Oblazione e responsabilità degli enti: un enigma non ancora risolto

04 Feb 2024 | articoli, contributi, in evidenza 1

di Elisa Marini

1. Premessa

L’inizio di un nuovo anno rappresenta, spesso, il momento ideale per i buoni propositi.

Un tema che, in ambito penale-ambientale, potrebbe rientrare in questa categoria riguarda, senza dubbio, l’auspicata modifica del rapporto tra la procedura estintiva dell’oblazione e la responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. n. 231/2001.

Come noto, numerosi illeciti contravvenzionali – previsti sia dal Codice Penale, sia dal Testo Unico Ambientale – sono ricompresi nell’ambito dell’art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001, costituendo, pertanto, il potenziale presupposto della responsabilità amministrativa della persona giuridica che, teoricamente, potrebbe permanere anche laddove la persona fisica definisca la propria posizione processuale attraverso la procedura estintiva dell’oblazione, amministrativa o penale, a seconda delle circostanze.

Poiché, difatti, l’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001 – che disciplina l’autonomia della responsabilità dell’ente e, dunque, del suo “destino processuale” rispetto alle sorti della persona fisica – prevede, al secondo comma, che si possa non procedere nei confronti della persona giuridica solo nell’ipotesi in cui venga concessa l’amnistia per il reato in contestazione, e non anche in altri casi, qualora l’autore (o presunto tale) della contravvenzione ambientale si determini ad accedere all’istituto dell’oblazione, tramite il quale definisca favorevolmente la propria posizione, l’ente resterebbe il solo a rispondere dell’illecito amministrativo iscritto a suo carico, nonostante l’estinzione del reato presupposto della sua ipotetica responsabilità.

Tale conseguenza deve considerarsi ancor più paradossale, probabilmente, per una ragione più pratica che giuridica: di norma, difatti, se una contravvenzione ambientale si verifica in ambito aziendale, e l’indagato / imputato si determina ad estinguerla attraverso l’oblazione, sarà proprio la società – quantomeno nella maggior parte dei casi – a farsi carico dei relativi costi[1].

Come evidenziato da autorevole dottrina anche in tempi non sospetti[2], «solo l’impresa, specie se il reato ha prodotto gravi conseguenze, è in grado – perché ha il potere, che il singolo non ha o non ha più – di neutralizzare gli effetti della condotta (…)»: una constatazione che deriva dalla presa d’atto del funzionamentodi quello che è stato definito «un sistema ventriloquo, che muove formalmente le labbra in direzione della persona fisica (…), ma in cui a parlare è il ventre della responsabilità sanzionatoria degli enti».

Peraltro, rispetto alle ipotesi di oblazione “facoltativa” ex art. 162 bis c.p., nonché nell’ambito della procedura di cui alla Parte VI bis del Testo Unico Ambientale, in cui le condizioni di accesso all’istituto prevedono la rimozione delle conseguenze dannose del reato o, comunque, l’adempimento di prescrizioni volte a rimuovere le difformità rilevate in sede di controllo, è evidente che le strade possibili per addivenire all’estinzione del reato siano concretamente percorribili solo con i mezzi e le risorse della persona giuridica, con tutto ciò che ne deriva in termini di non corrispondenza tra il soggetto formalmente chiamato all’adempimento della prescrizione e al pagamento, e quello che effettivamente vi provvede[3].

Tale circostanza è del resto dovuta al fatto che, nell’ambito di un’organizzazione complessa, è l’ente, più dell’individuo singolarmente considerato (che risponde penalmente in base al proprio ruolo / incarico), ad avere il controllo – e dunque, a concretamente determinare – i processi produttivi da cui possono scaturire contestazioni in ambito ambientale, che, per quanto riguarda l’universo delle contravvenzioni, costituiscono, a tutti gli effetti, un vero e proprio rischio d’impresa fisiologico.

