Abbandono di rifiuti e nozione di enti: la riaffermata configurabilità del reato in capo alle associazioni

15 Ott 2019 | giurisprudenza, penale

di Elisa Marini

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 29 maggio 2019, n. 23794 – Pres. Izzo, Est. Ramacci – ric. M.G. D.F.

Nella nozione di enti cui fa riferimento l’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 rientrano anche le associazioni, ed integra il reato sanzionato da tale disposizione l’abbandono, da parte del legale rappresentante di un’associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo, dei rifiuti derivanti da tale attività.

La sentenza in commento ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta – nelle forme dell’appello, convertito in ricorso per cassazione (ex art. 568, comma 5, c.p.p.) – nell’interesse del presidente di un’associazione di tiro a volo, condannato dal Tribunale di Palermo alla pena dell’ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006, per aver abbandonato in modo incontrollato ed illecitamente smaltito, nelle aree in cui veniva svolta l’attività dell’associazione ed in quelle limitrofe, rifiuti derivanti dalla medesima attività (piattelli rotti, pallini in piombo, bossoli di cartucce vuote, ecc.) [1].

Dopo aver dedotto, in via preliminare, la nullità dell’ordinanza di correzione dell’errore materiale del dispositivo, con la quale veniva eliminata la pena detentiva precedentemente irrogata, l’imputato articolava la propria impugnazione in tre motivi, rispettivamente concernenti: l’errore in cui sarebbe incorso il Tribunale nell’attribuirgli la qualifica di soggetto attivo della condotta contestata; la sostenuta idoneità del sito utilizzato per la gestione dei rifiuti, che sarebbe avvenuta nel rispetto della normativa di settore; l’irrilevanza, affermata dal Tribunale, della classificazione dello stesso sito come area soggetta ad attività industriale, che sarebbe stata dimostrata dalla documentazione afferente alle misure cautelari ivi applicate, e successivamente revocate.

La Corte di Cassazione, dopo una opportuna premessa sull’istituto della conversione dell’impugnazione disciplinato dall’art. 568, comma 5, c.p.p., e sul principio della conservazione degli atti su cui lo stesso si fonda, ha affermato la parziale adeguatezza dell’impugnazione (originariamente presentata, come detto, nelle forme dell’appello) ai requisiti del ricorso per cassazione, e la contestuale infondatezza delle censure rispetto alle quali avrebbe potuto ritenersi superato il vaglio di ammissibilità.

In merito all’argomento preliminare di carattere processuale, relativo alla correzione dell’errore materiale del dispositivo, la Suprema Corte – pur riconoscendo la superficialità con la quale il Tribunale aveva riqualificato l’imputazione senza dichiararlo formalmente, a fronte del riconoscimento della natura non pericolosa dei rifiuti oggetto di imputazione – ha risolto (con il supporto di numerosi precedenti giurisprudenziali, contestualmente richiamati) la questione del paventato contrasto tra dispositivo e motivazione, affermando la mera apparenza del medesimo laddove possa ritenersi che, come nel caso di specie, ricorra un “errore materiale obiettivamente riconoscibile”, e non senza osservare come la correzione si sia risolta in un indubbio vantaggio per l’imputato, con tutto ciò che ne consegue in termini di interesse all’impugnazione.

A questa prima parte, di esclusivo rilievo procedurale, segue quella che propriamente interessa nell’odierna sede, concernente il profilo ambientale, e segnatamente la delimitazione dei soggetti attivi del reato di abbandono di rifiuti.

È opportuno premettere che si tratta dell’unico argomento oggetto di doglianza su cui la Suprema Corte ha compiutamente preso posizione, avendo “liquidato” le questioni trattate nel secondo e nel terzo motivo con una lapidaria declaratoria di inammissibilità, determinata dalla richiesta rivalutazione della vicenda sotto profili di merito, ed accompagnata da una sintetica osservazione relativa all’irrilevanza del luogo ove vengono poste in essere le condotte di abbandono o illecita gestione dei rifiuti.

Ebbene, la Corte di Cassazione – laddove, anche in tale frangente, non abbia ritenuto l’impugnazione radicalmente inammissibile per violazione delle preclusioni del sindacato di legittimità – ha dichiarato manifestamente infondata la questione relativa alla non riferibilità all’imputato delle condotte oggetto di contestazione; questione che la difesa aveva sostenuto facendo leva sulla impossibilità di ricondurre il presidente di un’associazione dilettantistica senza scopo di lucro, che non esercita neanche di fatto un’attività economica, tra i soggetti indicati nel secondo comma dell’art. 256 T.U.A.

