Intervista a Piero Genovesi

01 Dic 2022 | esperienze dell'amministrazione, articoli, contributi

di Stefano Nespor

Piero Genovesi, laureato in scienze naturali, ha conseguito un dottorato in biologia evoluzionistica. Primo tecnologo e responsabile dell’area gestione e conservazione della fauna di ISPRA, è membro dello Steering Committee dell’IUCN Species Survival Commission e presiede il gruppo specialistico dell’IUCN sulle specie invasive. Collabora con la Convenzione Biodiversità, la Commissione Europea e il Consiglio d’Europa. Research Associate presso la Concordia University di Montreal e International Science Advisor per il Centre for Invasion Biology, Stellenbosch University, Sud Africa. E’ stato membro, inoltre, del Consiglio Direttivo del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise e del Comitato di Coordinamento del Parco Nazionale dello Stelvio. Autore di libri e articoli scientifici pubblicati sulle più prestigiose riviste del mondo, comprese Science, Nature.

Dal 2018 al 2022 è stato inserito nella lista dei ricercatori più citati al mondo nelle pubblicazioni ambientali secondo Clarivate Analytics, che ogni anno riporta i nomi dei circa 6000 scienziati considerati più influenti al mondo.

Prima di tutto, come di consueto le chiedo di raccontare ai lettori qualcosa della sua vita e della sua attività (al di là di quel che si può reperire sul sito di ISPRA o sul Web.

Ho conseguito un dottorato di ricerca sull’ecologia dei piccoli carnivori e successivamente ho lavorato su molte specie diverse, dai caprioli ai gatti inselvatichiti, dagli orsi ai lupi. Da oltre 25 anni mi occupo più specificamente di specie aliene invasive, tema sul quale ho scritto la strategia europea, fornendo supporto ai principali organismi internazionali. Da qualche anno dirigo il servizio fauna di ISPRA. Ho scritto due libri per bambini e ho pubblicato molti articoli scientifici e libri.

Vorrei iniziare da due studi pubblicati quasi contemporaneamente che danno indicazioni contrapposte.

Il primo è il Living Planet Report Wwf (LPR)”, lo studio appena reso pubblico dal Wwf secondo il quale dal 1970 a oggi le popolazioni dei vertebrati sulla Terra, come pesci, anfibi, rettili, mammiferi o uccelli, sono crollate in media del 69%. In particolare, il crollo è ancora più accentuato per la fauna selvatica

Il secondo è lo studio della Zoological Society britannica, riportato dal Guardian, secondo cui tra le 50 specie di animali selvatici europei studiati nel corso di 50 anni la popolazione dei grandi carnivori europei – l’orso, il lupo e la lince – è aumentata in alcuni casi in modo consistente.

Qual è la sua opinione in proposito? La situazione europea costituisce un’eccezione rispetto alla situazione mondiale?

Il Living planet index fornisce una fotografia preoccupante della biodiversità globale che sta attraversando una grave crisi. I dati del rapporto pubblicato nel 2022 sono particolarmente allarmanti, evidenziando che il crollo del 69%, registrato per il periodo 1970-2018, è cresciuto rispetto al periodo 1970-2016 (calo del 68%) ed al periodo 1970-2014 (calo del 60%); questo vuol dire che stiamo assistendo ad un’accelerazione della perdita della biodiversità, che occorre arrestare con la massima urgenza, se vogliamo evitare che il crollo diventi irreversibile con effetti gravissimi anche sulla nostra vita. Gli andamenti sono molto variabili tra i diversi ambienti e diversi gruppi tassonomici; ad esempio la situazione più grave è quella degli ambienti d’acqua dolce, dove il living planet index ha registrato un calo medio dell’83% delle popolazioni di specie legati a questi ambienti nel periodo 1970-2016, mentre ci sono anche andamenti più incoraggianti in alcune aree e per specifici ambienti. In Europa il quadro normativo di tutela delle specie e degli habitat, inquadrato nelle direttive Habitat e Uccelli, ha assicurato una buona tutela di molte specie e di molti ambienti; inoltre in questa regione stiamo assistendo a cambiamenti ambientali, quale la costante crescita di aree boscate degli ultimi decenni, che hanno permesso a molte specie di aumentare le loro consistenze e di espandere i propri areali naturali. Per esempio il lupo, che negli anni ’70 era quasi scomparso dal nostro Paese in conseguenza di secoli di sterminio, si è oggi ripreso, arrivando a contare in Italia tra i 3000 e i 3600 individui. I dati che raccogliamo per i rapporti periodici che l’Italia deve produrre in ambito comunitario indicano che gli ambienti più a rischio sono le aree umide e gli ambienti di costa, mentre molte specie e habitat terrestri sono in ripresa.

Qual è il suo giudizio sulla Framework approvata a giugno in vista della COP di dicembre (The post-2020 global biodiversity framework), quali sono gli aspetti positivi rispetto al passato e perché ha avuto molte critiche dalle associazioni ambientaliste?

