Il Green Deal e i suoi oppositori: il conflitto con la Carta dell’energia e con gli investimenti esteri #2

01 Lug 2023 | articoli, contributi, in evidenza 2

di Dario Bevilacqua

  1. Introduzione

La governance dell’energia è problematica e lo è anche, o soprattutto, per le sue interazioni con la materia ambientale: la scelta di approvvigionarsi da fonti inquinanti o pulite risente di discipline regolatorie o approcci differenti e può produrre conseguenze significative in capo agli operatori del settore. A questo riguardo, la tutela degli ecosistemi impone agli Stati di adottare misure restrittive rigorose che possono pregiudicare gli interessi di imprese o società private che intendono investire (o che hanno già investito) su fonti energetiche nocive per l’ambiente.  Al contempo, proprio le misure pubbliche che limitano le imprese energetiche per finalità ecologiche possono essere messe in discussione e contestate da chi investe in tali ambiti, a fortiori se si tratta di società multinazionali, che possono invocare la Carta dell’energia (Energy Charter Treaty – ECT[i]). Questa offre una tutela particolarmente vantaggiosa agli investitori, che, in caso di provvedimenti ablativi che sopravvengono a precedenti decisioni amministrative – che invece ne ampliavano le libertà d’azione –, possono rivendicare la lesione del principio del legittimo affidamento e chiedere un indennizzo a fronte di misure identificabili, per analogia, come espropriazioni pubbliche.

Di più, gli strumenti giudiziali a tutela degli investitori nel settore dell’energia – che in ambito sovranazionale sono degli arbitri, non sussistendo un tribunale apposito – sono concepiti come rimedi a favore delle imprese, ma non degli Stati, che in caso di violazioni utilizzano i canali giurisdizionali tradizionali[ii]. In questo modo, l’orientamento investor-oriented degli arbitri ha favorito il moltiplicarsi di trattati commerciali bilaterali, nonché l’utilizzo del sistema arbitrale Investor-State dispute settlement (ISDS)[iii]. Questo trend, comprovato da un numero rilevante di decisioni[iv], rischia di rallentare il processo di transizione ecologica in atto, che, avendo posto al centro dell’azione pubblica la tutela dell’ambiente e la neutralità climatica, può subire un freno ogni volta che la disciplina internazionale dell’energia sia in grado di rimuovere i limiti pubblici alla libertà di azione delle imprese che operano nella direzione opposta a quella della conversione ecologica. Quest’ultima richiede modelli produttivi non inquinanti, a zero emissioni e fondati sulle energie rinnovabili e si traduce in una serie di politiche ambientali e di crescita sostenibili piuttosto radicali, che possono entrare in conflitto con un sistema giuridico che, al contrario, rafforza le capacità di resistenza al cambiamento appannaggio delle imprese.

Il contributo prende spunto dal caso Rockhopper Italia S.p.a. v. Italian Republic[v], deciso nell’ambito di un arbitrato internazionale all’interno della disciplina stabilita dall’International centre for settlement of investment disputes – ICSID[vi] (ai sensi dell’art. 36, comma 3), che ha condannato l’Italia a un risarcimento di entità considerevole a favore di un’impresa britannica, costretta, per ragioni di tutela ambientale, a interrompere una serie di attività prodromiche all’estrazione di idrocarburi nel mar Adriatico.

A questo riguardo, la decisione – che non è isolata nel panorama della tutela giurisdizionale dei diritti delle imprese riconosciuti dalla Carta dell’energia[vii] – segna una possibile contraddizione rispetto a un approccio più recente in tema di politiche pubbliche a tutela dell’ambiente: il Green Deal[viii]. Con quest’ultimo, infatti, si afferma – per meglio dire si rafforza – un modello in cui i poteri pubblici, tramite misure e strumenti diversi, condizionano, indirizzano e funzionalizzano le attività economiche private all’obiettivo della tutela ambientale e, più in generale, della neutralità climatica entro il 2050[ix]. La necessità di raggiungere un risultato così ambizioso, come definito dalla Commissione europea, impone alle istituzioni dell’Unione e a quelle statali di invertire la rotta, incrementando le attività coerenti con tale finalità, anche comprimendo o condizionando le libertà private. Nel caso in commento, viceversa, tramite la giustiziabilità di alcuni diritti a tutela di interessi privati si va in direzione contraria, con un condizionamento delle scelte pubbliche, funzionalizzate ad esigenze private che confliggono con il percorso di transizione climatica individuato dall’Ue.