La tematica in questione è già stata oggetto di approfondimenti in dottrina[4], ma, nonostante le condivisibili riflessioni e le valide proposte de iure condito et condendo che ne sono derivate, la situazione normativa è sempre rimasta invariata, tanto che lo scopo principale del presente contributo non è tanto (o non solo) quello di riepilogare tutte le criticità della situazione in essere, quanto di costituire una sorta di reminder per il Legislatore, nell’ottica di razionalizzare un aspetto del sistema che non risulta, irragionevolmente, disciplinato.

2. Stato dell’arte e prospettive di riforma

Nonostante gli oltre 20 anni dall’entrata in vigore e le continue riforme che, nel corso di questo lungo arco di tempo, hanno caratterizzato l’apparato normativo della responsabilità da reato degli enti, alcuni aspetti – tra cui quello in esame – risultano meritevoli di essere implementati.

In primo luogo, per una ragione meramente empirica: il cortocircuito normativo descritto nella premessa ha una notevolissima diffusione pratica, in quanto le contravvenzioni incluse nell’art. 25 undecies D,Lgs, n. 231/2001 sono tra le più contestate nella prassi (in particolare, quelle previste dal D.Lgs. n. 152/2006).

Inoltre, se da un lato è innegabile che – con tutto ciò che attiene non solo al c.d. “sistema 231”, ma, più in generale, alla compliance aziendale – si sia cercato di spingere le imprese ad adottare sistemi di controllo e presidi interni adeguati a garantirne la legalità e a prevenire la commissione di reati, e che la promozione di modelli etici da cui poterne valutare la diligenza organizzativa non possa che accogliersi favorevolmente, dall’altro sarebbe auspicabile, altresì, un atteggiamento premiale più incisivo, da parte del Legislatore, anche nella fase remediale, in modo da incentivare comportamenti virtuosi e politiche aziendali volti alla riparazione del danno e, più in generale, al recupero e al ripristino, in perfetta coerenza, peraltro, con lo spirito delle principali riforme che hanno caratterizzato il settore ambientale, a partire dalla L. n. 68/2015, e l’intero sistema penale, da ultimo con la “riforma Cartabia”.

Ed è proprio con la L. n. 68/2015, con la quale, oltre ai delitti ambientali all’interno del Codice Penale (artt. 452 bis e ss.), è stata introdotta, nell’ambito del Testo Unico Ambientale (artt. 318 bis e ss.), la procedura estintiva delle contravvenzioni ambientali (sulla scorta del modello, già collaudato, vigente in ambito antinfortunistico, di cui al D.Lgs. n. 758/1994), che il Legislatore avrebbe potuto cogliere l’occasione per colmare quella che, a tutti gli effetti, non può che definirsi una lacuna normativa.

Di converso, invece, proprio all’esito di tale riforma, le contraddizioni del sistema sono risultate ancor più evidenti.

Secondo alcuni commentatori, infatti, la Legge n. 68/2015 avrebbe introdotto una sorta di depenalizzazione di alcuni reati ambientali, seppur veicolata tramite il meccanismo estintivo dell’oblazione[5].

Assumendo, dunque, che uno degli obiettivi perseguiti dal Legislatore sia stato proprio quello deflattivo, nei casi in cui l’offesa non abbia “cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette” (art. 318 bis T.U.A.), in una prospettiva di economia processuale ci si sarebbe atteso che la condotta riparatoria posta in essere dal contravventore dispiegasse i propri effetti erga omnes, comportando l’estinzione automatica del procedimento anche a carico dell’ente.

Ed anche volendo ritenere preminente l’obiettivo remediale, attraverso il meccanismo dell’adempimento delle prescrizioni, non si comprende la motivazione per la quale dovrebbe rimanere in piedi un procedimento penale a carico dell’ente per un’offesa riparata, formalmente dalla persona fisica, ma quasi sempre – come detto in precedenza – con i mezzi della società.

