La CEDU sul Cambiamento climatico: l’inerzia o un contrasto non efficace da parte dei governi violano il diritto al rispetto della vita privata e familiare

01 Giu 2024 | articoli, contributi

European Court of Human Rights – Grand Chamber – Case of Verein Klimaseniorinnen Schweiz and others v. Switzerland. Application no. 53600/20 – Strasbourg, 9 April 2024

European Court of Human Rights – Grand Chamber – Case of Duarte Agostinho and others v. Portugal and 32 others. Application no. 39371/20 – Strasbourg, 9 April 2024

European Court of Human Rights – Grand Chamber – Case of Careme v. France. Application no. 7189/21 – Strasbourg, 9 April 2024

In data 9 aprile 2024, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (per brevità, la “Corte”) ha emesso tre sentenze in relazione a tre distinte istanze di tutela presentate da differenti soggetti.

Pur nella loro diversità di impostazione, tutte le domande esaminate dai giudici di Strasburgo sono risultate accomunate da un unico minimo comune denominatore (che legittima, quindi, una loro trattazione unitaria in questa sede nonostante le tre decisioni abbiano avuto esiti diversi). Ci si riferisce chiaramente alla pretesa violazione dei diritti riconosciuti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito, la “Convenzione”) – tra tutti, in particolare, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata e familiare – in conseguenza della mancata adozione, a livello nazionale, di misure efficaci ai fini della riduzione delle emissioni in atmosfera dei c.d. gas ad effetto serra e, quindi, ai fini del raggiungimento degli obiettivi del contenimento del riscaldamento globale entro la soglia (ormai, forse, “più psicologica che reale”) di 1,5° centigradi e della c.d. neutralità climatica entro il 2050.

Al fine di meglio chiarire la portata del presente contributo (che non può e non vuole offrire al lettore una ricostruzione dettagliata del contenzioso in materia di cambiamento climatico. Per una disamina approfondita si veda, quanto alla dottrina nazionale, MASCHIETTO “Le controversie in materia di cambiamento climatico” in Codice dell’Ambiente, Giuffrè, 2022, pagg. 1568 e ss. A livello internazionale, si veda “United Nations Environment Programme – Global Climate Litigation Report 2023 Status Review”) occorre sin da subito sottolineare come le tre sentenze oggetto del presente commento non rappresentino certo una novità assoluta nel panorama giurisprudenziale nazionale e internazionale. Vi sono, infatti, numerose precedenti decisioni – sia di origine europea, sia (in particolare) provenienti da organi giurisdizionali d’oltre oceano – che, nel passato e più di recente, hanno già affrontato i temi dell’impatto e delle ripercussioni del cambiamento climatico sui diritti fondamentali delle persone e della inefficacia e inconsistenza delle misure adottate, a livello nazionale, ai fini della riduzione delle emissioni in atmosfera di gas ad effetto serra.

Senza alcuna pretesa di esaustività si possono citare, a livello internazionale, la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2 aprile 2007 nel caso Massachussets Vs EPA, la decisione della magistratura olandese nel c.d. caso Urgenda, la decisione della Corte Suprema irlandese nel caso Environment CLG vs The Government of Irland e la sentenza del Tribunale Amministrativo di Parigi del 3 febbraio 2021. A livello nazionale si può invece citare, in quanto di recentissima adozione, la decisione (di rigetto) n. 35542 assunta dal Tribunale Civile di Roma nel febbraio 2024.

Sotto questo profilo, dunque, le tre decisioni della Corte si inseriscono in un solco già tracciato e battuto, caratterizzandosi per aver esaminato contestazioni ed eccezioni che – in buona sostanza – ripetono quelle già ampiamente trattate, seppur con alterne fortune, in precedenti decisioni adottate da altri organi giurisdizionali[1]. La portata innovativa delle recentissime sentenze (in realtà dell’unica, tra le tre, che ha accolto parzialmente le domande dei ricorrenti) è, quindi, certamente inferiore rispetto a quella loro attribuita dalla stampa generalista (che non ha esitato a dipingere la vittoria dell’associazione svizzera contro la propria confederazione alla stregua di un “unicum” nella storia della lotta al cambiamento climatico).

Pur in mancanza di spiccati profili di innovatività, la sentenza (delle tre) con cui la Corte ha accolto le censure sollevate avanti ad essa merita in ogni caso apprezzamento avendo quantomeno richiamato l’attenzione su un tema, quello del climate change, che indubbiamente sarà destinato ad impattare direttamente e profondamente sulla vita di tutti e forse anche a modificarla in termini sino ad oggi nemmeno immaginati.

Al contempo – quale faccia opposta della stessa medaglia – la medesima sentenza è tuttavia destinata ad avere, ad avviso di chi scrive, scarso effetto quanto alla possibilità che nel continente europeo, caratterizzato dalla presenza di ordinamenti di civil law, vi possa essere finalmente quell’imprescindibile “revirement” nella politica legislativa e regolatoria ambientale necessario affinché si arrivi finalmente ad una effettiva riduzione nelle emissioni di gas ad effetto serra. Infatti, a prescindere dalla efficacia limitata della sentenza alle sole parti del giudizio, ciò che manca è la piena assimilazione del (rectius, la volontà politica di assimilare il) concetto di “litigation as a regulatory tool” che “[…] ha rivestito soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi di common law uno dei più straordinari incentivi per sollecitare la normativa in materia di cambiamento climatico […]” (MASCHIETTO).

A riprova di quanto sopra è sufficiente richiamare, tra le altre, la posizione espressa dallo Stato italiano (anch’esso “terza parte interveniente nel giudizio” avviato contro la Confederazione Svizzera), il quale – pur dichiaratosi assolutamente concorde, anche di fronte alle proprie autorità giurisdizionali[2], con la necessità di affrontare tempestivamente quella che forse è, al giorno d’oggi, una tra le più gravi minacce per l’intera umanità – non ha esitato a contestare la giurisdizione della Corte affermando che “[…] the Court’s jurisdiction was primarily territorial […] the “special” circumstances of a given case did not, as such, imply extraterritorial jurisdiction, nor was the “living instrument” principle of interpretation applicable to Article 1 of the Convention […]”.

Negli stessi termini si è posto l’intervento del Governo norvegese, il quale – pur dichiarandosi anch’esso “deeply committed to reducing national emissions” – non ha perso occasione per fare appello ai principi generali a tutela della sovranità di ciascuno Stato nel campo del climate change

[…] establishing climate and energy policy should be predominantly a political and democratic exercise. The Convention was not an instrument for the protection of collective interests, and the Court was not a supervisor of society-wide policy decisions. There was no legal basis for the expansion of the territorial, personal, and material scope of the obligations under the Convention in the present context as that would run counter to the principle of subsidiary and the State’s margin of appreciation […] The various international instruments on climate change had no bearing on the interpretation of the Convention. They rather reflected the fact that sovereign States retained their competence in the field of climate change […]” (enfasi aggiunta, ndr).

Eccezioni del tutto analoghe sono state sollevate nel giudizio “portoghese”, nel quale gli Stati convenuti hanno tutti richiamato l’attenzione sul difetto di giurisdizione della Corte.