In sede di conclusioni, quindi, si nota che lo stesso sistema di regolazione dell’ambiente e dell’energia soffre di una disciplina incoerente, irragionevole e contraddittoria, nella quale la globalizzazione di alcune regole che compongono la governance dell’energia altera il bilanciamento tra gli interessi, condizionandolo e rischiando di rendere inefficaci le politiche pubbliche per attuare la transizione ecologica.

2. Il Caso Rockhopper-Italia 

Lo Stato italiano è stato recentemente condannato a pagare circa 190 milioni di euro (ai quali si aggiungono gli interessi del 4% a partire dal 2016) alla società britannica Rockhopper per compensare il mancato sfruttamento di un giacimento di idrocarburi situato davanti alle coste abruzzesi. Il governo in carica nel 2015, infatti, aveva deliberato di bloccare il progetto della società, già avviato da alcuni anni, sebbene ancora in una fase preparatoria, consistente nella costruzione di una piattaforma per l’estrazione di gas e altri fonti energetiche all’interno delle dodici miglia marine di fronte alla costa adriatica[x]. La motivazione si basava sulla necessità di tutelare l’ambiente e gli ecosistemi e sorgeva in una seconda fase di un iter procedimentale complesso[xi], a seguito della contrarietà dei cittadini manifestata con proteste e minacce legali (rese concrete dalla proposizione di un referendum abrogativo).

Di qui, giacché le operazioni di ricerca, gli studi di fattibilità e gli investimenti preliminari erano stati vanificati dal divieto disposto dalla legge di stabilità per il 2016 e vista la perdita economica subita dalla Rockhopper, il mancato guadagno e la presunta violazione del principio del legittimo affidamento da parte dello Stato italiano, la stessa società britannica richiedeva una soluzione giudiziale alla controversia. Il processo, avviato in quegli anni e conclusosi nell’agosto del 2022, non si è svolto davanti a un giudice ordinario ma nell’ambito di un Investor-State dispute settlement, ossia un arbitrato internazionale all’interno della disciplina stabilita dall’ICSID (art. 36, comma 3)[xii]. Quest’ultimo veniva chiamato a decidere su una controversia tra “investitori privati” e Stati e ad applicare la Carta dell’energia.

Nel merito, due sono le questioni contestate allo Stato italiano: la violazione del legittimo affidamento, perché il divieto contenuto nella legge di bilancio per il 2016 era in contraddizione con gli assensi previsti e già rilasciati nel corso dell’iter procedimentale per la concessione del permesso di sfruttare l’area prescelta, e la violazione dell’obbligo di indennizzo in seguito a una decisione che, stando alla linea interpretativa dell’arbitro ICSID, configurava un’espropriazione di un investimento privato. Queste disposizioni, qui descritte in astratto, sono riconducibili, rispettivamente, agli artt. 10 e 13 della Carta dell’energia.

Come si vede, le imprese che investono nel settore energetico possono ricorrere a un sistema di tutela che adopera strumenti e garanzie propri del diritto amministrativo nei confronti di decisori pubblici che, in nome della tutela di interessi generali (in questo caso ambientali), scelgono di modificare le norme e gli approcci nei confronti di determinati sistemi di investimento. Le disposizioni dell’ECT offrono la sponda per declinare – in senso ampliativo, a vantaggio degli investitori – i principii del legittimo affidamento e dell’equo indennizzo a fronte di provvedimenti con effetti ablativi. Nondimeno, decisioni di questo genere non si limitano a fornire una legittima tutela in capo ai privati a fronte di decisioni che ledono i loro diritti o pregiudicano i loro interessi, ma producono effetti anche sul piano della tutela degli interessi pubblici e dell’utilizzo della discrezionalità politico-amministrativa.

