Le interviste del Direttore: Claudia Tebaldi

30 Set 2022 | focus, esperienze dell'amministrazione, articoli, contributi

Stefano Nespor intervista Claudia Tebaldi

Per cominciare mi dica qualcosa della sua vita

Negli Stati Uniti dal ’93, dopo una laurea alla Bocconi in Economia Politica ho conseguito il PhD in Statistica a Duke e poi sono divenuta ricercatrice per gran parte del tempo al National Center for Atmospheric Research, a Boulder. Sono anche legata ad una organizzazione non-profit che fa comunicazione dei temi del cambiamento climatico, Climate Central. Dal 2019 sono al Joint Global Change Research Institute in Maryland (vivo a Washington DC) che è parte di uno dei laboratori nazionali del dipartimento dell’energia. Dopo tanti anni occupandomi degli studi del cambiamento climatico dal punto di vista del sistema fisico mi interessa studiarne gli effetti sulle attività umane, che è ciò di cui l’istituto si occupa. Collaboro con l’IPCC dal 2006 e sono tra gli autori principali negli ultimi due cicli (2013 e 2021).

Vorrei ora chiederle qualcosa sulla sua attività. Lei ha affermato che se tutti i modelli di previsione del cambiamento climatico non avessero divergenze, lei non avrebbe un lavoro. Può spiegare da che cosa dipendono le divergenze e in che cosa consiste il suo lavoro?

I modelli climatici sono rappresentazioni del sistema di circolazione atmosferica globale, delle correnti oceaniche, della superficie terrestre e delle dinamiche dei ghiacci polari e del modo in cui tutte queste parti interagiscono. Non posso neanche iniziare a elencare i processi che sono rappresentati direttamente…ma come si può immaginare, anche se continuiamo a rendere questi modelli sempre più complessi, sempre più sofisticati, sempre più precisi, rimangono sempre aspetti che devono essere in qualche modo approssimati. Un esempio importante è la formazione e l’evoluzione delle nubi. A che altezza si formano, per quanto rimangono in vita, che temperature raggiungono, quanta pioggia producono…sono aspetti chiave di come il clima risponde all’aumento della temperatura globale, ma non possono essere simulati direttamente perché costerebbe troppo dal punto di vista computazionale. I diversi centri di modellistica del clima “approssimano” questi processi in modi diversi. Tutti giustificabili, ma l’effetto è che queste scelte producono diverse “reattività” del clima all’aumento dei gas ad effetto serra. Cercare di riconciliare queste differenze tra i diversi modelli e quantificare l’incertezza nelle nostre previsioni dei cambiamenti climatici è una parte importante della scienza climatica ed è uno dei temi di cui mi occupo. In generale uso modelli e osservazioni del clima per ricavare previsioni di cosa succederà per l’effetto serra che stiamo facendo aumentare con le nostre emissioni di anidride carbonica e altri gas. Quanto più caldo farà? Dove? Quando? Che altri aspetti del clima cambieranno con il riscaldamento? E quali saranno gli effetti sulle popolazioni umane e sui sistemi naturali.

I suoi studi hanno come oggetto i modelli del sistema climatico globale (general circulation climate models). Vuole spiegare in che cosa consistono e quale sia la loro utilità?

I modelli del clima sono in pratica milioni di linee di programma…sono così complessi che solo centri di ricerca con accesso a cosiddetti “supercomputer” possono permettersi di svilupparli per produrre previsioni. In pratica dividono la sfera terrestre in un numero finito di “cubi” applicando una “discretizzazione” delle dimensioni la cui “finezza” è dettata dal potere computazionale. Quando ho iniziato ad occuparmi di queste cose i modelli dividevano   la sfera terrestre in cubi di circa 250 km di lunghezza/larghezza e 1000 metri in altezza. Adesso i modelli più comuni hanno almeno dimezzato le dimensioni…e più questa suddivisione è fine, più sono i processi che si possono rappresentare direttamente, meno sono le approssimazioni, minori  sono le incertezze. Il programma applica equazioni basate sulle leggi fisiche che modellano il passaggio dei fluidi da un cubo all’altro. E il risultato è una simulazione di tutti gli aspetti del clima: temperatura, venti, pioggia, siccità, scioglimento dei ghiacciai, riscaldamento degli oceani, ondate di calore… dico spesso che se un certo aspetto è osservabile, il modello lo simula. Questi modelli vengono usati come topolini da laboratorio, cavie: per capire cosa succederà in futuro si fanno andare applicando cambiamenti nella composizione dell’atmosfera, ipotizzando future emissioni di gas ad effetto serra più o meno elevate, i cosiddetti scenari. Quello che il sistema climatico farà in risposta all’accumularsi dei gas ad effetto serra nell’atmosfera dipende da interazioni complesse che i modelli rappresentano e il cui effetto a volte può essere una sorpresa. Per esempio, un effetto inaspettato del riscaldamento globale è che cambia il comportamento della circolazione attorno ai poli con l’effetto di creare ondate di freddo più persistenti in certe regioni. Questo perlomeno è quello che emerge dai nostri esperimenti con i modelli climatici e che gli studiosi stanno analizzando, confrontando questi risultati delle simulazioni con quello che sta già succedendo.