Una spinta normativa alla legalità d’impresa sarebbe stata coerente anche nella fase post reato, oltre che nella prospettiva di prevenzione, nell’ottica di valorizzare, e dunque premiare attraverso l’uscita automatica dal procedimento penale, la persona giuridica che si adoperi a ristabilire una situazione di conformità sulla base delle indicazioni degli organi di polizia giudiziaria[6].

Ammettere, di contro, che l’ente continui a rispondere della contravvenzione estinta con oblazione, sulla base del disposto dell’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, implica una riflessione ulteriore, nell’ambito di una disamina sistematica, che si sposta dal piano della logicità, a quello della ragionevolezza.

Per questa ragione, in dottrina, si è pensato a diversi escamotage per poter dirimere quella che, a tutti gli effetti, appare come una stortura del sistema.

In primo luogo, proprio mettendo in discussione la qualificazione che il Legislatore ha attribuito all’oblazione quale causa di estinzione del reato.

Alcuni autori, difatti, rimarcando la duplice finalità dell’istituto – di cui si è già detto – alla deflazione processuale da un lato, e alla riparazione dell’interesse leso o messo in pericolo dall’altro, hanno evidenziato come questi obiettivi, nel nostro ordinamento, vengano principalmente perseguiti dalle cause di non punibilità, piuttosto che, appunto, da quelle di estinzione del reato[7].

Tuttavia, anche una diversa qualificazione in tal senso non appare dirimente, in considerazione della giurisprudenza formatasi in ordine al rapporto tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, comunque tesa a riaffermare l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto alle sorti della persona fisica[8].

Anzi, nel caso della particolare tenuità del fatto, la Corte di Cassazione si è spinta anche oltre, avendo sostenuto che la circostanza che l’art. 131 bis c.p. presupponga l’acclarata esistenza di un fatto antigiuridico, a maggior ragione giustifichi la prosecuzione dell’azione penale nei confronti della persona giuridica, rispetto alla quale il reato presupposto rappresenta solo uno dei requisiti potenzialmente idonei a fondarne la responsabilità[9].

In alternativa, parte della dottrina ha ritenuto più appropriato ricondurre l’oblazione alla categoria dei riti alternativi[10], attribuendole, dunque, natura eminentemente processuale: in quest’ottica, si è discusso in ordine alla opportunità di estendere alla procedura estintiva l’art. 34 D.Lgs. n. 231/2001, relativo alle disposizioni processuali, con conseguente possibilità anche per l’ente di fare autonomo ricorso all’oblazione, oppure di introdurre una disposizione ad hoc, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 63 in tema di patteggiamento.

Laddove, invece, si ritenga di dover ravvisare nell’oblazione una condizione di procedibilità del reato (sempre, dunque, inquadrandola come istituto di carattere processuale), l’improcedibilità dell’illecito amministrativo, a norma dell’art. 37 D.Lgs. n. 231 del 2001, conseguirebbe all’impossibilità di proseguire nell’esercizio dell’azione penale, anche se, secondo altri autori, la stessa strada potrebbe essere validamente perseguita con l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., sulla base del richiamo generale alle norme processuali operato dal già citato art. 34 D.Lgs. n. 231/2001[11].

Considerando, ad ogni modo, che la dottrina prevalente, si è da sempre orientata ad ascrivere l’oblazione – attribuendole valore sostanziale, anziché processuale – nel novero delle cause di estinzione del reato, che per l’appunto non trovano spazio nel campo di applicazione dell’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, le interpretazioni, anche più fondate e convincenti sotto il profilo giuridico lasciano, di fatto, il tempo che trovano.

Sembra peraltro poco ragionevole – se non addirittura assurdo – che si debba procedere per “tentativi ermeneutici” nell’ammettere l’efficacia liberatoria dell’oblazione nei confronti dell’ente in presenza, nel “sistema 231”, di una disposizione come l’art. 60, che non consente di procedere alla contestazione dell’illecito amministrativo quando il reato da cui lo stesso dipende è estinto per prescrizione: in sostanza, a livello normativo, è pacificamente più significativo un fatto che si verifica indipendentemente dai soggetti coinvolti nelle contestazioni (il decorso del tempo), rispetto ad una condotta virtuosa volta ad eliminare i danni o i pericoli eventualmente derivati al bene giuridico oggetto di tutela.