3. La Carta dell’energia e il Green Deal

Come anticipato e come esemplificato dal caso in commento, la Carta dell’Energia costituisce un baluardo giuridico molto efficace per le imprese, quando queste si vogliono mettere al riparo da decisioni politiche nazionali che comprimono le libertà negli investimenti. In vigore dal 1998 e siglato da 48 Paesi più l’Unione europea e la Comunità europea dell’energia atomica, l’ECT nasce con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza energetica dell’Europa proteggendo gli investimenti occidentali nell’ex Unione Sovietica. Oggi il trattato copre per lo più investimenti intraeuropei (circa l’80%), garantendo una tutela per le imprese contro abusi e arbitrii da parte dei poteri pubblici, ma operando anche come scudo legale all’industria dei combustibili fossili, che può contrastare efficacemente disposizioni e misure di una transizione basata su energie rinnovabili ed efficienza energetica.

A fronte di ciò, vista la capacità delle imprese di ostacolare le politiche nazionali a tutela dell’ambiente tramite ricorsi giurisdizionali contro gli Stati firmatari della Carta, risulta messo in discussione lo stesso processo di transizione ecologica concepito con il Green Deal europeo (GDE). Questo si basa sulla combinazione tra intervento pubblico e iniziative private al fine di rivedere le priorità nelle scelte sulla produzione di beni e sulla fornitura di servizi secondo una visione dell’economia e della società orientata al perseguimento della neutralità climatica. Per raggiungere tale obiettivo, il GDE prevede l’impiego di vari strumenti e politiche, tra cui quella di una nuova tutela ambientale, che segue l’idea per cui quest’ultima può essere uno strumento, una leva per creare ricchezza e aumentare il benessere generale. Sono previsti investimenti, interventi infrastrutturali e azioni di promozione e incentivo che non vanno a pregiudicare o diminuire gli interessi delle imprese o le loro libertà di azione. Nondimeno, il progetto del Green Deal comporta anche una funzionalizzazione e un condizionamento delle attività economiche e finanziarie dei soggetti privati, non escludendo l’impiego di misure autoritative, di divieto e di command and control.

Nel progetto del Green Deal, per raggiungere gli obiettivi della neutralità climatica e della transizione ecologica, si afferma una politica economica che mira a funzionalizzare le azioni di imprese e individui, secondo l’idea che gli operatori economici, da soli, non siano in grado di effettuare le scelte necessarie a intraprendere il cambiamento. Ciò dipende da vari fattori: una visione troppo di breve periodo (cosiddetto shorterminism); la scarsa predisposizione ad assumere rischi; l’assenza di un’infrastruttura green, che deve essere predisposta dagli Stati; la sfiducia nelle performance delle nuove tecnologie non inquinanti; una cultura ecologica poco avanzata.

Per realizzare il progetto del GD si richiede un mutamento radicale delle modalità di produrre, trasportare e consumare beni e servizi e questo, come detto, rende necessario l’utilizzo di strumenti giuridici in grado di realizzare in concreto la transizione a tale modello socioeconomico. Sono, quindi, le politiche e le misure pubbliche che possono portare a compimento il Green Deal, convertendo numerose attività economiche e sociali alla sostenibilità ambientale, coniugando l’esigenza di ridurre l’inquinamento con quella di favorire lo sviluppo, limitando l’intrapresa economica e al contempo incentivandola secondo finalità e percorsi innovativi. Come anticipato, la transizione ecologica e climatica importata dal Green Deal non fa affidamento solo su incentivi, investimenti pubblici e politiche di conversione e promozione, ma comprende – o quanto meno non contrasta, giustapponendosi ad essi – anche limiti, divieti e misure ablative, funzionali a convertire le scelte economiche verso un modello verde e a impatto climatico neutro. Di più, proprio tali misure di comando devono essere combinate a quelle di promozione e incentivo e aggiungersi a interventi di cambiamento radicale che riguardano le infrastrutture e gli investimenti pubblici.

Il percorso appena tratteggiato si fonda quindi sulla presenza e sul ruolo attivo degli Stati e in generale delle istituzioni di governo, chiamate a conformare iniziative, scelte e attività concrete degli operatori economici, per finalizzarle agli obiettivi della transizione ecologica. A fronte di tali poteri di intervento, risulta palese come le possibilità di resistenza ammesse dal sistema ECT costituiscano una controspinta che va a confliggere con questo approccio. Non necessariamente nei contenuti – benché effettivamente alcune imprese usino gli strumenti giuridici internazionali per contrastare le politiche ecologiche degli Stati – ma nell’approccio e nel metodo. Le politiche del Green Deal, infatti, individuano gli obiettivi e il percorso da intraprendere, affidando poi agli Stati nazionali e ad enti subnazionali – in ogni caso a poteri pubblici – le scelte strategiche per la realizzazione di tale progetto. Queste, mirando a ridurre le emissioni di CO2, intervengono nelle scelte economiche degli operatori economici e lo fanno con misure diverse, sia di promozione, sia di conformazione, comando e limitazione (ad esempio, investimenti e incentivi a favore delle rinnovabili e, contemporaneamente, smantellamento di centrali a combustibili fossili).