Se tale posizione può dirsi coerente e comprensibile sotto un profilo strettamente formale, da un punto di vista sostanziale essa rappresenta la prova della scarsa portata, sul piano pratico, di decisioni simili a quelle oggetto di esame in questa sede, mancando – nei fatti – tanto la volontà quanto la possibilità di attuare (anche per ragioni del tutto estranee alle decisioni dei singoli governi nazionali) – quantomeno nel breve periodo e senza passare attraverso inattuabili sconvolgimenti sociali radicali – soluzioni tecniche realmente efficaci nella riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Tale situazione è, peraltro, apertamente riconosciuta nello stesso “settore” del climate change litigation. Nel Global Climate Litigation Report del 2023 si legge, infatti, apertamente che:

[…] Update on 2020 predictions: implementation challenges. As the number and variety of climate change cases increase, plaintiffs are likely to continue seeking a broad range of remedies. However, the implementation of those remedies remains a challenge across all types of cases […] It is possible that the implementation or non-execution of such orders will form the basis of legal suits moving forward. For instance […] implementation of the court’s decision in the Colombian Future Generation case continues to raise challenges […] After the decision in Milieudefensie, Shell decided to move its headquarters to the Unite Kingdom, potentially making implementation of the decision more challenging […] Several countries in Europe, in efforts to reduce dependence on Russian energy, have also recently decide to revert to coal due to the aggression by the Russian Federation against Ukraine […] This policy change con have significant consequences in the implementation of systemic mitigation decisions such as Urgenda v. The Netherlands ad Neubauer […]”.

Pur non essendo questa la sede per un esame approfondito della effettività della tutela accordata dai numerosi precedenti formatisi nel tempo nell’ambito del c.d. settore del climate change litigation, ad avviso di chi scrive si rende, quindi, necessario richiamare – prima di affrontare, nel merito, le tre decisioni della Corte e nell’ottica di poter attribuire loro il giusto valore (che non sminuisca ma nemmeno esageri la loro importanza) – le considerazioni svolte da quella dottrina inglese che, attraverso un raffronto con l’esperienza maturata nell’ambito della c.d. “strategic human rights litigation”, ha correttamente evidenziato come

[…] Studies of the implementation of human rights judgements show that while defendants will usually pay compensation when ordered by a court, this does not necessarily lead to a change in policy or practice. And judgements that order significant changes in policy or practice directly […] are far more challenging to implement. So if litigators are asking for damages but are really aiming to change behaviour or policy moving forward, they need to closely consider and articulate how one will lead to the other […] many climate litigators have not yet been confronted with the challenges of implementing strategic judgements. For example, if a case aims to increase the ambition of government mitigation policy, it is worth considering how to create a broad base of support that will give the government the additional cover or pressure it needs to undertake ambitious reform […]” (“Thinking Strategically about Climate Litigation”, pagg. 97 – 116, Ben Batros and Tessa Khan, in “Litigating the Climate Emergency How Human Rights, Courts, and Legal Mobilization Can Bolster Climate Action”, Cambridge University Press, November 2022. Enfasi aggiunta, ndr).

È allora, forse, proprio sotto tale profilo (più che rispetto ai principi in esse consacrati, che – come detto – non rappresentano una novità assoluta, essendo già stati pronunciati in altri precedenti) che devono essere esaminate le tre decisioni assunte dalla Corte (in particolare, il “caso svizzero”) in quanto ad esse – più che ad altre – può essere assegnato il ruolo di strumento di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle persone (primo fra tutti, del diritto alla vita) solo nella misura in cui tali decisioni siano in grado di “lasciare un segno” nel contesto sociale, politico e legale nel quale sono destinate a produrre i loro effetti: “[…] Highly prescriptive approaches to litigation are of limited value: the optimal approach will vary depending on the social, political and legal context and on the nature of the issue to be addressed […][3].

Ebbene, sempre a giudizio di chi scrive e a latere delle censure – pur sollevate nei tre giudizi avanti alla Corte e sulle quali (come si vedrà) quest’ultima ha preso una posizione netta – circa la legittimità della via giurisdizionale quale strumento per raggiungere determinati risultati[4], le decisioni della Corte non avranno (rectius, la decisione della Corte sul ricorso dell’associazione svizzera non avrà) nel prossimo futuro un impatto effettivo sulle future politiche energetiche e di sviluppo dei singoli paesi, quantomeno per un duplice ordine di ragioni: di natura sociale e politica.

Quanto al profilo più strettamente sociale, occorre prendere atto del fatto che – pur a fronte di una adesione, pressoché totale, rispetto alla generale e teorica esigenza di ridurre in modo consistente le emissioni di gas ad effetto serra nel prossimo futuro – non si registra nelle società dei paesi più sviluppati la stessa comunanza di intenti nel momento in cui ci si trova a dover attuare concretamente eventuali piani di riduzione[5]. Nella fase attuativa, infatti, si pone il problema della individuazione dei soggetti sui quali scaricare i costi derivanti dall’adozione di soluzioni tecniche in grado di determinare un reale impatto positivo sulle emissioni future di gas ad effetto serra. Tale scelta, infatti, oltre a rivelarsi del tutto “impopolare” sul piano politico reca con sé il concreto rischio della creazione di sacche di “emarginazione sociale ambientale”, in ragione delle quale l’esercizio concreto di determinati diritti (personali ed economici) diventa appannaggio dei soli soggetti in grado di pagare i costi della transizione ecologica.

Sul piano politico – strettamente connesso al profilo sociale – non si intravede, invece, una reale volontà a porre in essere concreti piani di riduzione (anche in ragione dell’intervento di circostanze del tutto estranee rispetto alla volontà dei singoli governi[6]) e tale circostanza è indirettamente confermata dallo stesso Global Climate Litigation Report 2023, nel quale si precisa che

[…] To keep the long-term temperature goal set out in article 2 on the Paris Agreement and limit global temperature rise to 1.5° C, countries need to significantly cut global emissions in half by the end of this decade. However, the UNFCCC secretariat estimated that, based on the latest NDCs, countries would likely use up to 89 per cent of the remaining carbon budget in 2020 – 2030 […] At the same time, in its 2021 Production Gap Report, UNEP[7] concluded that governments plan to produce more than double the amount of fossil fuels in 2030 than would be consistent with limiting global warming to 1.5° C […]”.

Alla luce delle considerazioni che precedono, chi scrive ritiene che la via della tutela giurisdizionale rispetto alla mancata adozione, da parte di un singolo Stato, di una adeguata politica di riduzione nelle emissioni di gas ad effetto serra costituisca oggi – nella totale assenza di una reale ed efficace strategia di implementazione (sul piano tecnico, economico e sociale) delle decisioni così assunte (soprattutto se promananti da organi giurisdizionali sovranazionali, vincolate dal limite del principio di sussidiarietà) – uno strumento in grado di determinare, potenzialmente, un effetto esattamente opposto rispetto a quello perseguito mediante la proposizione delle medesime istanza di tutela: ovverosia, la trasfigurazione della tutela di un diritto fondamentale (ad esempio, quello alla vita), concretamente e realmente minacciato dal fenomeno del riscaldamento globale, in una mera questione di principio o, peggio ancora, in una mera occasione di contrasto alle politiche energetiche adottate da un certo governo a livello nazionale.

In tale contesto, la via della tutela giurisdizionale – non determinando alcuna reale conseguenza sul piano pratico – da un lato finisce per svilire l’importanza di tale strumento e dall’altro rischia di divenire una facile soluzione (non impegnativa quanto alle sue conseguenze) per attribuire ad un organo giurisdizionale il compito – che non dovrebbe appartenergli – di colmare l’inerzia del potere politico. L’esito finale rischia, quindi, di concretizzarsi nell’avvio di un elevato numero di ricorsi che – pur focalizzati su un tema di estrema attualità e centralità, quale è quello del contrasto al riscaldamento globale – sono destinati a tradursi in un altrettanto elevato numero di provvedimenti di rigetto.

Tale assunto trova conforto, in primis, nelle due decisioni con le quali la Corte ha rigettato – rispettivamente – il ricorso portoghese e quello francese.

Lo stesso giorno in cui è stato accolto il ricorso dell’associazione svizzera la Corte ha, infatti, emesso altre due sentenze in relazione a due distinti ricorsi, uno presentato da sei giovani cittadini portoghesi contro lo Stato portoghese e altri 32 Stati (tra i quali anche l’Italia) e uno presentato da una cittadina francese (ex sindaco del Comune francese di Grande-Synthe) contro la Francia.

