Difesa del suolo e regionalizzazione delle competenze

02 Ott 2023 | articoli, contributi, climate change

di Alberto Abrami

All’indomani della tragica alluvione che ha colpito la Regione Emilia-Romagna, si è dibattuto a lungo sulle ragioni per le quali, anche in questo caso, la furia devastatrice delle acque ci ha trovati impreparati – come già, poco prima, era accaduto per l’alluvione nell’Isola d’Ischia – pur essendo consapevoli della condizione di fragilità del nostro territorio. Eppure esiste una legislazione che ha per fine la salvaguardia idrogeologica del suolo mediante un apposito vincolo con il quale si intende stabilizzare il terreno; la stessa legislazione prevede, inoltre, come vedremo meglio più avanti, delle apposite strutture amministrative deputate alla regimazione dei corsi d’acqua mediante le opere idraulico-forestali.

È vero, poi, che già dalla metà degli anni ‘90 del secolo scorso, ogni qualvolta si è verificato un evento alluvionale, il Governo ha messo a disposizione delle istituzioni interessate una somma non irrisoria e non ha mancato di elaborare progetti – non si sa però di quale effettiva consistenza – per mettere in sicurezza il territorio, ma di certo non riuscendo mai a dare loro pratica attuazione. C’è quindi da domandarsi quali siano le ragioni per cui nel nostro Paese si ripetono i fenomeni alluvionali che, per la loro rilevanza, non possono ritenersi come facenti parte dell’imponderabilità e ineluttabilità delle cose, come se l’uomo, cioè, non avesse anch’egli le sue responsabilità.

Ma, andiamo per ordine, ricordando che il problema della difesa del suolo interessò il nostro Stato già all’indomani della sua formazione unitaria[i], mediante una legislazione che rimase in vigore fino a che non fu varato, su delega del Parlamento, il regio decreto legislativo 30 dicembre 1923 n. 3267, ancora oggi vigente in quelle parti dove – in seguito alla regionalizzazione della materia “agricoltura e foreste”- è subentrata la regione con la sua autonomia amministrativa, ma anche legislativa, secondo i criteri della legislazione concorrente.

Tale decreto è noto come “legge forestale”, per il fatto che disciplina l’utilizzazione boschiva nei terreni sottoposti al vincolo idrogeologico allo scopo di trarre il prodotto legnoso, ma in realtà si tratta di una legge che consente il taglio del bosco solo nella misura in cui l’estrazione del legno si può conciliare con la stabilità idrogeologica del terreno, che è il fine primario del decreto, come si evince dall’art. 1.

Contemporaneamente alla regolamentazione relativa alla recisione delle piante arboree – che ha lo scopo di assicurare la riproduzione del manto forestale e conservare nel tempo la copertura vegetale – la legge prevede il divieto del dissodamento del bosco, sempre che sia gravato dal vincolo, in assenza dell’espressa autorizzazione dell’Autorità amministrativa.

Possiamo senz’altro affermare che il fine del legislatore è, dunque, quello di evitare, attraverso l’imposizione del vincolo, “un danno pubblico” di natura idrogeologica, ossia che venga compromessa, come recita nel suo esordio il decreto del 1923 all’art.1, la stabilità del suolo e alterato il regime delle acque. E questo vale indistintamente, oltre che per i boschi anche per “i terreni di qualsiasi natura e destinazione”. Siamo quindi in presenza di una legge di difesa del suolo, dove il bosco, col suo potere di immobilizzazione del terreno attraverso la trama delle sue radici, è solo strumento per questo fine di protezione, tant’è che il terreno boscato che sia esentato dal vincolo idrogeologico rimane nel pieno dominio del suo possessore, ossia sottratto ad ogni controllo della Pubblica Amministrazione. Che è quanto accade, in generale, nei territori di pianura, e quindi per le pinete litoranee, poiché la difesa del suolo la si fa, appunto, a monte di tali territori situati nelle aree pianeggianti, ossia nei terreni collinari e montani dove è diffuso il vincolo idrogeologico[ii].

È consentito, certo, denominare come legge forestale il decreto n. 3267 del 1923 – ma sta di fatto che esso è l’unico strumento legislativo approntato dall’ordinamento per affrontare il problema della protezione del territorio, sia mediante l’intervento di natura preventiva, ossia col vincolo idrogeologico, sia con l’intervento in positivo, ossia con l’attuazione di opere idraulico-forestali, o solo idrauliche, lungo il corso dei fiumi. Questi strumenti giuridici permarranno anche quando si procederà a pianificare il territorio fluviale per mezzo dell’autorità di bacino come conseguenza dell’entrata in vigore della legge n. 183 del 1989, di cui diremo più avanti.