Parliamo ora dei recenti avvenimenti, prima l’ondata di elevatissimo calore estivo, poi le alluvioni in Pakistan e in Italia sono riconducibili al cambiamento climatico, come hanno affermato alcuni scienziati (la notizia è sul NYT del 19/9/22: Climate Change Linked to Pakistan’s Floods, Study Finds – The New York Times (nytimes.com)?

La scienza che si occupa di attribuire eventi specifici al cambiamento climatico è maturata negli ultimi anni. Il riscaldamento globale cambia le statistiche del clima; gli eventi singoli è difficile attribuirli con certezza al cambiamento climatico. Eventi estremi ci sono sempre stati, magari un tempo era meno facile osservarli precisamente, non facevano notizia, facevano meno danni perché c’era meno da distruggere. Detto questo però, abbiamo ormai osservazioni di qualità a copertura globale da molti decenni e cominciamo a vedere la differenza, soprattutto negli ultimi vent’anni. Gli effetti stanno diventando così significativi che alcuni eventi (soprattutto legati alle temperature eccessive) sono stati giudicati praticamente impossibili in assenza del riscaldamento globale. Per questi eventi si arriva in pratica ad affermare una relazione di causa-effetto inequivocabile che sarebbe parsa impossibile da stabilire soltanto dieci anni fa. Non perché non ci si aspettasse che le cose sarebbero diventate più estreme, ma perché non ci si aspettava che accadesse così presto. Per la maggior parte degli eventi estremi non possiamo dire che siano stati causati dal cambiamento climatico (cioè non possiamo affermare che sarebbero stati impossibili nella sua assenza) ma quello che possiamo dire è che sono diventati più probabili a causa del cambiamento climatico. Questo è facile da rilevare per le ondate di calore, perché il riscaldamento globale ovviamente spinge la distribuzione statistica delle temperature verso valori più alti, per cui quello che era estremo un tempo è meno estremo e più probabile ora (la difficoltà sta nel quantificare precisamente di quanto più probabile, e spesso possiamo soltanto dare un numero approssimativo). Ma molti altri fenomeni sono spesso attribuibili (nel senso dell’essere diventati più probabili) al cambiamento climatico, come per esempio le piogge più intense: un’atmosfera più calda contiene più vapore acqueo (c’è più evaporazione dalle superfici dell’oceano), pronto a diventare pioggia quando le condizioni sono giuste. Bisogna però distinguere l’effetto del riscaldamento globale sui fenomeni climatici da quello sulle popolazioni e le strutture. Spesso i danni che questi eventi causano potrebbero essere molto meno gravi se la popolazione e le infrastrutture fossero preparate. Per questo è importante parlare di adattamento, di preparazione, di soluzioni per rendere popolazioni e beni più resistenti agli effetti climatici deleteri.

Secondo due rapporti recentemente pubblicati dall’IPCC (“Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability”, pubblicato il 28 febbraio 2022, e “Climate Change 2022: Mitigation of Climate Change”, pubblicato il 4 aprile 2022) il riscaldamento globale è in corso e siamo a circa 1,1° C in più rispetto alle temperature medie precedenti alla rivoluzione industriale. Che cosa significa questo per il futuro? 