Quanto al ricorso presentato dai sei cittadini portoghesi[8], lo stesso è stato rigettatoin primisin ragione della impossibilità di assegnare agli stessi la qualifica di “vittime” ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione, non facendo parte (a differenza, come si vedrà di seguito, delle anziane donne svizzere) di un gruppo di individui particolarmente esposti alle conseguenze derivanti dal riscaldamento globale e non avendo subito – per loro stessa ammissione – alcun pregiudizio diretto, in particolare in occasione dei vasti incendi (causati dall’innalzamento delle temperature) che hanno interessato il suolo portoghese e che, leggendo la sentenza, avrebbero anche motivato la proposizione delle stesse istanze di tutela avanti alla Corte.

Le istanze di tutela dei medesimi ricorrenti sono state, inoltre, rigettate sia in ragione del fatto che gli stessi hanno fatto diretto ricorso alla Corte, senza prima esaurire tutti i rimedi previsti dall’ordinamento nazionale di appartenenza, sia in ragione della carenza di giurisdizione della stessa Corte per ciò che concerne le censure formulate nei confronti degli altri 32 Stati – diversi da quello portoghese – convenuti in giudizio (non sussistendo, infatti, alcun collegamento tra i cittadini ricorrenti e tali differenti Stati).

La Corte ha svolto considerazioni analoghe ai fini del rigetto delle censure svolte contro lo Stato francese, essendo anche in quel caso impossibile riconoscere alla ricorrente lo status di “vittima” ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione.

Fermo quanto sopra precisato in relazione alla “sentenza portoghese” e alla “sentenza francese”, la definitiva prova circa la scarsa rilevanza pratica della sentenza pronunciata sul “ricorso svizzero” è contenuta – ad avviso di chi scrive – nelle stesse conclusioni della decisione che si va a commentare in questa sede

[…] In the present case, having regard to the complexity and the nature of the issues involved, the Court is unable to be detailed or prescriptive as regards any measures to be implemented in order to effectively comply with the present judgement. Given the differentiated margin of appreciation accorded to the State […] is better placed than the Court to assess the specific measures to be taken […]”.

Ciò premesso, un focus particolare sarà ovviamente rivolto – in questa sede – alla sentenza con la quale la Corte ha accolto il ricorso presentato contro la Confederazione Svizzera. Solo in tale decisione, infatti, i giudici di Strasburgo sono entrati nel merito delle relative contestazioni.

***.***

Nella decisione che ha definito il procedimento promosso contro la Confederazione Svizzera – che, da sola, conta ben 258 pagine di motivazione – la Corte non si è certamente risparmiata nell’illustrare le ragioni alla base della propria decisione.

Poiché l’aspirazione del presente contributo è, al contrario, quella di offrire al lettore una chiave di lettura più immediata possibile di tale sentenza che possa farne comprendere i suoi tratti salienti, nel prosieguo si procederà solo per singoli punti analizzando in primo luogo la figura dei ricorrenti e – a seguire – gli ulteriori profili di rilievo. In questa sede, quindi, si seguirà per quanto possibile lo stesso filo conduttore tracciato dalla sentenza, nella speranza – tuttavia – di non cadere nello stesso errore compiuto dai giudici di Strasburgo e, quindi, di non condannare il lettore ad una lettura ipertrofica e defatigante, essendo chi scrive pienamente convinto che la bontà delle proprie convinzioni non si fondi certo sulla lunghezza delle argomentazioni spese a loro supporto.

  1. Le parti del procedimento

Secondo quanto si legge nella sentenza, il caso sottoposto alla sua attenzione è stato presentato dalla associazione non-profit, retta dal diritto svizzero, denominata Verein KlimaSeniorinne Schweiz e da quattro cittadine svizzere (a loro volta membri dell’associazione stessa), tutte nate tra il 1931 e il 1942 (una delle ricorrenti e deceduta nel corso del procedimento e ad essa sono succeduti i suoi eredi).

L’associazione – i cui membri sono donne residenti in Svizzera e dell’età media sopra i 70 anni – ha come proprio scopo sociale quello di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra in Svizzera, sia attraverso attività di tipo informativo/educativo sia tramite azioni legali nell’interesse dei propri membri.

Sempre secondo quanto riportato nella decisione della Corte, le quattro persone fisiche ricorrenti – comunque già affette da pregresse patologie – hanno tutte denunciato di aver subito e di subire ancora oggi gli effetti negativi (colpi di calore, collassi, sudorazione estrema, aggravamento di pregresse forme di asma, etc.) delle sempre più frequenti ondate di calore conseguenti al generalizzato innalzamento della temperatura globale causato dalla continua immissione in atmosfera di gas ad effetto serra. Oltre ad una serie di conseguenze pregiudizievoli sul piano medico, le ricorrenti hanno tutte lamentato di essere state costrette a cambiare le loro abitudini di vita – subendo, quindi, anche una illegittima compressione della loro vita di relazione – al fine di poter far fronte alle ondate di calore che negli ultimi anni hanno investito anche il territorio della Confederazione Svizzera.

  • I procedimenti avviati e le contestazioni sollevate dai ricorrenti avanti alle autorità nazionali

Nel novembre 2016, i ricorrenti rivolgono istanza al Consiglio Federale, al Dipartimento Federale per l’ambiente i trasporti l’energia e le comunicazioni (il “DETEC”), all’Ufficio Federale per l’Ambiente e all’Ufficio Federale per l’Energia della Confederazione Svizzera – ai sensi dell’art. 25a della legge federale sulla procedura amministrativa del 20 dicembre 1968[9] (di seguito, l’“APA”) – chiedendo l’adozione di una decisione formale idonea a porre rimedio – costringendo le autorità nazionali ad assumere ogni necessaria misura richiesta dalla Costituzione svizzera e dalla Convenzione – alle omissioni in tema di climate protection. A giudizio dei ricorrenti, infatti, i target nazionali di riduzione delle emissioni erano e sarebbero ancora oggi insufficienti, costituzionalmente illegittimi e, comunque, non compatibili con la Convenzione e il diritto internazionale.

In particolare, le colpevoli omissioni in tema di climate protection – traducendosi nel mancato assolvimento dell’obbligo della Stato di appartenenza di porre in essere un efficace framework normativo e amministrativo – integrerebbero la violazione del principio di sostenibilità[10], del principio di precauzione[11] e del diritto alla vita consacrati nella costituzione federale svizzera, oltre alla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2 (diritto alla vita), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione.

A sostegno della loro richiesta i ricorrenti affermano di far parte del gruppo sociale più vulnerabile tra tutti agli effetti negativi del cambiamento climatico: studi e ricerche internazionali avrebbero, infatti, dimostrato che la vita e la salute delle donne anziane sarebbe più gravemente impattata, rispetto al resto dell’intera popolazione, dalle ondate di calore causate dall’innalzamento della temperatura[12].

A fine aprile 2017, il DETEC rigetta tutte le richieste ex art. 25a APA dei ricorrenti eccependo a loro carico un “lack of standing” (un difetto di legittimazione ad agire) in ragione della mancanza dei requisiti di tale azione:

[…] The DETEC held that the main aim of the applicants’ request to the federal administrative authorities had been to initiate the enactment of legislative provisions to reduce CO2 emissions. That action was not comparable with an order (individual-specific order) or at least with a general order (general-specific order) as required by section 25a of the APA […] The DETEC considered that no individual legal positions were affected in the case in issue as the applicants’ request did not serve to specifically realise such individual positions, but rather aimed to have general, abstract regulations and measures put in place. The DETEC therefore considered that section 25a of the APA did not apply, as legislative procedures were not regulated by that Act and the applicants had other means at their disposal to engage in the exercise of their political rights […]” (enfasi aggiunta, ndr).