La scelta forse più ovvia, ma anche più dirimente, sarebbe una modifica legislativa delle citate disposizioni (art. 8 e/o art. 60 D.Lgs. n. 231/2001), in modo da estendere all’ente, sul piano normativo, gli effetti favorevoli della procedura estintiva che incidono sul reato presupposto.

Più problematica (trattandosi di reati che vengono considerati tipica espressione della “criminalità d’impresa”) e controcorrente (essendo tutte le riforme legislative degli ultimi anni andate nella direzione opposta) potrebbe essere una ipotetica riduzione del catalogo delle contravvenzioni ambientali incluse nell’art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001.

Un intervento del genere appare alquanto improbabile, ma tutt’altro che peregrino.

Si rammenta, difatti, che la norma in questione è stata introdotta dal D.Lgs. n. 121/2011, emanato per ottemperare all’obbligo di adeguamento alla Direttiva 2008/99/CE in tema di tutela penale dell’ambiente, che imponeva ad ogni Stato membro (all’art. 6) di adottare una specifica forma di responsabilità delle persone giuridiche dipendente dai reati ambientali delineati agli artt. 3 e 4 della Direttiva medesima.

Il Legislatore comunitario aveva, però, specificato che fonte di tale responsabilità avrebbero dovuto essere «lo scarico, l’emissione o l’immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora».

Ebbene, esaminando il novero delle fattispecie contravvenzionali presupposto della responsabilità dell’ente suscettibili di essere definite con oblazione, non può non notarsi come molte siano costituite da violazioni puramente formali, giuridicamente inquadrabili nella categoria dei reati di pericolo astratto, e dunque ben diversi da quelli indicati dalla legislazione comunitaria[12], ma comunque idonei a giustificare la permanenza di un procedimento penale a carico dell’ente anche una volta estinte, spesso e volentieri all’esito di condotte riparatorie poste in essere – come detto – dall’ente stesso.

Considerato lo “stato dell’arte”, la conclusione delle presenti riflessioni non può che concretizzarsi nell’auspicio di una riforma che conduca ad applicare anche alle persone giuridiche tutte le “diversioni processuali” – intese quali strumenti deflattivi – riferibili alla persona fisica a cui è ascritto il reato presupposto, nell’ottica premiante di condotte post factum orientate alla riparazione, che costituisce – al contempo – principio ispiratore e obiettivo ultimo delle più recenti riforme di legge in campo ambientale e non solo.

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NOTE:

[1] Evidenzia la stessa contraddizione del sistema G. Amarelli, “La procedura estintiva delle contravvenzioni ambientali: il controverso ambito di operatività, gli auspicati correttivi e le attese deluse dalla riforma Cartabia”, in Lexambiente – Rivista Trimestrale di Diritto Penale dell’Ambiente, n. 4/2022, p. 22.

[2] C. Piergallini, “Il decreto legislativo di depenalizzazione dei reati minori n. 507 del 1999: lineamenti, problemi e prospettive”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2000, p. 1394.

[3] Sullo stesso argomento si vedano anche M. Pelissero, “Il principio di autonomia della responsabilità dell’ente”, in G. Lattanzi – P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. 1, 2020, p. 158 ss. e F. Mazzacuva, L’ente premiato. Il diritto punitivo nell’era delle negoziazioni: l’esperienza angloamericana e le prospettive di riforma, 2020, p. 259.

[4] Si segnala, tra i più completi, E. Scaroina, “Prospettive di razionalizzazione della disciplina dell’oblazione nel sistema della responsabilità da reato degli enti tra premialità e non punibilità”, in Diritto penale contemporaneo – Rivista Trimestrale, n.2/2020, p. 189 ss.; con specifico riferimento alla procedura estintiva introdotta nel 2015 si veda anche M. Bonvegna – S. Miceli, “La responsabilità amministrativa degli enti e la nuova “oblazione ambientale”: problemi di coordinamento e punti oscuri”, in Rivista 231, n. 2/2018, p. 103 e ss.