Veramente questo risultato è stato annunciato col primo dei rapporti, che è anche quello a cui io ho collaborato: “Climate Change 2021: The Physical Science Basis”, pubblicato nell’agosto del 2021, il primo dei tre volumi che l’IPCC prepara periodicamente (il precedente è stato pubblicato nel 2012). Il fatto che siamo a 1.1C di riscaldamento significa che mantenerci sotto l‘1.5C, che è l’obiettivo degli accordi di Parigi, è praticamente impossibile. Intanto continuiamo a emettere gas ad effetto serra che si accumulano nell’atmosfera, aumentando la loro concentrazione e continuando a creare maggiore riscaldamento e con quello ad alterare le caratteristiche del nostro clima in maniera per la maggior parte deleteria. La continuazione delle tendenze odierne ci posiziona su una rotta verso un riscaldamento di quasi 3 gradi alla fine del secolo. Pare però che qualche segnale positivo stia arrivando, particolarmente dagli Stati Uniti dove è stata appena approvata una legge molto importante, con molti incentivi per facilitare lo sviluppo e l’adozione di soluzioni per produrre e consumare energia pulita. È possibile, perciò, che quello che succederà sarà il superamento della soglia di1.5C ma che verso la fine del secolo le tecnologie ci consentiranno di “ricatturare” parte dei gas nell’atmosfera e abbassare le temperature. Intanto, sappiamo che molti aspetti del clima vanno a braccetto con la temperatura globale, per cui le cose peggioreranno fintanto che non cambiamo direzione; purtroppo altri aspetti del clima cambiano lentamente e praticamente inesorabilmente, e cambiare direzione per quelli sarà impossibile. Per esempio, ci aspettiamo ondate di calore e alluvioni più frequenti e severe con ogni aumento della temperatura globale, ma allo stesso tempo ci aspettiamo che diminuiranno in frequenza e severità se cominciamo a diminuire la temperatura grazie alla cattura del carbonio. Ma l’innalzamento del livello del mare è lento e inesorabile e impiega millenni per cambiare direzione…e i ghiacciai una volta sciolti impiegano secoli per ricostituirsi in condizioni migliori. 

Qual è lo scenario prevedibile, sia dal punto di vista climatico che dal punto di vista socioeconomico, se effettivamente realizzassimo l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050?

Zero emissioni nel 2050 è uno scenario che ci permetterebbe di rimanere molto vicini se non sotto l’1.5C. Questo valore è associato con effetti che, se anche peggiori di quello che stiamo contemplando al presente, sono accettabili dal punto di vista dei sistemi più vulnerabili: le isole del Pacifico che scomparirebbero per cause dell’innalzamento del livello dell’oceano e le barriere coralline che il riscaldamento in eccesso di 1.5C distruggerebbe per la maggior parte. Il tipo di trasformazione che è necessaria per rivoluzionare i nostri sistemi con cui produciamo energia e consumiamo, e quando dico nostri penso anche alle popolazioni nei paesi in via di sviluppo, è però così radicale e costosa che è difficile immaginarla se non a costo di rallentare lo sviluppo a livello mondiale. Il livello di cooperazione e il movimento finanziario che è necessario per assicurare il successo di net zero a livello mondiale mi sembra un po’ troppo idealistico. E anche a livello nazionale la trasformazione dei consumi e dei gusti (diventeranno tutti vegetariani nei prossimi trent’anni?) è difficile da immaginare

In una recente intervista (open Online) lei ha affermato che sarà più facile risolvere il problema del riscaldamento globale con la tecnologia che non cambiando il nostro stile di vita. A quali tecnologie fa riferimento?

Per quanto detto sopra riguardo alle difficoltà a livello domestico e globale, spero che le tecnologie aiuteranno a mitigare e, alla fine, risolvere il problema. Un esempio è la produzione di energia nucleare. Se superassimo sia le remore psicologiche che i problemi d’implementazione potremmo produrre energia facilmente e in modo neutrale dal punto di vista dei gas serra, senza dover risolvere il problema delle batterie e della distribuzione di energia intermittente che complica l’utilizzazione delle turbine eoliche o dei fotovoltaici (per non parlare della necessità di trovare abbastanza terreno per installare questi tipi di fonti di energia pulita). Ma la tecnologia di queste fonti rinnovabili e delle batterie è anch’essa in rapido sviluppo. E intanto prove di soluzioni per la cattura dell’anidride carbonica dall’atmosfera continuano…quello sarebbe davvero il sacro Graal, poiché ci permetterebbe di continuare a sfruttare gas e petrolio e carbone senza conseguenze.

Che cosa pensa in particolare delle tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica?

Penso che queste tecnologie dovranno essere una parte significativa della soluzione, insieme all’infrastruttura necessaria per farle operare. Dovrà anche essere messo a punto un sistema di finanziamento che rende l’investire in questa ricerca tecnologica attraente. Intanto piantiamo alberi dove possibile!

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Tebaldi