Risulta, quindi, chiaro come l’autorità amministrativa svizzera – al pari di quanto eccepito in casi analoghi a quello oggetto di esame in questa sede – abbia classificato l’azione dei ricorrenti nei termini di una “actio popularis” (di tipo correttivo), ovverosia di una azione volta a tutelare non un interesse specifico ma l’interesse generale – comune a tutti i consociati, ma non azionabile dal singolo – alla rimozione di una situazione di illegittimità.

Tale assunto è apertamente riconosciuto dalla Federal Administrative Court (“FAC”) svizzera avanti alla quale i ricorrenti hanno impugnato la decisione del DETEC, domandandone l’annullamento e la conseguente rimessione per un nuovo esame. Secondo quanto riportato nella sentenza della Corte, nella propria decisione di rigetto del novembre 2018 la FAC ha, infatti, statuito quanto segue:

[…] The FAC then examined the applicants’ complaints as regards the breach of their right to be heard. It found that […] it was clear that the applicants’ request had been rejected because the DETEC considered it to be of an action popularis nature […]”.

Più nel dettaglio, sul presupposto per cui

[…] in order to restrict the area of application as was necessary to exclude action popularis claims, the other criteria mentioned in section 25a(1) of the APA – namely an “interest worthy of protection”, and rights and obligations being affected – were to be applied. The concept of an “interest worthy of protection” […] required that there should be an existing interest and a practical benefit in pursuing it. Moreover the appellant had to be affected in a way that differed from the general population which was a criterion intended to exclude action popularis […]” (enfasi aggiunta, ndr).

la FAC svizzera ha escluso la possibilità di configurare – in capo a ricorrenti e in relazione alla pretesa adozione di misure efficaci rispetto alla diminuzione delle emissioni di gas ad effetto serra – un interesse meritevole di tutela qualificato e differenziato rispetto all’analogo interesse ascrivibile in capo alla generalità dei consociati[13]:

[…] Although different groups are affected in different ways […] it cannot be said […] that the proximity of the appellants to the matter in dispute – climate protection on the part of the Confederation – was close, compared with the general public …. Thus, the appellants have no sufficient interest worthy of protection, for which reason the authority of first instance rightly refused to issue a material ruling in terms of section 25a APA […] In summary, the appellants are not affected by Confederation’s climate protection measures in a way that goes beyond that of the general public. Their legal requests […] are therefore to be qualified as inadmissible actio popularis […]”.

Nel gennaio 2019 i ricorrenti hanno impugnato tale seconda decisione avanti alla Corte Suprema Federale (“FSC”), la quale – nel successivo maggio 2020 – ha a sua volta rigettato il gravame.

Sempre secondo quanto riferito dalla Corte nella propria sentenza

[…] The FSC first noted that the applicants had requested a large number of measures of different nature and scope which essentially amounted to a request to institute preparatory work for the enactment of laws and secondary legislation. However […] the FSC stressed that, according to Swiss constitutional law, proposals for shaping current policy areas should in principle be pursued by way of democratic participation […]”.

La Suprema Corte ha quindi – da un lato – qualificato l’azione dei ricorrenti nei termini di una (inammissibile) actio popularis[…] aimed at achieving something which should more appropriately be achieved not by legal action but political means […]” e, dall’altro, sul presupposto per cui l’aumento della temperatura globale di 1,5° C sarà raggiunto solo intorno al 2040 (verosimilmente in un periodo compreso tra il 2030 e il 2052) e che conseguentemente vi sarebbe ancora tempo per prevenire un sforamento di tale limite, ha concluso affermando che

[…] In the circumstances mentioned above, the appellants’ right to life under Article 10 § 1 of the Constitution and article 2 [of the Convention] does not appear to be threatened by the alleged omissions to such an extent at the present time that one could speak of their own rights being affected in terms of section 25a of the APA with sufficient intensity…The same applies to their private and family and their home in terms of Article 8 [of the Convention] […] The alleged domestic omissions do not achieve the fundamental rights relevance required under section 25a to guarantee the protection of individual rights […]”.

  • Il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

A fronte del rigetto da parte della Corte Suprema Federale, nel novembre 2020 i ricorrenti hanno adito la Corte ribadendo le loro contestazioni e in particolare – per quanto più di interesse in questa sede – la violazione degli articoli 2 (“Everyone’s right to life shall be protected by law…”) e 8 (“Everyone has the right to respect for his private and family life, his home…”) della Convenzione.

In estrema sintesi, duplice presupposto delle censure mosse contro la Confederazione Svizzera dai ricorrenti avanti ai giudici di Strasburgo è stata – da un lato – la pretesa inefficacia delle politiche nazionali di contenimento delle emissioni di gas ad effetto serra e, dall’altro, la possibilità di attribuire lo status di “vittima” (ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione e in relazione alla violazione degli Artt. 2 e 8 sopra citati) sia all’associazione sia alle cinque persone fisiche ricorrenti.

Quanto ai ricorrenti persone fisiche, le stesse hanno ribadito – alla luce delle risultanze degli studi scientifici condotti a livello internazionale e nazionale in relazione alla particolare “fragilità” di certe categorie sociali rispetto agli effetti del climate change – la loro diretta qualifica di “persone offese” rispetto al mancato assolvimento, da parte della nazione di appartenenza, del preciso obbligo di assicurare loro una protezione effettiva contro gli effetti del riscaldamento globale.

In relazione allo status di “vittima” dell’associazione – nonostante la “legal personality” di quest’ultima – i ricorrenti hanno sostenuto che la stessa dovesse essere considerata semplicemente alla stregua di un gruppo di individui, i cui membri (considerati singolarmente) risultano pregiudicati dal fallimento delle politiche climatiche della Confederazione Svizzera negli stessi termini dei ricorrenti persone fisiche, a loro volta membri della stessa associazione. Conseguentemente, l’azione svolta da quest’ultima non poteva configurarsi alla stregua di una actio popularis svolta nell’interesse generale, costituendo al contrario l’associazione solo uno strumento al fine di consentire alle persone fisiche di portare le loro contestazioni di fronte alla Corte.

All’opposto, la Confederazione Svizzera ha ribadito, di fatto, la posizione già espressa nei procedimenti avanti alle autorità nazionali: fermo il riconoscimento del global warming nei termini di una delle più importanti sfide per l’intera umanità, (i) le autorità elvetiche avrebbero da tempo adottato una moltitudine di misure specificamente indirizzate ad affronta il problema; (ii) il contributo della Confederazione Svizzera rispetto al totale delle immissioni globali di gas ad effetto serra sarebbe pari al solo 0,1% (con la conseguenza che – pur ammettendo, per mera ipotesi, la fondatezza delle censure dei ricorrenti – l’eventuale assunzione di misure efficaci a ridurre le emissioni nazionali in atmosfera non avrebbe un impatto positivo significativo, sotto il profilo causale, rispetto alla compressione dei diritti di cui agli Artt. 2 e 8 della Convenzione[14]); (iii) la via “giurisdizionale” non rappresenterebbe né il terreno ideale per l’esame della efficacia delle misure di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, né lo strumento più idoneo per “pressare” le autorità nazionali all’assunzione di misure idonee[15].

Anche in relazione allo status di “vittima” della associazione e dei ricorrenti persone fisiche, la Confederazione Svizzera ha ribadito le proprie tesi volte a negare, rispettivamente: (i) la possibilità di configurare un diritto alla vita e al rispetto della vita privata e alla vita familiare in capo ad una persona giuridica; (ii) l’esistenza di una prova concreta idonea a dimostrare un collegamento tra i pretesi danni patiti e patiendi e le asserite omissioni configurabili in capo alle autorità nazionali.

Sempre in relazione alla (im)possibilità di qualificare le cinque anziane donne quali vittime, non si può non citare l’amara (forse grottesca) considerazione delle autorità governative svizzere, a giudizio delle quali

[…] Acknowledging potential risks for the future […] raised the question whether the applicants, who were women already over the age of 80, would themselves be individually affected by the effects when global warming reached 1.5° C in 2040 in line with the relevant predictions. The further away the date damage would occur was, the more uncertain it was that it would occur and what the impact on the persons concerned would be […]”.