Nel caso esaminato, come in altri analoghi, invece, attraverso strumenti procedurali e di garanzia – come il principio del legittimo affidamento e il diritto all’indennizzo in caso di espropriazione – il diritto globale comprime le attività di programmazione, regolazione e limitazione deliberate dagli Stati nazionali, costringendoli a ritirarle o modificarle. O a pagare un costo elevato per la loro attuazione. Indipendentemente dal contenuto o dall’efficacia dell’una o dell’altra politica, i due approcci seguono impostazioni differenti: una ammette la compressione e la funzionalizzazione di scelte che in condizioni diverse sarebbero lasciate ai privati; un’altra riduce la possibilità di intervento in capo ai poteri pubblici, anche in circostanze che richiederebbero invece un’azione delle autorità amministrative.

La conferma dell’incompatibilità dei due sistemi di regolazione, tra l’altro, la si ha anche dalla proposta di modifica dell’ECT da parte dell’Ue[xiii] e dalla pronuncia della Corte di Giustizia che sancisce l’inapplicabilità della stessa Carta in contenziosi interni all’Unione[xiv]: entrambe mirano a sottrarre l’Ue e i suoi stati membri ai vincoli dell’ECT perché essi sono in conflitto con gli obiettivi e con il modello di governance proprio del Green Deal europeo.

Tuttavia, il caso specifico del Green Deal mostra anche un possibile percorso alternativo, in grado di sottrarsi, almeno in parte, all’approccio previsto in ambito globale con la Carta dell’energia e maggiormente incentrato sull’articolazione su più livelli del sistema di governance attuato. Il meccanismo di tutela sfruttato dagli investitori nell’ambito dell’ECT, infatti, si fonda sul fatto che le politiche ambientaliste degli Stati hanno un impatto direttamente lesivo nei confronti di interessi e diritti delle imprese che operano in quei territori. Viceversa, come notato, molte delle misure inglobate dalla programmazione del Green Deal europeo sono di promozione e orientamento di nuovi investimenti – quando non costituiscono direttamente degli investimenti pubblici – a favore di energie alternative o di iniziative economiche innovative funzionali a realizzare la transizione ecologica. Nel caso delle energie, ad esempio, una forma di innovazione efficace consiste nella modifica dei destinatari dei sussidi statali: agli investimenti in fonti rinnovabili invece che a quelli basati su combustibili fossili. Questo tipo di operazioni offre un favor sul piano concorrenziale a chi opera nelle energie verdi, senza comprimere i diritti delle imprese operanti in settori maggiormente inquinanti. Si tratta, pertanto, di misure che condizionano le scelte private, ma prive di natura ablatoria. In questo modo – al di là dei costi e dell’efficacia di questi approcci con riferimento agli obiettivi di tutela ambientale – questo tipo di politiche, centrali nel GD, non vanno a restringere le libertà degli operatori, ponendosi al riparo da meccanismi giudiziali come quelli decisi dall’ICSID che ne condizionerebbero i contenuti.

Quanto appena osservato, nondimeno, non è sufficiente, giacché la buona riuscita di un programma innovativo e radicale come il Green Deal passa, come specificato, anche attraverso limitazioni e divieti, nonché dismissioni di industrie o strutture di approvvigionamento energetico altamente inquinanti. Può quindi generarsi un conflitto che non si snoda solo sul piano di controversie tese a decretare la legittimità di determinate politiche, condizionandole nel contenuto, ma anche in una dialettica che vede contrapposti due approcci di public governance fortemente antitetici.

4. Conclusioni

Le considerazioni che hanno fatto riferimento al Green Deal mostrano, rispetto a questo, la presenza di una controspinta nelle politiche energetiche che si affermano all’interno del mercato degli investimenti globali, segnando quindi un conflitto tra due opzioni regolatorie antitetiche, che, per prevalere, dovrebbero possedere un significativo consenso democratico, in grado di rappresentare la scelta in un senso o nell’altro.

