, dovendosi senz’altro escludere che, in mancanza dei presupposti per l’applicazione di tale disposizione o in assenza di specifiche disposizioni regionali, situazioni che possono anche determinare un serio pericolo di inquinamento debbano intendersi sottratte alle disposizioni del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ciò non soltanto perché una simile soluzione interpretativa sarebbe irragionevole, ma anche perché l’art. 113, comma 2, come si è visto, esclude l’assoggettabilità alla disciplina generale di cui alla Parte Terza del decreto soltanto per le acque meteoriche diverse da quelle di cui al comma 1, che, in quanto tali, si presuppone mantengano la loro composizione originaria”.

Ancora una volta ci interroghiamo su quali possano essere questi “casi differenti”. Dovrebbero essere acque meteoriche non riconducibili a quelle di cui al comma 1 dell’art. 113, ma neppure riconducibili alle acque meteoriche di prima pioggia e di lavaggio di cui al comma 3. Ma non riusciamo a immaginare altri “casi”.

Comunque, se si legge con particolare attenzione il passo riportato, ci si avvede che la questione che sembra porsi la Corte forse è relativa non tanto alla individuazione dei casi di acque meteoriche di dilavamento “diversi” da quelli disciplinati dall’art. 113, quanto alla disciplina applicabile in caso di mancanza di specifica normativa regionale sulle acque meteoriche.

Per “riempire” questo “vuoto” di disciplina, tuttavia, viene proposta dalla Corte una soluzione, già in altre occasioni prospettata[ii], e a avviso non solo di chi scrive non condivisibile[iii], che vedrebbe, nel caso, una sorta di “trasfigurazione”[iv] delle acque meteoriche di dilavamento contaminate da sostanze inquinanti o pericolose, in acque reflue industriali.

La Corte, infatti, con riferimento ad acque meteoriche di dilavamento che siano venute a contatto con sostanze inquinanti o pericolose, nel caso particolare in cui “non si sia in presenza di un dilavamento conseguente ad un fenomeno meteorologico che, attraverso la normale azione di erosione di una superficie impermeabile, determini la commistione delle acque piovane con polveri, detriti normalmente presenti sul suolo”, sostiene che le stesse “perdono la loro originaria consistenza divenendo sostanzialmente il mezzo attraverso il quale altre sostanze vengono veicolate verso un determinato corpo ricettore, un mero componente di un refluo di diversa natura oppure un elemento di diluizione di altre sostanze ma, certamente, non possono essere più considerate come semplici acque meteoriche di dilavamento” e che “conseguentemente deve ritenersi che, al di fuori delle specifiche ipotesi disciplinate dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 113, sussistendone i presupposti, saranno applicabili alle acque di cui si tratta la disciplina degli scarichi delle acque reflue industriali ovvero quella sui rifiuti liquidi”.

Ribadiamo che la tesi ci sembra tanto ardita, quanto inaccettabile.

Se le Regioni non disciplinano le acque meteoriche di dilavamento “contaminate” – che a nostro avviso sono ben descritte nel comma 3 dell’art. 113 T.U.A.,  come  acque meteoriche di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne quando, “in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici” – queste non possono perdere la loro natura di acque meteoriche di dilavamento per trasformarsi in acque reflue industriali  a causa di questa mancanza di specifica disciplina.

Oltre a tutto sarebbe interessante verificare con precisione quante regioni non hanno disciplinato le acque meteoriche di dilavamento. Chi scrive ha fatto una sommaria indagine e sembrerebbe che tutte abbiano provveduto. Chi con regimi molto rigorosi – come ad esempio la Regione Veneto, che all’art. 39 del Piano tutela acque ha disposto che “per le superfici scoperte di qualsiasi estensione, facenti parte delle tipologie di insediamenti elencate in Allegato F, ove vi sia la presenza di: a) depositi di rifiuti, materie prime, prodotti, non protetti dall’azione degli agenti atmosferici; b) lavorazioni; c) ogni altra attività o circostanza, che comportino il dilavamento non occasionale e fortuito delle sostanze pericolose di cui alle Tabelle 3/A e 5 dell’Allegato 5 del D.lgs. n. 152/2006, Parte terza, che non si esaurisce con le acque di prima pioggia, le acque meteoriche di dilavamento sono riconducibili alle acque reflue industriali”  (comma 1) e che nei  “casi di: a) piazzali, di estensione superiore o uguale a 2000 m2 , a servizio di autofficine, carrozzerie, autolavaggi e impianti di depurazione di acque reflue; b) superfici destinate esclusivamente a parcheggio degli autoveicoli delle maestranze e dei clienti, delle tipologie di insediamenti di cui al comma 1, aventi una superficie complessiva superiore o uguale a 5000 m2; c) altre superfici scoperte scolanti, diverse da quelle indicate alla lettera b), delle tipologie di insediamenti di cui al comma 1, in cui il dilavamento di sostanze pericolose di cui al comma 1 può ritenersi esaurito con le acque di prima pioggia; d) parcheggi e piazzali di zone residenziali, commerciali o analoghe, depositi di mezzi di trasporto pubblico, aree intermodali, di estensione superiore o uguale a 5000 m2; e) superfici di qualsiasi estensione destinate alla distribuzione dei carburanti nei punti vendita delle stazioni di servizio per autoveicoli, le acque di prima pioggia sono riconducibili alle acque reflue industriali” (comma 3) – chi operando scelte molto “personalizzate” e disegnate a misura di singolo caso, come ad esempio il Piemonte (la Regione sul cui territorio è stato commesso il fatto per il quale è stata causa) che ha preferito optare per “una regolamentazione molto snella sotto il profilo burocratico-amministrativo, che non contempla alcuna vera e propria autorizzazione e nemmeno limiti di accettabilità mutuati dalla disciplina degli scarichi industriali, bensì la predisposizione, approvazione con eventuali prescrizioni e attuazione di un Piano di prevenzione e gestione fondato su una attenta e concreta valutazione del rischio. Quella di non optare per una disciplina della materia ancorata al regime autorizzativo ed ai limiti di accettabilità tipica degli scarichi è stata una precisa scelta dell’Amministrazione regionale nell’ambito dell’autonomia riconosciutale sull’argomento dalla normativa statale. Quest’ultima, infatti, non solo non qualifica tali immissioni come scarichi, ma soprattutto demanda alle Regioni il compito di emanare una disciplina specificamente mirata al contenimento dell’impatto derivante dai rilasci in questione, senza necessariamente ancorarla a quella delineata per gli scarichi in senso stretto, rivelatasi per un verso eccessiva e per un altro inadeguata alla soluzione dei problemi ambientali che tali restituzioni creano. La particolare severità delle sanzioni penali […] e l’esigenza per la Pubblica amministrazione di poter espletare appieno le proprie funzioni di controllo richiedono che tutti i titolari degli impianti e degli insediamenti ricadenti nell’ambito di applicazione definito dall’articolo 7 del regolamento regionale presentino comunque il Piano di prevenzione e gestione, anche qualora lo stesso dimostri che l’assenza di un rischio di contaminazione delle acque di prima pioggia e di lavaggio di aree esterne, derivante dalle soluzioni gestionali adottate, consente di non realizzare appositi manufatti di raccolta e/o trattamento delle predette acque”. In questi termini le “Precisazioni in merito al Regolamento regionale 20 febbraio 2006, n. 1/R recante la disciplina delle acque meteoriche di dilavamento e delle acque di lavaggio di aree esterne, come modificato dal regolamento regionale 2 agosto 2006, n. 7/R.” riportate in calce al suddetto regolamento.