Richiamando, in particolare, le argomentazioni sviluppate da precedenti pronunce emesse dalla medesima sezione[2], la Suprema Corte ha respinto la tesi difensiva affermando – o meglio, ribadendo, trattandosi di un orientamento ormai pacifico – che il reato in esame è configurabile nei confronti di ogni ente giuridico, compresi quelli con finalità non lucrative (quali, dunque, le associazioni), in quanto ai fini della eventuale attribuzione della condotta penalmente rilevante deve considerarsi il presupposto della “organizzazione stabile di più persone per lo svolgimento di un’attività comune”, che consentirebbe di superare la presunzione di minore impatto ambientale dell’analoga condotta del singolo soggetto privato (che si limiti a smaltire i propri rifiuti senza alcun intento economico), al quale si applica la mera sanzione amministrativa[3].

Tale conclusione è stata sostenuta sulla base di due argomenti: il primo – legato all’evoluzione normativa della disciplina in materia di abbandono di rifiuti – concernente la massima estensione del novero delle persone giuridiche a cui può riferirsi la sanzione penale; il secondo – collegato al primo, e corroborato dalla consolidata interpretazione ermeneutica fornita dalla giurisprudenza di legittimità[4] – relativo alla irrilevanza dell’attribuzione formale dei ruoli di titolare dell’impresa e responsabile dell’ente.

Più in particolare, la sentenza ha precisato che, con la soppressione dal testo originario della norma in commento – ossia dall’art. 51 D.Lgs. n. 22/1997, da parte della L. n. 426/1998 –– dell’inciso “che effettuano attività di gestione dei rifiuti”, l’ambito di operatività del reato si è esteso ad ogni impresa avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c., e a “qualunque ente con personalità giuridica o operante di fatto”.

Sulla scorta della suddetta modifica legislativa, la Suprema Corte ha confermato il proprio indirizzo esegetico – riferito, peraltro, anche all’attività di tiro a piattello, in relazione al rappresentante dell’associazione di tiro a volo[5] – orientato a ritenere che il reato in esame possa essere commesso anche da titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato rifiuti diversi da quelli di propria produzione (in quanto il secondo comma dell’art. 256 T.U.A. richiama il primo solo rispetto al trattamento sanzionatorio, e non anche per il precetto), escludendo contestualmente che “nella individuazione del titolare d’impresa o del responsabile dell’ente, debba farsi riferimento alla formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta.[6].

Attagliandosi, dunque, alla legislazione da un lato, ed alla giurisprudenza dall’altro, la Corte di Cassazione ha attribuito il “deficit di tassatività” dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 nell’individuazione dei soggetti attivi del reato alla finalità di dilatare al massimo l’operatività della norma, in modo da ricomprendervi qualunque ente giuridico, compresi quelli associativi senza scopo di lucro.

La caratteristica della stabile organizzazione di più persone per lo svolgimento di un’attività comune ha consentito ai Giudici di legittimità di superare la presunzione di minore incidenza sull’ambiente dell’abbandono di rifiuti eventualmente posto in essere da associazioni non lucrative; presunzione che la legge ha riservato al singolo soggetto privato, per il quale soltanto ha stabilito un trattamento sanzionatorio di esclusivo rilievo amministrativo.

Le suesposte considerazioni sono state circoscritte alla condotta di abbandono, senza estensioni a quella di illecita gestione, rispetto alla quale la Suprema Corte si è limitata ad osservare il solo rilievo della mancanza del titolo abilitativo, unitamente alla non assoluta occasionalità della condotta.

Molto significativa, in ordine alla questione esaminata, è la valutazione “sostanzialistica” sviluppata in una delle sentenze richiamate (e fatte proprie) da quella in commento[7], che ha precisato come non possa residuare alcun dubbio sul fatto che “un’attività altamente inquinante quale quella del tiro a volo, che produce una quantità di rifiuti non indifferente ed anche di un certo impatto sull’ambiente, quali pallini in piombo, plastiche e bossoli esplosi, ripetuta nel tempo (…) ed esercitata da più persone, rientri pienamente tra quelle considerate maggiormente a rischio dal legislatore.”.

Una pronuncia, dunque, che si pone in assoluta continuità rispetto al passato, e che risulta coerente anche dal punto di vista sistematico.

Esaminando, difatti, la parte introduttiva della relazione ministeriale che ha accompagnato l’entrata in vigore, nel nostro ordinamento, del provvedimento legislativo “per eccellenza” in tema di enti, ossia – ovviamente – il D.Lgs. n. 231/2001, emerge un dato assolutamente significativo sotto il profilo terminologico: viene difatti espressamente sottolineato che “l’inequivoca volontà della delega[8] di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica ha suggerito l’uso del termine “ente” piuttosto che “persona giuridica” (il segno linguistico avrebbe dovuto essere dilatato troppo al di là della sua capacità semantica).”.

Si tratta, dunque, di una precisa ed espressa scelta del legislatore.

Traslando le suesposte considerazioni al caso giuridico che ci occupa, le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione non possono che rivelarsi attese.

Posto che l’abbandono di rifiuti è un reato proprio[9], e che il discrimine tra l’illecito amministrativo e quello penale, a parità di condotta, è stato individuato nello status dell’autore delle condotte previste dal secondo comma dell’art. 256 T.U.A., è certamente più appropriato discutere sull’opportunità e l’adeguatezza della scelta legislativa, piuttosto che sulla relativa applicazione giurisprudenziale.