Nel conflitto tra interessi privati (e tra le garanzie preposte alla loro tutela) e politiche pubbliche, l’indirizzo politico-amministrativo, ossia il cosiddetto right to regulate degli Stati viene condizionato e limitato, grazie all’applicazione di un trattato internazionale di settore. Tali decisioni spetterebbero ad autorità nazionali legalmente e democraticamente legittimate e tenute a prendere determinate decisioni a tutela di interessi pubblici di rilevanza primaria, che vanno a toccare anche interessi ultronei ed eterogenei rispetto a quello oggetto delle norme extranazionali specifiche, applicabili al caso in discussione. Di contro, come visto, grazie a trattati internazionali comunque sottoscritti da quegli stessi Stati che ora ne subiscono l’applicazione, i soggetti controinteressati riescono a sfruttare un diritto a loro più favorevole e a condizionare e limitare lo spazio decisionale riservato alle autorità nazionali.

Questo squilibrio può produrre una contraddittorietà nei confronti delle nuove politiche ambientali contenute nel progetto di transizione ecologica proprio del Green Deal europeo che è anche una transizione economica volta a modificare il modo di produrre, per creare crescita sostenibile. Tale modello poggia su un intervento intrusivo e pervasivo dei poteri pubblici che, funzionalizzando e condizionando le attività degli operatori privati, ne limita in modo rilevante la libertà di scelta. Nel caso esaminato avviene invece l’opposto, per cui poteri privati riescono a condizionare i poteri pubblici, funzionalizzando le decisioni di questi ultimi alla convenienza dei primi. Vi è quindi, una resistenza del sistema, che rallenta il progetto di transizione in parola.

L’ambiziosa strategia del Green Deal europeo, che ha come fine ultimo la neutralità climatica, subisce un’opposizione, di carattere esterno, legata al diritto globale, che rischia di frenarne il percorso. A tal riguardo, le istituzioni dell’Unione devono tener conto di queste difficoltà e approntare delle contromisure. Tra queste, un ruolo decisivo può essere giocato dal fatto che, come già rilevato in altre occasioni[xv], il GD non è una politica pubblica uniforme, armonizzata a livello globale o regionale, incentrata solo su strumenti regolatori, ma si fonda soprattutto sulla capacità di raggiungere gli obiettivi ecologici e di neutralità climatica attraverso una crescita economica invariata o incrementata, usando quindi strumenti di condizionamento e conformazione di natura non ablativa. Benché si tratti di un disegno ambizioso e radicale, esso porta Stati e organizzazioni regionali a confrontarsi, entrando in competizione o scambiandosi buone pratiche, per cercare di trovare modelli ecologicamente compatibili che non comprimano le aspettative economiche degli operatori privati. Quando opera con questi strumenti, il GD non produce misure restrittive dirette nei confronti di imprese o individui e si pone quindi al riparo dalla Carta dell’energia e dalle decisioni di arbitri internazionali. Nondimeno, trattandosi solo di una linea di azione del progetto del Green Deal, che può coesistere anche con misure di limitazione nei confronti di imprese che producono quantità elevate di emissioni inquinanti, vi è il rischio che proprio quest’ultime entrino in conflitto con gli interessi degli investitori, i quali dispongono di strumenti giuridici, propri del diritto globale, in grado di contrastare le decisioni pubbliche nazionali e quindi rallentare lo stesso processo di transizione ecologica e climatica.

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GD e oppositori Rockhopper – RGA

NOTE:

[i] Il Trattato sulla Carta dell’Energia ha il fine di promuovere la sicurezza energetica attraverso mercati più aperti e competitivi, nel rispetto dei principi dello sviluppo sostenibile e della sovranità sulle risorse energetiche, sulla base dei principi della Carta. Le clausole più importanti del trattato, oltre allo scambio di materiali e prodotti energetici, riguardano la tutela degli investimenti (art. 10 e ss.), in merito ai quali, ad esempio, è sempre previsto un equo indennizzo in caso di espropriazione, https://www.energycharter.org/fileadmin/DocumentsMedia/Legal/ECT-it.pdf.