  • La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Prima di addentrarsi nell’esame dei profili di merito della decisione pronunciata dalla Corte in relazione alle istanze di tutela formulate dai ricorrenti svizzeri, è necessario riprendere un passaggio della sentenza che – sotto un certo profilo – dovrebbe assurgere a vera e propria chiave di lettura dell’intero tema della “giustiziabilità” della tutela dei diritti umani in situazioni (quale è quella trattata in questa sede) che, per le loro caratteristiche uniche, si risolvono in un (apparente) contrasto con i principi fondanti di ogni sistema giuridico moderno (tra i quali, in particolare, quello della separazione dei poteri):

[…] Judicial intervention, including by this Court, cannot replace or provide any substitute for the action which must be taken by the legislative and executive branches of government. However, democracy cannot be reduced to the will of majority of the electorate and elected representatives, in disregarded of the requirements of the rule of law. The remit of domestic courts and the Court is therefore complementary to those democratic processes. The task of the judiciary is to ensure the necessary oversight of compliance with legal requirements. The legal basis for the Court’s intervention is always limited to the Convention, which empowers the Court to also determine the proportionality of general measures adopted by the domestic legislature […]

Quanto sopra riportato costituisce – nonostante la sua collocazione ad oltre metà della sentenza – la “dichiarazione di apertura” che la Corte ha posto a premessa della sua analisi e con la quale, di fatto, ha disinnescato gli effetti di quella contestazione che potrebbe essere riassunta, in senso lato e mutuando una espressione utilizzata in altri contesti, nel principio del “no taxation without representation” e che ha spesso portato (soprattutto oltre oceano) alla immediata reiezione di tutte quelle istanze di tutela tramite le quali si è cercato di demandare ad un organo giurisdizionale (o ad un organo amministrativo non democraticamente eletto) un intervento “correttivo” nel campo delle scelte di politica ambientale.

Posta la premessa che precede occorre ora esaminare le questioni preliminari risolte dalla Corte, essendo queste legate a doppio filo, in primis, alla stessa possibilità di assegnare il ruolo di “vittima” ai ricorrenti.

Il primo profilo trattato è relativo all’apprezzamento del nesso di causalità in un ambito – quello del climate change – non perfettamente sovrapponibile alle “classiche” tematiche ambientali. La Corte identifica quattro dimensioni della “question of causation of climate-change disputes” (che, anticipando quanto di seguito riportato, rappresentano il filo conduttore che conduce verso l’accoglimento delle censure dei ricorrenti):

  1. la prima dimensione attiene al collegamento tra le emissioni di gas ad effetto serra e i vari fenomeni in cui si manifesta il cambiamento climatico;
  2. la seconda dimensione attiene al collegamento tra le varie conseguenze avverse del climate change e l’impatto che le stesse possono avere, oggi e in futuro, sul godimento dei diritti umani;
  3. la terza dimensione attiene al collegamento tra il danno (o il rischio di danno) in capo ad una persona o a un gruppo di persone e gli atti o le omissioni imputabili alle autorità nazionali competenti ad impedire il verificarsi del predetto danno;
  4. la quarta dimensione attiene alla possibilità di attribuire ad un soggetto specifico la responsabilità delle conseguenze derivanti dal climate change[…] given that multiple actors contribute to the aggregate amounts adn effects of GHG emissions […]”.

Quanto al primo punto la Corte compie una duplice constatazione: da un lato riconosce la necessità che, in determinate situazioni, si possa e debba derogare tanto al normale standard probatorio dell’oltre ragionevole dubbio quanto alla regola generale per cui “onus probandi incumbit ei qui dici non ei qui negat[16], dall’altro, afferma apertamente che – pur non essendo suo compito sostituirsi alle autorità nazionali nella valutazione dei fatti (non essendo un “first-istance tribunal of fact”) e ferma, al contempo, l’assenza di qualsiasi vincolo rispetto ai findings delle domestic courts – essa è libera di fare riferimento “[…] to the relevant international standars concerning the effects of environment pollution when ascertaining whether the rights of an individual have been affected […]”. Con riferimento al climate change la Corte richiama espressamente i reports dell’IPCC, rappresentando gli stessi una guida sugli impatti e sui rischi futuri e le opzioni di adattamento e mitigazione.

Sul secondo punto la Corte afferma la necessità di affrontare il tema dell’impatto del climate change sui diritti umani di cui alla Convenzione con un approccio “prospettico” quantomeno in ragione della natura di “living instrument” di quest’ultima, idoneo a riflettere – quanto alla tutela dei diritti umani – il costante incremento degli standard internazionali. È, quindi, in tale contesto che – secondo la Corte – deve essere apprezzata la capacità dell’Art. 8 della Convenzione di offrire tutela alla vita degli individui, sia intesa come benessere individuale sia sotto un profilo qualitativo, non solo in relazione agli effetti avversi attuali ma anche in relazione al rischio del verificarsi di tali effetti.

In relazione al terzo e quarto punto la Corte prende le mosse da una constatazione, forse ovvia ma necessaria attesa la particolarità del tema sottoposto alla sua attenzione: poiché gli effetti avversi del climate change (e il rischio di tali effetti) a carico di specifici individui o gruppi di individui derivano dal quantitativo di gas ad effetto serra emessi a livello globale e, conseguentemente, il quantitativo emesso in relazione ad una specifica giurisdizione è – sul piano causale – solo “una parte del tutto”, il collegamento tra azioni e omissioni di un singolo Stato e i pregiudizi (o il rischio del loro verificarsi) da esse derivanti è necessariamente più tenue. Pertanto, tanto l’attribuzione dello “status di vittima” (ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione) quanto la determinazione del contenuto delle obbligazioni di tutela a carico dei singoli Stati non possono essere determinati sulla base di una rigida applicazione del principio della condicio sine qua non.

A quanto sopra riportato la Corte associa poi – a confutazione del “drop in the ocean argument” del Governo Svizzero – il principio della responsabilità comune ma differenziata di tutti i singoli Stati nella riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra:

“[…] while climate change is undoubtedly a global phenomenon which should be addressed at the global level by the community of states, the global climate regime established under the UNFCCC rests on the principle of common but differentiated responsibilities and respective capabilities of States […] It follows, therefore, that each State has its own share of responsibilities to take measures to tackle climate change and that the taking of those measures is determined by the State’s own capabilities rather than by any specific action (or omission) of any other State. The Court considers that a respondent State should not evade its responsibility by pointing to the responsibility of other States, whether Contracting Parties to the Convention or not […]”.

Esaurite le “questions of causation”, la Corte affronta il tema del “victim status/locus standi” rispettivamente in relazione ai ricorrenti persone fisiche e alla associazione.

Quanto ai ricorrenti persone fisiche, la Corte precisa che – ai fini della qualificazione nei termini di “vittima” ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione e nell’ambito di una contestazione avente ad oggetto il danno (o il rischio di danno) derivante dall’inadempimento di uno Stato a contrastare il climate change – l’istante deve dimostrare di essere stato direttamente e personalmente pregiudicato da tale inadempimento.

A tal fine, sempre secondo la Corte, occorre applicare il seguente duplice criterio:

  • il livello e la severità delle avverse conseguenze derivanti, in capo al ricorrente, dall’errata azione o dall’inazione delle autorità governative deve essere significativo;
  • deve esserci una pressante necessità di assicurare una protezione al ricorrente in ragione dell’assenza (o della inadeguatezza) di qualsiasi altra ragionevole misura di riduzione del danno.