Si potrà osservare che nei primi anni trenta del secolo scorso è stata emanata la legge sulla bonifica – tuttora in vigore nel suo impianto fondamentale – alla quale non rimase affatto estraneo l’interesse alla difesa del suolo, ma il fine di questa normativa era limitato a determinate aree, ancorché vaste – come l’Agro Pontino o le Valli di Comacchio – che si vollero prosciugare per renderle produttive e, più esattamente, per recuperarle all’attività agricola. D’altra parte, l’attività di bonifica può dirsi esaurita già da alcuni decenni, quando, cioè, ci rendemmo conto dell’importanza, per l’equilibrio dell’ecosistema, delle zone umide.

Dobbiamo riconoscere che il sistema delineato dalla legge del 1923 è andato realizzandosi con regolarità in tutto il territorio nazionale per circa un ventennio prendendo inizio dalla perimetrazione del bacino montano e la successiva previsione ed esecuzione delle opere idraulico-forestali e idrauliche, dovuta all’azione congiunta del Corpo forestale e del Genio civile, organi periferici, rispettivamente, del Ministero dell’agricoltura e del Ministero dei lavori pubblici. Occorre però evidenziare che l’intervento pubblico si dimostrò efficace anche perché l’attività edilizia, al di fuori dei centri abitati, non può dirsi fosse particolarmente significativa fino alla vigilia dell’ultima guerra.

Il sistema è entrato in crisi, se così si può dire, allorché si è trattato di rimarginare le ferite provocate dal conflitto mondiale ed è iniziata la ricostruzione del Paese che andò sotto il nome di “miracolo economico italiano”, tanto essa fu rapida nell’interessare i vari settori dell’economia. Il perseguimento del sospirato benessere, insieme alla ritrovata libertà di iniziativa economica, la vinse sopra ogni altra cosa e fu impressionante l’espansione dell’attività edilizia che si sviluppò incontrollata per più e più anni: si costruì ovunque, financo nelle golene dei fiumi, e nessun argine costituì il vincolo idrogeologico che fu interpretato solo come limite alla trasformazione del bosco in coltura agraria. In uno scenario così fatto, dove lo Stato, lasciò mano libera all’attività dei privati, si può comprendere come la regimazione dei corsi d’acqua, con tutta la sua complessità di natura vincolistica, non fosse fra le opzioni primarie. Certo, la mobilitazione degli uffici, dei quali si è detto sopra, non venne meno, ma si può affermare che essa sia stata meno intensa rispetto al passato, come risulta statisticamente, per riprendere nell’ordinarietà negli anni successivi quando alle previste strutture di intervento si aggiunse l’Azienda di Stato per le foreste demaniali che la legge 27 ottobre 1966 n. 910 aveva facoltizzato alla realizzazione di opere di sistemazione nei perimetri dei bacini montani e nei comprensori di bonifica montana (art. 26)[iii].

Fu solo, infatti, verso la fine degli anni ’60 che venne varata la legge urbanistica, cosiddetta legge ponte 19 novembre 1968 n. 1187, con la quale si impose ai comuni l’obbligo della formazione dei piani regolatori e si richiamarono, oltre al vincolo paesaggistico, “i vincoli ambientali”, fra i quali poteva ritenersi compreso il vincolo idrogeologico: ma il suolo era ormai andato impermeabilizzandosi in modo disordinato, e oltre misura, senza che ci si ponesse il problema delle possibili conseguenze che si sarebbero potute determinare in un territorio, come il nostro, connotato dalla precarietà idrogeologica.

Siamo ormai giunti, con la nostra rapida ricostruzione storica, all’attuazione dell’ordinamento regionale, quando il settore della difesa del suolo non riesce a emergere come di interesse nazionale rispetto alla regionalizzazione della materia “agricoltura e foreste”, sicché vengono trasferite alle regioni le funzioni relative, oltreché al vincolo idrogeologico, anche alla “sistemazione idrogeologica e conservazione del suolo” (art. 69 DPR 24 luglio 1977 n. 616). Insieme alle competenze vengono trasferiti gli uffici e il personale già appartenenti allo Stato, che non sarà più protagonista della difesa del suolo in prima persona, perché questa difesa, che si direbbe strategica per l’intero Paese, è divenuta ora di interesse regionale. Lo Stato dovrà limitarsi all’esercizio della “funzione di indirizzo e coordinamento”, quando lo richieda l’unitarietà dell’intervento di competenza regionale.