[ii]Under traditional IIAs, sovereigns have obligations but investors do not. Furthermore, a sovereign cannot “win” in ISDS.168 Only investors can bring claims in ISDS. Sovereigns can only lose a lot, lose a little, or—at best—break even.169 Although governments can, and increasingly do, prosecute corporations for misconduct through litigation and settlement agreements, that practice exists outside of ISDS and IIAs”, T.R. Samples, Winning and Losing in Investor– State Dispute Settlement, in American Business Law Journal Volume 56, Issue 1, 2019, p. 139.

[iii]As one of the most active areas of international law in the last fifty years, international investment treaties and investor–state disputes have boomed in recent decades—particularly since the beginning of the 1990s. As of 1990, approximately five hundred investment treaties had been signed.33 As of 2017, more than 3300 treaties were signed.34 Investor–state disputes have followed a similar trajectory. ISDS was virtually nonexistent prior to 1990.35 However, as of the beginning of 2018, there are over nine hundred cases. Annual case volumes have also trended upward. The ten-year average of cases per year from 2006 to 2015 was forty-nine.36 But more recently, volumes climbed to eighty in 2015, seventy-five in 2016, and sixty-five in 2017”, Ibidem, p. 120.

[iv] A far data dal dicembre 2020, si stima che il numero totale dei ricorsi da parte di soggetti investitori, di fronte a un arbitro ISDS sia di circa 1200 (si veda United Nations, UNCTAD, Investor–State Dispute Settlement Cases: Facts and Figures 2020, 4 IIA Issues Note International Investment Agreement (2021), https://unctad.org/system/files/official-document/diaepcbinf2021d7_en.pdf e il sito dedicato alle dispute: https://investmentpolicy.unctad.org/investment-dispute-settlement). Sulle decisioni degli arbitrati che dirimono controversie tra Stati e imprese private la letteratura è in crescita. Su questo aspetto si veda quanto riportato da Gus Van Harten, Leaders in the Expansive and Restrictive Interpretation of Investment Treaties: A Descriptive Study of ISDS Awards to 2010, 29(2) Eur. J. INT. L. 507–549 (2018)

[v] Rockhopper Italia S.p.a., Rockhopper Mediterranean Ltd, and Rockhopper exploration Plc vs. Italian Republic, ICSID Case No. ARB/17/14.

[vi] Convention on the Settlement of Investment Disputes between States and Nationals of Other States, 18 Mar 1965. “Con il termine arbitrato ICSID si è soliti riferirsi all’arbitrato internazionale, a-nazionale, indipendente ed amministrato dal Centro ICSID in materia di investimenti esteri”, G.M. Nori, Il concetto di investimento estero ai tempi della nuova via della seta. brevi riflessioni sullo stato della giurisprudenza dei tribunali arbitrali ICSID, in Giurisprudenza arbitrale, 2/2020, p. 279 e letteratura ivi citata.

[vii] Gli Stati hanno subito 114 cause nell’ambito della Carta dell’Energia. In 16 casi, gli investitori hanno chiesto più di un miliardo di dollari in compensazioni ai governi. Nel 61% dei casi passati in giudicato, l’esito è stato favorevole all’investitore. Lo riporta https://www.rinnovabili.it/energia/trattato-carta-dell-energia-industria-fossile/.

[viii] Il GDE è stato adottato con una Comunicazione della Commissione europea: Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Il Green Deal europeo, Bruxelles, 11.12.2019 COM(2019) 640 final. Si tratta di un documento di 116 punti che impegna i Paesi dell’Unione a mettere in moto «interventi ambiziosi per far fronte al cambiamento climatico e alle sfide ambientali, allo scopo di limitare il riscaldamento globale a 1,5º C ed evitare una perdita massiccia di biodiversità». I vari obiettivi sono poi elencati in una tabella allegata alla Comunicazione, con delle scadenze temporali per la loro attuazione https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/european-green-deal-communication-annex-roadmap_en.pdf, p. 2.

