Una buona notizia sul fronte delle emergenze ambientali

18 Feb 2020 | articoli, editoriale

di Stefano Nespor

L’interesse per il cambiamento climatico ha fatto dimenticare tutte le altre emergenze ambientali che affliggono il nostro pianeta.  È per molti ormai un ricordo la prima grande emergenza ambientale globale, affrontata e risolta con successo da uno straordinario impegno di tutta la comunità internazionale: il “buco” che si forma nell’estate antartica sopra il Polo Sud nella fascia d’ozono collocata nella parte più alta dell’atmosfera, provocato da alcuni composti chimici (i CFC).

Ebbene, a fronte delle continue drammatiche notizie provocate dal progredire del cambiamento climatico, è il caso di darne una almeno parzialmente buona: alla fine del 2019 il buco nell’ozono ha raggiunto la superficie minima di 9,3 milioni di chilometri quadrati. È l’effetto dell’accordo raggiunto a Montreal nel 1987 per mettere al bando la produzione e l’utilizzo dei CFC (largamente utilizzati come refrigeranti e come gas per le bombolette-spray). Purtroppo questi composti restano a lungo nell’atmosfera, così solo negli ultimi 18 anni l’estensione del buco non è più aumentata ma è rimasta approssimativamente costante.

Ma, attenzione: la notizia, come ho scritto, è buona solo in parte, perché il record di quest’anno è dovuto anche alle temperature stratosferiche particolarmente calde nella regione dell’Antartide, per effetto del cambiamento climatico: paradossalmente, l’accentuarsi di questa emergenza aiuta a risolvere l’altra.

La “guarigione” dello strato di ozono è, come detto, il risultato di un accordo raggiunto dalla comunità internazionale nel 1986. Ma è l’effetto di un’iniziativa che risale a settant’anni fa.

Nel 1950, mentre lo scontro tra il blocco dei paesi socialisti e i paesi occidentali si consolida in quella che sarà denominata guerra fredda, pochi mesi prima dello scoppio della guerra in Corea che rende la possibilità  di un conflitto nucleare un’ipotesi sempre più reale, un gruppo di scienziati di molti diversi paesi, membri di un’associazione scientifica internazionale, l’International Council of Scientific Unions (oggi International Council for Science) propone di avviare, assumendo come base di osservazione il Polo Sud, uno studio del pianeta e della sua atmosfera.

Così, è indetto l’Anno geofisico Internazionale: dal 1 luglio 1957 al 1 dicembre 1958 oltre sessanta paesi, tra cui l’Italia, e numerose associazioni scientifiche internazionali, con 30.000 scienziati e 2000 stazioni e osservatori dislocati su cinque continenti, studiano l’attività solare, le aurore polari, il geomagnetismo, la glaciologia, la ionosfera, la meteorologia, gli oceani e, poi, le radiazioni cosmiche e l’ozono. Nell’archivio dell’Istituto luce sono conservati alcuni filmati della Settimana Incom di “Cronache dell’anno geofisico internazionale”, che possono essere visti su Youtube. E nel Polo Sud vengono insediate basi dove sono avviati  progetti di ricerca per studiare la distribuzione dell’ozono e i modi della sua produzione. Uno dei centri posti al Polo Sud era la base Halley del British Antarctic Survey, l’ente costituito dal Governo britannico per sovrintendere le attività di ricerca in Antartide. La base, inaugurata nel 1957, era collocata nella baia di Halley (così denominata in onore dell’astronomo Edmond Halley, nato nel 1656, noto per aver scoperto la cometa che è periodicamente visibile dalla Terra e porta il suo nome). Agli scienziati che hanno ininterrottamente operato dal 1957 presso la base Halley si deve la più prolungata misurazione della quantità d’ozono sopra l’Antartide. È sono loro che, trent’anni dopo, scopriranno il buco nella fascia d’ozono e offriranno così la conferma delle ipotesi formulate dagli scienziati fino a quel momento.

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