In realtà con i decreti delegati del gennaio del 1972 – attuativi della legge delega 16 maggio 1970 n. 281 che permise il decollo dell’ordinamento regionale – e, in particolare, con il decreto n. 11 avente ad oggetto la materia “agricoltura e foreste”, il Ministero aveva operato un ritaglio di competenze in relazione agli “interventi concernenti la sistemazione idrogeologica e la conservazione del suolo, sentite le Regioni interessate”. Si trattava di interventi che non erano riconducibili all’interno della logica che aveva delimitato i confini amministrativi regionali e, in quanto tali, chiamavano in causa il momento unitario o di interesse nazionale.

La riserva statale fu legittimata dalla Corte costituzionale alla quale fecero ricorso alcune regioni, ma per tutta risposta, il Parlamento varò una nuova legge delega 22 luglio 1975 n. 382 cui seguì un unico decreto delegato 24 luglio 1977 n. 616, comprensivo di tutte le competenze amministrative traferite alle regioni secondo la tassatività dell’elenco dell’art. 117 della Costituzione. Vennero, quindi, meno le riserve operate in favore dello Stato poiché il criterio che venne seguito nell’interpretare il significato di materia fu quello finalistico.

L’esperienza di questi decenni non ci consente di affermare che le regioni abbiano compreso appieno la portata delle funzioni ricevute e non è senza significato che, in maggioranza, abbiano provveduto alla delega di tali competenze a comunità montane, province e comuni, quasi che fosse di maggiore significanza la valorizzazione degli enti locali piuttosto che l’esercizio delle competenze secondo una visione complessiva della condizione idrogeologica dell’intero territorio regionale.

L’esperienza non esaltante delle regioni nel settore in esame, indusse il Parlamento al varo della legge n. 183 del 1989 sulla difesa del suolo con l’istituzione di un apposito organo tecnico – l’Autorità di Bacino – avente il compito di mettere in sicurezza le persone e le cose all’interno del territorio compreso nel bacino fluviale secondo le previsioni di un apposito piano. Occorreva, però, rispettare gli equilibri costituzionali conseguenti all’attuazione dell’ordinamento regionale, sicché la redazione del piano non compete alla stessa Autorità di Bacino che lo ha programmato, ma agli enti locali titolari costituzionalmente delle competenze interessate dalla pianificazione finalizzata alla difesa del suolo.

Tuttavia, la legge è esplicita circa gli effetti del piano di bacino allorché prevede che le disposizioni di tale piano, una volta approvato, “hanno carattere immediatamente vincolante per le Amministrazioni ed Enti pubblici, nonché per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso piano di bacino” (art. 17, comma 5, legge n. 183 del 1989). La disposizione richiamata, ora riprodotta nell’art. 65, comma 4, della legge n. 152 del 2006 – dove il piano di distretto fluviale sostituisce il piano di bacino – non avrebbe senso se non si comprendessero fra “le Amministrazioni e gli altri Enti Pubblici “, destinatari del piano, anche i comuni con i loro piani regolatori.

Con la riforma costituzionale del 2001, la materia – dagli incerti confini – “governo del territorio” è stata attribuita alle regioni a livello di competenza legislativa concorrente con lo Stato, sicché quest’ultimo ha il potere di fissare i principi fondamentali della materia. È molto probabile che con la dizione “governo del territorio” il legislatore abbia inteso esprimere una concezione lata di urbanistica, non limitata, cioè, alla sola edilizia e, forse, anche comprensiva degli interventi relativi alla difesa del suolo; sennonché va tenuto conto della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente che sottrarrebbe il settore in questione alle regioni. Ci troveremmo, comunque, con uno Stato che, attualmente, non può disporre né delle strutture amministrative né del personale.

Ora, negli ambienti governativi si parla – ma non si sa con quanto effettivo interesse – di un piano nazionale per la difesa del suolo: occorrerà però ottenere, per la sua esecuzione, una convinta adesione e collaborazione da parte delle regioni se si vuole evitare che, come già in passato, fallisca l’obbiettivo.

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Abrami Difesa del suolo e regionalizzazione delle competenze

NOTE:

[i] Vedi: R. TRIFONE “Storia del diritto forestale in Italia”, Firenze, 1957.

[ii] Sul punto: A. ABRAMI “Il lungo percorso della legislazione forestale : dal vincolo idrogeologico al vincolo di destinazione” in “Quaderno dell’Accademia italiana dei Georgofili “, p. 145, n. I, 2023, Firenze.

[iii] Sul punto vedi: “L’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali”, in “La vita italiana” (mensile della Presidenza del Consiglio dei Ministri), n. 5, 1971.

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