[ix] Sul tema si rinvia a E. Chiti, Managing the Ecological Transition of the EU: The European Green Deal as a Regulatory Process, in Common Market Law Review, n. 1/2022. Si richiama altresì M.C. Carta, Il Green Deal europeo. Considerazioni critiche sulla tutela dell’ambiente e le iniziative di diritto UE, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 4 – 2020, 54-72 https://rivista.eurojus.it/wp-content/uploads/pdf/Il-Green-Deal-europeo.pdf; M. Falcone, Il Green Deal europeo per un continente a impatto climatico zero: la nuova strategia europea per la crescita tra sfide, responsabilità e opportunità, in Studi sull’integrazione europea, 2/2020, 379-394; il numero monografico della Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, n. 1/2021 e E. Bruti Liberati, Politiche di decarbonizzazione, costituzione economica europea e assetti di governance, in Dir. pubbl., n. 2, 2021.

[x] Si trattava di un emendamento a quanto disposto dall’art. 38 del cosiddetto decreto “Sblocca Italia”, modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), art. 1, comma 239, che ha disposto il divieto di trivellazione entro le 12 miglia dalla costa, stabilendo che “all’articolo 6, comma 17, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il secondo e il terzo periodo sono sostituiti dai seguenti: «Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette. I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale. Sono sempre assicurate le attività di manutenzione finalizzate all’adeguamento tecnologico necessario alla sicurezza degli impianti e alla tutela dell’ambiente, nonché le operazioni finali di ripristino ambientale»”.

[xi] Già dal 2008, infatti, era stata accordata l’autorizzazione a esplorare la zona per svolgere le necessarie ricerche per l’estrazione. Mentre non era stata rilasciata la concessione a sfruttare i giacimenti offshore per l’estrazione di gas e altre fonti di energia (Rockhopper Italia S.p.a., § 97 e ss.).

[xii] A far data dal dicembre 2020, si stima che il numero totale dei ricorsi da parte di soggetti investitori, di fronte a un arbitro ISDS sia di circa 1100 (si veda United Nations, UNCTAD, Investor–State Dispute Settlement Cases: Facts and Figures 2020, 4 IIA Issues Note International Investment Agreement (2021), https://unctad.org/system/files/official-document/diaepcbinf2021d7_en.pdf). Tale sistema di aggiudicazione delle controversie è stato criticato per via delle interpretazioni estensive delle clausole protettive degli investitori, per interpretazioni inconsistenti e incoerenti e per la mancanza di un sistema di appello (come confermato dall’art. 53, comma 1 della Convention on the Settlement of Investment Disputes between States and Nationals of Other States).

[xiii] https://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2020/may/tradoc_158754.pdf. A conferma di questa esigenza di cambiamento, all’interno dell’Unione europea la maggior parte dei membri ha siglato un accordo per porre fine ai cosiddetti BITs, ossia Bilateral Investments Treaties e al sistema di risoluzione ISDS; Agreement for the Termination of Bilateral Investment Treaties Between the Member States of the European Union, art. 2, 2020 O.J. (L 169) 4. La stessa Ue spinge per l’approvazione di una Corte multilaterale e permanente per gli investimenti, anche se la proposta di riforma, anch’essa risalente al 2017: Raccomandazione di Decisione del Consiglio che autorizza l’avvio di negoziati per una convenzione che istituisce un tribunale multilaterale per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti, COM(2017) 493 final, adottata a Bruxelles il 13 settembre 2017. Sul punto si rinvia a P. Ranjan, Emerging Trends in Investor-State Dispute Settlement, cit., 337: “the EU’s efforts to move towards a court-like system with permanent tribunal members and an appellate mechanism is the most noteworthy trend. The jury is still out on whether an ICS kind of mechanism will be able to address the weaknesses of the ISDS mechanism and whether countries like China will support such a regime”.. Si veda anche la ricostruzione delle critiche e della posizione dell’Ue sull’ISDS predisposta da P. Collet, The current european union investor state dispute settlement reform: a desirable outcome for investment arbitration?, in International law and politics (Vol. 53), 2021, 691 ss. Infine, sottolinea un riguadagnato consenso a favore delle prerogative statali e contro le decisioni del sistema ISDS anche T.R. Samples, Winning and Losing in Investor– State Dispute Settlement, cit., 145 ss.

[xiv] Corte di Giustizia europea (Grande Sezione), République de Moldavie v Komstroy LLC. Request for a preliminary ruling from the Cour d’appel de Paris, 2 September 2021, Case C‑741/19.

[xv] https://rgaonline.it/article/il-green-new-deal-e-globale-ma-lo-fanno-gli-stati/.

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