Quanto al locus standi dell’associazione – che, giova ricordare, in questo caso ha affermato di essere essa stessa “vittima” ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione – la Corte parte constatando che

[…] there seems to be no reason to call into question the principle in the case-law that an association cannot rely on health consideration or nuisances and problems associated with climate change which can only be encountered by natural persons. This, by the nature of things, places a constraint on the possibility of granting victim status to an association with regard to any substantive issue under Articles 2 and/or 8 of the Convention […]

Posta tale premessa, la stessa Corte richiama – tuttavia – l’evoluzione verificatasi nella società contemporanea quanto al riconoscimento dell’importanza delle associazioni nella tutela degli interessi dei singoli nell’ambito del contenzioso sul climate chamge, che – spesso – si accompagna a complesse questioni legali e che richiede rilevanti risorse economiche e logistiche.

È proprio in tale contesto che a giudizio della Corte è però necessario fissare alcuni requisiti al fine di evitare che, per il tramite di una associazione, possano trovare ingresso “actio popularis” fondate sulla base di una pretesa violazione della Convenzione:

[…] the following factors will determine the standing of associations before the Court in the present context. In order to be recognised as having locus standi to lodge an application under Article 34 of the Convention on account of the alleged failure of a Contracting State to take adequate measures to protect individuals against the adverse effects of climate change on human lives and health, the association in question must be: (a) lawfully established in the jurisdiction concerned or have standing to act there; (b) able to demonstrate that it pursues a dedicated purpose in accordance with its statutory objectives in the defense of the human rights of its members or other affected individuals within the jurisdiction concerned […] (c) able to demonstrate that it can be regarded as genuinely qualified and representative to act on behalf of members or other affected individuals within the jurisdiction who are subject to specific threats or adverse effects of climate change on their lives, health or well-being as protected under the Convention […]”.

Chiusa anche la questione della individuazione dei criteri per l’assegnazione del victim status e del locus standi, la Corte passa all’analisi della applicabilità – in termini generali – delle previsioni di cui agli artt. 2 e 8 della Convenzione.

Quanto all’Art. 2 della Convenzione la Corte apre il suo ragionamento richiamando le conclusioni dell’IPCC in relazione sia all’aumento dei casi di mortalità collegati all’aumento delle temperature, sia alla individuazione della categoria di soggetti maggiormente a rischio. Sul punto si legge nella sentenza in particolare quanto segue

[…] the IPCC has found (with medium confidence) that anthropogenic climate change, particularly of through increased frequency and severity of extreme events, increases heat-related human mortality […] the IPCC has also found (with high confidence) that population at highest risk of temperature-related morbidity and mortality include older adults, children, women, those with chronic diseases, and people taking certain medications […]

Posta questa premessa in fatto, la Corte precisa poi che l’applicabilità dell’Art. 2 non può operare in astratto ma che – nell’ambito di una attività per sua natura in grado di mettere a rischio la vita – deve sussiste un rischio per la vita reale (ovverosia, serio, genuino e accertabile) e imminente (nel senso di fisicamente e temporalmente prossimo).

La Corte conclude, quindi, affermando che

“[…] In sum, in order for Art. 2 to apply to complaints of States action and/or inaction in the context of climate change, it needs to be determined that there is a “real and imminent” risk to life. However, such risk to life in the climate-change context must be understood in the light of the fact that there is a grave risk of inevitability and irreversibility of the adverse effects of climate change, the occurrences of which are most likely to increase in frequency and gravity. Thus, the “real and imminent” test may be understood as referring to a serious, genuine and sufficiently ascertainable threat to life […]

In relazione all’Art. 8 della Convenzione la Corte ricorda come, ai fini della applicabilità di tale norma in relazione alle environemntal nuisances, sia necessario dimostrare l’esistenza di una “actual interference” quanto al godimento della “private or family life or home” e il raggiungimento di un certo livello di severità nella compromissione.

Quanto alla “actual interference” i giudici di Strasburgo specificano come essa – quale elemento caratterizzante il collegamento tra i supposti danni ambientali e la vita familiare – non possa ridursi ad un generico deterioramento dell’ambiente stesso (circostanza, quest’ultima, comune in via indifferenziata a tutti gli individui inseriti in quel determinato ambiente[17]), dovendo tradursi – al contrario – in uno specifico effetto negativo sulla vita privata e sulla sfera familiare di un individuo. Tale effetto, peraltro, non è necessariamente limitato ai soli pregiudizi di ordine materiale ma si estende anche a tutte le situazioni in cui la violazione si traduca in rumore, emissioni, odori o altre forme di interferenza[18].

Oltre ad essere “specifica” nei termini sopra indicati, l’actual interference deve soddisfare un livello minimo di gravità per poter rientrare nell’ambito di applicazione dell’Art. 8 della Convenzione, da valutarsi in funzione delle circostanze concrete.

Nei termini sopra indicati – e, quindi, al ricorre di una actual interference di sufficiente gravità – la Corte conclude affermando che “[…] having regard to the causal relationship between State actions and/or omissions relating to climate change and the harm, or risk of harm, affecting individuals Article 8 must be seen as encompassing a right for individuals to effective protection by the State authorities from serious adverse effects of climate change on their life, health, well-being and quality of life […]”.

Sulla base dei criteri di analisi sopra riassunti, la Corte formula – quindi – le proprie conclusioni in relazione, in primis, alla qualifica dei soggetti che ad essa si sono rivolti: associazione e singoli ricorrenti persone fisiche vanno incontro, tuttavia, ad un diverso destino.

Alla associazione la Corte riconosce, infatti, il necessario locus standi, con conseguente rigetto di tutte le eccezioni sollevate sul punto dal Governo svizzero:

[…] Given the membership basis and representativeness of the applicant association[19], as well as the purpose of its establishment, the Court accepts that it represents a vehicle of collective recourse aimed at defending the rights and interests of individuals against the threats of climate change in the respondent State […] The Court, furthermore, notes that individual applicants did not have access to a court in the respondent State. Thus, viewed overall, the grant of standing to the applicant association before the Court is in the interests of the proper administration of justice […]

Una diversa sorte è stata riconosciuta dai giudici di Strasburgo alle quattro anziane donne aderenti all’associazione che si sono unite a quest’ultima nel procedimento avanti alla Corte. Infatti, pur essendo indubbio – alla luce delle risultanze degli studi nazionali e internazionali – la loro appartenenza ad un gruppo di soggetti particolarmente esposti alle conseguenze del climate change, tale circostanza non è stata ritenuta sufficiente ai fini della attribuzione dello status di “vittima” ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione, risultando mancante – in particolare – la prova circa la sussistenza del requisito del pregiudizio di particolare severità e delle “[…] individual vulnerabilities which may give rise to pressing need to ensure their individual protection […]”.

Sulla base di tale duplice negativo accertamento, la Corte ha concluso affermando che

[…] It follows […] that applicants nos. 2-5 do not fulfil the victim-status criteria under Article 34 of the Convention. This suffices to the Court to conclude that their complaints should be declared inadmissible as being incompatible ratione materiae with the provisions of the Convention […]

Dall’esclusione dei ricorrenti persone fisiche è derivata – gioco forza – la riduzione dell’ambito di indagine della Corte alla sola applicazione dell’Art. 8 della Convenzione (non essendo ammissibile un esame circa l’effettiva lesione del diritto alla vita in relazione ad un ente collettivo). A tal fine i giudici di Strasburgo hanno preso in esame – in primo luogo – le obbligazioni del singolo Stato in tema di cambiamento climatico sotto il duplice profilo del margine di discrezionalità e del relativo contenuto.

In ragione del principio di sussidiarietà, spetta infatti alle autorità nazionali – prime tra tutti i possibili attori (anche internazionali) in tale campo – il compito di assicurare ai singoli i diritti e le libertà loro riconosciuti dalla Convenzione. Nell’assolvere a tale obbligo ciascuno Stato è ovviamente titolare di un certo margine di discrezionalità, il quale – tuttavia – presenta una ampiezza differente a seconda del campo in cui tale margine è destinato a operare: secondo quanto precisato dalla Corte in sentenza, esso sarà minimo in relazione alla necessità o no di assumere con tempestività provvedimenti efficaci in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra mentre sarà certamente più ampio per ciò che attiene alla scelta delle singole misure da attuare ai fini del raggiungimento di tale riduzione.

