Rigenerazione, rinaturazione, rewilding

15 Nov 2019 | articoli, editoriale

Di Paola Brambilla

In questo terzo millennio in cui gran parte del cambiamento climatico, per circa il 25%, è imputabile all’uso del suolo, quasi per il 75% trasformato ad uso antropico, con un declino del 60% della biodiversità, l’impennata recentissima dei grandi incendi artici e amazzonici ha riproposto con insistenza, nei dibattiti dei media e della società in genere, il tema della conservazione degli ecosistemi, su scala vasta ma anche urbana.

Le nuove parole d’ordine sono rigenerazione, rinaturazione, mitigazione: termini che rimandano ad una ricostruzione della natura perduta, che ben può riassumersi nel termine inglese di rewilding.

Nato come movimento di pensiero scientifico e sociale nei primi anni ’80, nel solco di una riflessione critica sul contributo umano alla perduta wilderness (Nash, 1982), con il crescere delle preoccupazioni ambientali globali – nel Global Risk Report 2019 del World Economic Forum 6 rischi globali su 10 sono legali all’ambiente – il rewilding si è tradotto presto in un nuovo approccio concreto ed operativo di sustainable landscape.

Sotto questa etichetta però possiamo identificare tre diversi modelli.

Il primo – se vogliamo l’ur-rewilding – è quello del Pleistocenic Park, a cui ha dato vita lo scienziato russo Sergey Zimov nei primissimi anni ’90 in una gelida landa dell’estremo oriente Russo, riportata alle selvagge condizioni paesaggistiche e faunistiche pleistoceniche, per preservare il permafrost artico dallo scioglimento: e in effetti la reintroduzione dei grandi erbivori ruminanti ha portato da un lato alla riduzione degli arbusti che desertificano il terreno, dall’altro all’arricchimento organico e di nutrienti dei terreni su il manto erboso ricresce, mantenendo il sottosuolo ghiacciato. Morto il padre, ora lo Zimov figlio vorrebbe riportare in vita con le nuove tecniche di estrazione del DNA, e reintrodurre nell’area, anche il mammut.

Il secondo modello di rewilding si fonda invece su una visione passiva della rinaturazione, per cui si lascia all’evoluzione naturale pioniera ciò che l’uomo abbandona: è la storia di Chernobyl 20 anni dopo, è la Oostvadersplassen olandese, un’area di oltre 50 Km2 isolata dal 1968 per lasciare che la natura si riprendesse i propri spazi.

Il terzo scenario di rewilding, c.d. trofico, vuole invece ricreare interazioni dinamiche naturali, a partire dalla catena alimentare, per la rigenerazione della funzionalità di un ecosistema, attraverso un intervento umano diretto ad accelerare i processi di naturale ripresa di un ecosistema travolto dall’urbanizzazione o da altri fenomeni anche naturali quali la desertificazione, le alluvioni e le frane, per ridare una nuova vita, compatibile con le nuove alterate condizioni di partenza, a paesaggio e servizi ecosistemici: evitando il fenomeno della defaunation, ovvero la creazione di paesaggi statici, morti, senza vita, tipico del latifondo agricolo (descritto già negli anni ’60 in Primavera silenziosa di Rachel Carson) o del verde urbano o periurbano. E’ infatti di rewilding che si parla quando i nuovi piani di governo del territorio o i più recenti regolamenti edilizi, da Berlino a Malmo, a Milano, prescrivono l’adozione di Nature Based Solution, capaci di ricostruire, nel dar risposta a esigenze umane, funzioni ecosistemiche perse.

Nel sistema del diritto dell’ambiente, oggi, la rinaturazione potrebbe essere vista come applicazione del principio internazionale di non regressione o di progressione (Scovazzi, 2017), anche se la genesi profonda di questo concetto è però forse più propriamente filosofica; la cosa non deve spaventare, perché oramai sappiamo che il diritto dell’ambiente è un metadiritto, che incorpora nei propri precetti le scienze, la tecnologia, ed anche concetti filosofici come la tutela infragenerazionale.

Non a caso un recente articolo (Torres, 2018) pubblicato nel prestigioso Philosophical Transaction B Journal identifica nella rigenerazione l’unica via per la ripacificazione tra uomo e natura.

Il rewilding si presta però anche a un’altra lettura, ispirata alla visione più cinica e meno idilliaca di Boudrillard.

Il filosofo “cult” in Cyberfilosofia – in breve – sostiene che l’uomo, conquistato ogni angolo del reale ed esaurito il surreale dell’invenzione dei mondi paralleli ed alieni, oggi ha quale ultima frontiera la reinvenzione e la ricreazione della realtà.

Il salto è dunque nella dimensione dell’irrealtà, anche nella ricostruzione della natura che non c’è più.

 

 

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