Posto ciò, ci domandiamo, piuttosto perplessi, quando mai potremo trovarci nella situazione descritta dalla Suprema Corte, che si verificherebbe quando si fosse in una situazione di “mancanza dei presupposti per l’applicazione [dell’art. 113] o in assenza di specifiche disposizioni regionali”, che dovrebbe consentirebbe la “trasfigurazione” delle acque meteoriche di dilavamento in acque reflue industriali.

Un ultimo rilievo: la Corte, esaminato il caso posto alla sua attenzione e concluso che, “nel caso di specie […] si versa, pacificamente, nell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 113, comma 3 penalmente sanzionata, in caso di inosservanza della disciplina regionale, ai sensi dell’art. 137, comma 9”, ritiene opportuno formulare qualche considerazione relativamente alla già segnalata singolarità della decisione impugnata che “ha taciuto” sulla seconda contestazione di cui al capo di imputazione. Al proposito, evidenziato come il capo di imputazione contenga “una descrizione della condotta riferita non soltanto alla inosservanza della disciplina regionale, ma anche alla contestuale effettuazione, da parte dell’imputato, dello scarico di acque reflue industriali, così evidentemente qualificati quelli scaricati [sic la decisone] con le modalità pure descritte nel medesimo capo di imputazione”, conclude asserendo che “tale specifica condotta coinciderebbe, per le ragioni dianzi esposte, con uno scarico di acque reflue industriali autonomamente sanzionato dall’art.137, comma 1, tali potendosi in teoria qualificare quelle, pacificamente diverse dalle acque meteoriche di dilavamento, di prima pioggia e di lavaggio”. Il ragionamento non ci è chiaro. La Corte ha sostenuto che “in mancanza dei presupposti per l’applicazione [dell’art.113] o in assenza di specifiche disposizioni regionali”, quelle acque non dovrebbero essere più considerate meteoriche di dilavamento, ma acque reflue industriali, ovviamente in presenza di uno scarico ai sensi dell’art. 74 D.Lgs. n. 152/2006.

Ma è la stessa Corte che afferma che le acque di dilavamento per le quali è causa, rientrano tra quelle di cui all’art. 113 T.U.A., e allora quali sarebbero le acque reflue industriali scaricate senza autorizzazione che incomprensibilmente, per la Corte, non sono state prese in considerazione dalla sentenza impugnata?

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

Cass. n. 11128-21

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Vergine – scarichi – maggio 2021

Note:

[i] Per tutti, C. Melzi d’Eril Sulla assimilabilità di acque meteoriche e acque reflue industriali, in Lexambiente, 2018, 1, p. 9.

[ii] Cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 22 gennaio 2015, n. 2832, in questa Rivista, 2015, 1, pp. 62 ss.

[iii] Cfr. A. L. Vergine, L’evanescente certezza del diritto. La “marcia indietro” della Cassazione in tema di acque meteoriche di dilavamento, in questa Rivista, 2015, 1, pp. 62 ss.; C. Melzi d’Eril, op. e loc. cit.; A. Muratori, Acque meteoriche di dilavamento: i ripensamenti della Cassazione e l’ineffabile (in)certezza del diritto (nota a Cass. Pen. n. 2832/2015), in Ambiente&Sviluppo, 2015, pp. 153 ss.; C. Melzi d’Eril, Reflui industriali, acque meteoriche di dilavamento: arresti (e qualche inciampo) nella giurisprudenza, in Ambiente&Sviluppo, 2013, pp. 724 ss.; G. Ripa, Acque meteoriche di dilavamento: se contaminate, per la giurisprudenza di legittimità sono da considerarsi reflui industriali, in questa Rivista, 2018, 3, pp. 548 ss.

[iv] Così A. L. Vergine, op. cit., p. 72.

 

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