Il preoccupante quadro della biodiversità globale, con oltre un milione di specie a rischio di estinzione, distruzione delle foreste pluviali, siccità e cambiamenti climatici che hanno gravi impatti anche sugli ecosistemi naturali, rende essenziale ed urgente un piano d’azione per la conservazione della natura, quale il Global biodiversity framework a cui sta lavorando la Convenzione Biodiversità delle Nazioni Unite. Nulla però è ancora deciso e i Paesi membri della Convenzione si troveranno a dicembre a Montreal per cercare un accordo su questo programma e sugli obiettivi che la comunità globale sarà chiamata a raggiungere nei prossimi decenni. Il Global biodiversity framework comprende 21 obiettivi e 10 traguardi per il 2030, per raggiungere entro il 2050 la visione di una società che “vive in armonia con la natura”.

Tra gli obiettivi in discussione ci sono la protezione di almeno il 30 per cento delle aree terrestri e marine del mondo, la significativa riduzione del tasso di introduzione e insediamento di specie esotiche invasive, l’arresto delle estinzioni a scala globale. Perché questi ed altri obiettivi possano essere raggiunti, è essenziale eliminare gli incentivi ad attività che danneggiano la natura e aumentare le risorse finanziarie per la conservazione portandole ad almeno 200 miliardi di dollari USA all’anno. In questi mesi i rappresentanti dei paesi si sono incontrati in più occasioni per trovare un accordo e speriamo che a dicembre si arrivi finalmente ad adottare un piano ambizioso ed efficace, perché da questo dipende il futuro del nostro pianeta.

Parliamo della strategia 2030 dell’Unione europea. È una strategia ambiziosa, la cui realizzazione richiede però consistenti finanziamenti.

Tra gli obiettivi della strategia c’è un nuovo Piano forestale. Che cosa può cambiare in questo settore rispetto al passato?

La strategia europea include molti impegni importanti per il 2030, come quello di proteggere il 30% della terra e degli oceani dell’Unione Europea, ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici, piantare 3 miliardi di alberi, invertire il calo degli impollinatori e ridurre gli impatti causati delle specie invasive sulle specie autoctone europee.

La Commissione europea mira a raccogliere almeno 20 miliardi di euro all’anno per finanziare il piano, vedremo se questi impegni saranno rispettati. Tra gli impegni adottati dall’Unione europea, un’iniziativa importante è la nuova strategia forestale per il 2030, che definisce una visione e azioni concrete per aumentare la quantità e la qualità delle foreste come parte fondamentale della soluzione al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità.

La strategia prevede che siano piantati almeno 3 miliardi di alberi entro il 2030 nel pieno rispetto dei principi ecologici e assicurando una pianificazione e un monitoraggio a lungo termine. La strategia forestale richiede un impegno condiviso non solo dei paesi, ma anche dei proprietari e dei gestori delle foreste europee che dovranno essere attivamente coinvolti.

In Italia è stata avviata la Strategia nazionale biodiversità 2030. In aprile sono state avviate le consultazioni sul progetto di strategia. Mi sembra che non ci sia stata una consistente partecipazione. Per esempio hanno formulato osservazioni solo due regioni (Lombardia e Veneto).

Da che cosa dipende questa scarsa partecipazione?

Il percorso per arrivare a una strategia nazionale per la biodiversità è ancora lungo e richiederà il coinvolgimento di molti soggetti ed attori. Speriamo che una volta approvato il Global biodiversity framework della Convenzione Biodiversità cresca anche l’impegno di istituzioni e di tutta la società civile a contribuire ad un programma di azioni ambizioso e adeguato ai complessi obiettivi che saremo chiamati a raggiungere.

In particolare quali sono i progetti dell’Italia per adeguarsi?

La strategia è ancora in corso di definizione, ma alcuni progetti importanti sono inquadrati nel PNRR, come quello di rinaturalizzare un’estesa porzione del bacino del Po e quello di fornire i parchi nazionali italiani di risorse e strumenti per monitorare e tutelare la biodiversità che proteggono.

Che cosa cambia rispetto alla precedente strategia nazionale?

La strategia precedente ha avuto un impatto molto limitato; nello stendere questo nuovo piano si è data più attenzione a definire obiettivi concreti, ambiziosi ma al tempo stesso realistici. Speriamo si colga questa opportunità per definire un programma di azioni che possano mettere in sicurezza gli ecosistemi del nostro Paese, che è uno dei più ricchi di biodiversità di tutta Europa.

In conclusione. La Convenzione sulla biodiversità è del 1992. Sono passati trent’anni. Che valutazione si può fare? Possiamo essere ottimisti?

La Convenzione per la Biodiversità delle Nazioni Unite è una piattaforma essenziale per poter adottare programmi globali che tutelino la natura della terra, ma purtroppo le valutazioni condotte negli anni passati hanno evidenziato che i risultati per ora raggiunti sono largamente inadeguati. Speriamo che a dicembre i leader del mondo capiscano il momento drammatico in cui siamo e prendano impegni seri e ambiziosi per i prossimi decenni. Noi ricercatori continueremo a monitorare gli effetti di questi impegni per verificare il reale rispetto degli impegni presi.

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