Posta tale premessa, quanto al contenuto dell’obbligo di intervento di ciascuno Stato in relazione alle previsioni di cui all’Art. 8 della Convenzione la Corte afferma innanzitutto che

[…] In line with the international commitments undertaken by the members States, most notably under the UNFCCC and the Paris Agreement, and the cogent scientific evidence provided, in particular, by the IPCC […] the Contracting States need to put in place the necessary regulations and measurements aimed at preventing an increase in GHG concentrations in the Earth’s atmosphere and a rise in global average temperature beyond levels capable of producing serious and irreversible adverse effects on human rights […]

Sempre a giudizio della Corte, inoltre, al fine di prevenire un onere sproporzionato a carico delle generazioni future, le misure adottate da ogni singolo Stato (soprattutto in termini di targets e timeline) devono essere inserite in un framework regolamentare obbligatorio e tempestivamente implementate con i necessari strumenti attuativi.

Al fine di poter verificare il corretto adempimento dell’obbligo sopra indicato e, in particolare, l’eventuale travalicamento – da parte del singolo Stato – del citato limite alla discrezionalità nella scelta delle misure concrete da attuare, la Corte si riserva un accertamento in concreto sui seguenti punti:

  • l’avvenuta adozione di misure generali con la specifica indicazione di una “target timeline” per il raggiungimento della neutralità carbonica e l’indicazione del “carbon budget” (o di analoga metodologia di calcolo delle emissioni future);
  • l’effettiva impostazione di target intermedi nella riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra e dei percorsi idonei al raggiungimento (quantomeno sul piano teorico) degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni stesse;
  • la messa a disposizione di prove circa l’avvenuto raggiungimento (o la pendenza di procedimenti volti a raggiungimento) dei target di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra;
  • l’aggiornamento dei target nella riduzione delle emissioni in future;
  • l’assunzione dei necessari interventi in tempo utile in sede di definizione della legislazione in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Ebbene, calando tale procedura di accertamento nel caso concreto, dopo aver esaminato nel dettaglio il succedersi degli interventi e delle misure adottate dalla Confederazione Svizzera, la Corte evidenzia che:

[…] On 30 September 2022 […] the Climate Act was enacted […] This Act – which was confirmed in a referendum only on 18 June 2023 but has not yet come into force – envisages the principle of a net-zero emissions target by 2050 by providing that the GHG emissions should be reduced “as far as possible”. It also provides for an intermediate target for 2040 (75% reduction compared with 1990 levels) and for the years 2031 to 2040 (average of at least 64%) and 2041 to 2050 (average of at least 89% compared with 1990 levels) […] the Court notes that the Climate Act sets out the general objectives and targets but that the concrete measures to achieve those objectives are not set out in the Act but rather remain to be determined by the Federal Council and proposed to Parliament “in good time” […] It should also be noted that the new regulation under the Climate Act concerns intermediate targets only for the period after 2031. Given the fact that the 2011 CO2 Act provides for legal regulation of the intermediate targets only up until 2024 (see paragraph 561 above), this means that the period between 2025 and 2030 still remains unregulated pending the enactment of new legislation […]”.

Sulla base di tale analisi, la Corte conclude il proprio accertamento in termini chiaramente negativi, affermando espressamente che

[…] In these circumstances, given the pressing urgency of climate change and the current absence of a satisfactory regulatory framework, the Court has difficulty accepting that the mere legislative commitment to adopt the concrete measures “in good time”, as envisaged in the Climate Act, satisfies the State’s duty to provide, and effectively apply in practice, effective protection of individuals within its jurisdiction from the adverse effects of climate change on their life and health […]

I giudici di Strasburgo si spingono, peraltro, anche oltre accogliendo l’ulteriore censura formulata dalla associazione ricorrente secondo la quale – in realtà – la normativa in tema di riduzione dei gas ad effetto serra della Confederazione Svizzera legittimerebbe, per assurdo, un aumento delle stesse emissioni

“[…] Referring to the relevant IPCC assessment of the global carbon budget, and the data of the Swiss greenhouse gas inventory205, the applicant association provided an estimate according to which, assuming the same per capita burden-sharing for emissions from 2020 onwards, Switzerland would have a remaining carbon budget of 0.44 GtCO2 for a 67% chance of meeting the 1.5oC limit (or 0.33 GtCO2 for an 83% chance). In a scenario with a 34% reduction in CO2 emissions by 2030 and 75% by 2040, Switzerland would have used the remaining budget by around 2034 (or 2030 for an 83% change). Thus, under its current climate strategy, Switzerland allowed for more GHG emissions than even an “equal per capita emissions” quantification approach would entitle it to use […]”.

La Corte conclude – quindi – con un giudizio negativo sulla normativa svizzera in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, ritenendo integrata la violazione dell’Art. 8 della Convenzione:

[…] In conclusion, there were some critical lacune in the Swiss authorities’ process of putting in place the relevant domestic regulatory framework, including a failure by them to quantify, through a carbon budget or otherwise, national GHG emission limitations. Furthermore, the Court had noted that […] the State had previously failed to meet its past GHG emission reduction targets […] By failing to act in good time and in an appropriate and consistent manner regarding the devising, development and implementation of the relevant legislative and administrative framework, the respondent State exceeded its margin of appreciation and failed to comply with its positive obligations in the present context. The above findings suffice for the Court to find there has been a violation of Article 8 of the Convention […]”.


[1] Secondo quanto riportato nel United Nations Environment Programme – Global Climate Litigation Report 2023 Status Review[…] Climate litigation in a growing field […] The 2020 Litigation Report identified 1,550 cases brought in 39 jurisdiction, including international or regional courts, tribunals, quasi-judicial bodies, such as special procedures of HRC, arbitration tribunals, international adjudicatory bodies, and the European Union. These include 1,200 cases in the United States of America and 350 cases in all other jurisdictions combined. As at 31 Decembre 2022, the cumulative number of cases tracked in Sabin Centre’s database has increased with 2,180 climate change cases filed in 65 jurisdictions. The number includes 1,522 cases in the United States of America and 658 cases in all other jurisdiction combined […]”.

[2] Si veda, sul punto, quanto riportato nella motivazione della sentenza n. 35542 del Tribunale Civile di Roma del febbraio 2024

[3] Thinking Strategically about Climate Litigation”, pag. 107.

[4] Sul punto, cfr. Thinking Strategically about Climate Litigation”, pag. 106: “[…] The role of litigation in achieving social change has been contested for decades, with some dismissing courts as a “hollow hope” for rights advocates as early as 1991. Sometimes these critiques characterized the role of courts and litigation in realizing rights or achieving change as “anti-democratic, wresting powers from elected representatives and their procedures”, or “elitist”, as it disempowers local communities by replacing control in the hands of “the lawyers” […] Others criticize litigation as ineffective, pointing to the poor record of implementation and the list of “landmark” cases that made little change on the ground and arguing that the narrow and formalistic frame of litigation and judicial orders is inadequate to address deeply complex problems […]”. In termini negativi rispetto al ruolo del rimedio giurisdizionale nella tutela degli interessi dei singoli, asseritamente lesi dalle politiche italiane di riduzione nelle emissioni di gas ad effetto serra si è espressa anche la magistratura italiana nella sentenza n. 35542/2024, Trib. Roma: “[…] l’interesse di cui si invoca la tutela risarcitoria ex art.2043 e 2051 c.c. non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico – che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana – rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio […] Quelli posti in essere dal Governo e dal Parlamento, e qui oggetto di censura, sono tuttavia atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione, indubbiamente emergenziale, del cambiamento climatico antropogenico. Le censure mosse si appuntano sull’azione di indirizzo politico posta in essere dai titolari della sovranità statuale in ordine alle concrete modalità con cui stanno contrastando il cambiamento climatico per il raggiungimento degli obiettivi individuati nell’ambito dell’ordinamento eurounitario e internazionale […] E’ peraltro utile evidenziare che la giurisprudenza di legittimità, chiamata a pronunciarsi su altra questione avente ad oggetto le conseguenze dell’inadempimento dello Stato agli obblighi derivanti dal diritto euro unitario, ha precisato come debba escludersi qualsiasi diritto soggettivo dei cittadini al corretto esercizio del potere legislativo (cfr. Cass. n.9147/2009; Cass. n.23730/2016), in ragione della insindacabilità dell’attività esplicativa di funzioni legislative […]”.