A tal proposito, la dottrina più autorevole si è espressa manifestando le proprie perplessità in ordine al criterio soggettivo di attribuzione della responsabilità, evidenziando – in maniera assolutamente condivisibile, ad avviso di chi scrive – la potenziale irrilevanza, sotto il profilo del pericolo o del danno all’ambiente, della qualifica soggettiva dell’autore, in quanto non direttamente incidente sul grado dell’offesa, e paventando dubbi di legittimità costituzionale della norma con riferimento al principio di uguaglianza[10].

Pur definendo non irragionevole la presunzione di maggiore pericolosità e frequenza di abbandoni di rifiuti posti in essere nell’ambito di attività organizzate (di imprese o enti), piuttosto che da privati, si è difatti posta l’attenzione su alcuni casi “limite”, in cui il criterio individuato dal legislatore non si dimostra necessariamente efficace: si pensi, ad esempio, all’imprenditore o – per restare in tema – al responsabile di un ente che abbandoni o depositi modeste quantità di rifiuti non pericolosi, destinatario della sanzione penale, contrariamente al privato che depositi ingenti quantità di rifiuti pericolosi, soggetto alla sola sanzione amministrativa.

La stessa dottrina ha dunque suggerito che sarebbe stato più opportuno “fondare il discrimine tra illecito penale e illecito amministrativo sulla natura dei rifiuti abbandonati (pericolosi o non pericolosi) e/o sulla loro quantità (significativa/esigua)[11].

Si tratta, ad ogni modo, di scelte che sarebbero spettate al legislatore, la cui volontà – alla luce di quanto sopra – è stata correttamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, e costantemente riaffermata, da ultimo con la pronuncia in commento.

Per il testo della sentenza Cass. Penale, Sez. III n. 23794 del 29 maggio 2019 (estratto dal sito della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato

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Note 

[1] La contestazione riferiva la condotta di abbandono alla lettera b) del primo comma dell’art. 256 T.U.A., relativa ai rifiuti pericolosi. All’esito dell’accertamento dibattimentale si era invece accertata la natura non pericolosa dei medesimi rifiuti, senza, tuttavia, che l’imputazione fosse formalmente riqualificata.

[2] Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2017, n. 20237; Corte Cass. pen., Sez. III, 27 giugno 2013, n. 38364 (sentenza che, in applicazione dello stesso principio, ha ritenuto soggetto attivo del reato anche l’imprenditore agricolo).

[3] La norma di riferimento è l’art. 255, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.

[4] Oltre ai precedenti espressamente richiamati dalla sentenza in commento, si sono poste sulla stessa linea anche Corte Cass. pen., Sez. III, 19 dicembre 2014, n. 52773 (relativa ad un caso di trasporto di rifiuti con autocarro di proprietà di una società il cui amministratore aveva impostato la propria difesa ipotizzando che l’abbandono potesse costituire il risultato di una iniziativa autonoma del conducente del mezzo) e Corte Cass. pen., Sez. III, 10 febbraio 2015, n. 5933 (relativamente al titolare di una piccola impresa individuale edile, in un caso di trasporto di rifiuti effettuato presso una discarica autorizzata, ma senza iscrizione all’albo).

[5] Sul punto, la Corte di Cassazione ha richiamato alcuni propri precedenti, tra cui: Corte Cass. pen., Sez. III, 7 marzo 2013, n. 19472; Corte Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2010, n. 12448; Corte Cass. pen., Sez. III, 19 dicembre 2007, n. 4733.

[6] La Suprema Corte, in una pronuncia antecedente – ovvero Corte Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 2014, n. 47662 –, aveva già avuto modo di individuare come segue gli indici rivelatori del fatto che un soggetto operi come imprenditore di fatto, e non come privato cittadino: a) utilizzo di mezzi e modalità che eccedono quelli normalmente nella disponibilità del privato; b) natura e provenienza dei materiali; c) quantità e qualità dei soggetti autori della condotta. Sul punto, per approfondimenti, si segnalano: P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2015, pp. 480 e ss.; C. Bray, Sulla configurabilità dell’abbandono di rifiuti: soggetto attivo e momento consumativo del reato (istantaneo o permanente?), in www.penalecontemporaneo.it.

[7] Il riferimento va alla già menzionata Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2017, n. 20237.

[8] Trattasi della L. 29 settembre 2000, n. 300, recante la “Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica”.

[9] Come stabilito da Corte Cass. pen., Sez. III, 17 gennaio 2012, n. 5042. Sul punto si evidenziano anche altre pronunce, che hanno ammesso il concorso del privato nel reato commesso dall’imprenditore: Corte Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 30123; Corte Cass. pen., Sez. III, 17 gennaio 2012, n. 19438.

[10] C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, pp. 153 ss.

[11] C. Ruga Riva, op. cit., p. 154.

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