[5] Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, “La procedura estintiva dei reati contravvenzionali del d.lgs. 152/2006 introdotta dalla l. 68/2015: analisi e riflessioni”, in www.osservatorioagromafie.it.

[6] Sul punto si rimanda al contributo di M. Levis – A. Perini, La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2014, p. 1206, che evidenziava la contraddizione del sistema con riferimento alle contravvenzioni ambientali già incluse nell’ambito dell’art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001: «Da un lato, è certamente ragionevole che il processo si svolga soltanto contro l’ente nei casi di estinzione del reato per morte del reo, per estinzione del reato a seguito della sospensione condizionale della pena (art. 167 c.p.) o a seguito di «patteggiamento» (art. 445 c.p.p.). Per contro, è poco comprensibile che il processo possa iniziare e/o proseguire nei confronti del solo ente anche in caso di estinzione per oblazione (ad esempio: le contravvenzioni di cui all’art. 727 bis c.p. nonché talune di quelle elencate nell’art. 25 undecies)».

[7] Per approfondimenti, sul punto, si rimanda a L. Bontempi, “Sub art. 162. Oblazione nelle contravvenzioni”, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, t. I, 2015 pp. 2209-2220.

[8] La Corte di Cassazione ha difatti affermato – in numerose occasioni – che «la responsabilità amministrativo-penale da organizzazione prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001 investe direttamente l’ente, trovando nella commissione di un reato da parte della persona fisica il solo presupposto, ma non già l’intera sua concretizzazione. La colpa di organizzazione, quindi, fonda una colpevolezza autonoma dell’ente, distinta anche se connessa rispetto a quella della persona fisica (…). Tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso.» (ex multis, a titolo di esemplificativo, Corte Cass. pen., Sez. III, 15 gennaio 2020, n. 1420; nello stesso senso anche Corte Cass. pen., Sez. III, 15 marzo 2019, n. 11518 e Corte Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2017, n. 9072).

[9] Si richiama, sempre a titolo esemplificativo, un ulteriore passaggio della citata sentenza n. 1420/2020: «Detta causa di esclusione della punibilità non è, poi certamente applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente, essendo espressamente e univocamente riferita alla realizzazione di un reato, la cui punibilità viene esclusa per la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, mentre, come evidenziato, quella dell’ente trova nella realizzazione di un reato solamente il proprio presupposto storico, ma è volta a sanzionare la colpa di organizzazione dell’ente».

[10] Il dibattito della dottrina sul punto è molto puntualmente ricostruito in E. Scaroina, op. cit., p. 196.

[11] In questi termini si sono espressi A. Merlin – R. Losengo, “Ambiente. Il nuovo modello per la tutela penale”, in Ambiente&Sicurezza, n. 12/2015, p. 34, che, sul punto, hanno sostenuto come «Al fine di evitare una disparità di trattamento con evidenti riflessi di portata costituzionale, potrebbe allora essere ipotizzabile prospettare l’estinzione dell’illecito dell’ente, a fronte dell’oblazione della persona fisica, attraverso il richiamo dell’art. 129, c.p.p., consentito dalla generale clausola di estensione delle norme procedurali di cui all’art. 34, D.Lgs. n. 231/2001».

[12] A. Merlin – R. Losengo, op. cit., p. 34, hanno sostenuto che «…il riassetto generale del regime sanzionatorio delle violazioni ambientali avrebbe suggerito di porre mano al novero delle fattispecie presupposto, escludendo appunto quelle che – per loro caratteristiche – non corrispondono alle indicazioni della legislazione comunitaria e la cui inclusione tra i reati presupposto integra un sostanziale difetto di delega, censurabile per carenza di legittimità costituzionale».

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