[5] Sul punto, cfr. Thinking Strategically about Climate Litigation”, pag. 106: “[…] The social context can include whether the litigator is addressing a problem that the public is already aware of, or whether the litigator is trying to draw public attention to a new issue. Is the society fragmented or unified? Is this an issue where the bulk of the population is suffering at the hands of an elite, or where the litigator is trying to secure the right of a minority? And what previous attempts have benne made to address this issue? […]”.

[6] Ci si riferisce, in questo caso, alle misure emergenziali adottate a seguito della crisi del prezzo del gas conseguente alla guerra in Ucraina. Anche il nostro paese, infatti, si è trovato costretto a compiere scelte del tutto antitetiche rispetto all’impegno alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra assunto a livello internazionale. Si pensi, a tal proposito, alla scelta di riattivare d’urgenza centrali elettriche a carbone di cui si era già programmata e decisa da tempo la dismissione. Sul punto, cfr. Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2022, “Riapertura centrali a carbone: ecco i siti che torneranno a pieno regime. La massimizzazione della produzione a carbone e olio delle centrali esistenti è prevista dal Regolamento pubblicato dal Mite per «realizzare da subito risparmi utili a livello europeo a prepararsi a eventuali interruzioni delle forniture di gas dalla Russia»”.

[7] United Nations Environment Programme (UNEP)

[8] I sei cittadini portoghesi hanno fatto ricorso diretto alla Corte lamentando di subire già oggi gli effetti negativi dell’aumento globale della temperatura, in particolare inconseguenza dei forti incendi che hanno di recente interessato ampie aree del Portogallo e causato numerosi morti.

[9] Ai sensi dell’art. 25a della legge federale sulla procedura amministrativa del 20 dicembre 1968 “1 Chiunque ha un interesse degno di protezione può esigere che l’autorità competente per atti materiali che si fondano sul diritto pubblico federale e che tangono diritti od obblighi: a. ometta, cessi o revochi atti materiali illeciti; b. elimini le conseguenze di atti materiali illeciti; c. accerti l’illiceità di atti materiali. 2 L’autorità pronuncia mediante decisione formale”.

[10] L’art. 73 della Costituzione federale della Confederazione Svizzera, rubricato “Sviluppo sostenibile”, stabilisce che “La Confederazione e i Cantoni operano a favore di un rapporto durevolmente equilibrato tra la natura, la sua capacità di rinnovamento e la sua utilizzazione da parte dell’uomo […]”.

[11] L’art. 74 della Costituzione federale della Confederazione Svizzera, rubricato “Protezione dell’ambiente”, stabilisce che “La Confederazione emana prescrizioni sulla protezione dell’uomo e del suo ambiente naturale da effetti nocivi o molesti. Si adopera per impedire tali effetti. I costi delle misure di prevenzione e rimozione sono a carico di chi li ha causati […]”.

[12] Quanto all’incidenza delle ondate di calore sulla vita delle persone residenti nel territorio svizzero, la Corte fornisce alcuni dati che, sotto un certo profilo, appaiono certamente allarmanti: durante l’ondata di calore del 2003 si è registrata, nei mesi di giugno e luglio, un aumento di circa 1000 unità nei decessi, l’80% dei quali ha interessato persone di età superiore ai 75 anni. L’incremento più significativo nella mortalità durante l’estate del 2015 ha interessato soggetti di età compresa tra i 75 e gli 84 anni. Allo stesso modo, nell’agosto del 2018 quasi il 90% delle morti connesse al caldo ha interessato donne anziane (quasi tutte di età superiore a 75 anni). Nel corso dell’ondata di calore del 2019 le persone più anziane sono state a maggior rischio di mortalità e quelle di 85 anni di età e più sono state quelle maggiormente colpite.

[13] Si ritiene opportuno evidenziare sin d’ora come su questo punto la Corte Federale Amministrativa svizzera si ponga in netto contrasto con quanto successivamente riportato dalla Corte nella propria sentenza, nella quale i giudici di Strasburgo – richiamando i dati forniti nell’IPCC 2018 Special Report e negli studi denominati, rispettivamente, “The Footprint of Anthropogenic Climate Change on Heat-Related Deaths in Summer 2022 in Switzerland” e “The role of extreme temperature in cause-specific acute cardiovascular mortality in Switzerland: A case-crossover study” – hanno chiaramente riportato il dato scientifico secondo il quale che “[…] Older adults, women and persons with chronic diseases were at the highest risk of temperature-related morbidity and mortality. Overall, women aged above 75 (such as applicants nos. 2-5) were at greater risk of premature loss of life, severe impairment of life and of family and private life, owing to climate change-related excessive heat than the general population […]”.

[14][…] Global warming was a global phenomenon and only resolute action by all States, combined with changes in behaviour on the part of private actors and all citizens, could make it possible to find lasting solutions to this immense challenge. GHG emissions were caused by the community of States and different States emitted different GHG emissions. Given Switzerland’s current low GHG intensity, the omissions imputed to Switzerland were not of such a nature as to cause, on their town, ten suffering claimed by the applicants and to have serious consequences for their lives and private and family life. There was therefore not a sufficient link between polluting emissions and the respondent State to raise the question of its positive obligations under Articles 2 and 8 of the Convention […]”.

[15]“[…] While the Government accepted that in democratic societies the public legitimately sought to put pressure on the authorities to address climate change […] the system of individual application under the Convention was not the appropriate means to do that given, in particular, the principle of subsidiary. The democratic institutions in the political system of Switzerland provided sufficient and appropriate means to address concerns relating to climate change, and a “judicialisation” of the matter at the international level would only create tension from the perspective of the principle of subsidiary and the separation of powers. In any event, the Court could not act as supreme court for the environment, given, in particular, the evidentiary and scientific complexity of the matter […]”

[16][…] In certain instances, only the respondent Government have access to information capable of corroborating or refunding the applicant’s allegations, consequently, a rigorous application of the principle affirmanti, non neganti, incmbit probation is impossible […]”.

[17][…] The Court has made clear that there will be no arguable claim under Article 8 if the detriment complained of is negligible in comparison to the environmental hazards inherent in every modern city […]”.

[18][…] A serious interference may result in the breach of a person’s right to respect for his or her home if it prevents him or her from enjoying the amenities of his or her home […]”.

[19] Quanto al profilo attinente alla rappresentatività, la Corte dà atto nella motivazione della sentenza, del pieno raggiungimento di tutti i requisiti dalla stessa posti ai fini del riconoscimento del locus standi. L’associazione, infatti, (i) risulta essere una associazione non-profit costituita secondo il diritto svizzero al fine di promuovere e implementare – in favore dei suoi membri – una tutela effettiva contro il cambiamento climatico; (ii) ha più di 2000 donne aderenti che vivono in Svizzera e la cui età media è di 73 anni, mentre 650 membri hanno 75 anni o più; (iii) promuove numerose attività volte alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra in Svizzera; (iv) agisce non soltanto a tutela degli interessi dei propri aderenti ma anche nell’interesse del pubblico generale e dele generazioni future.

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