Il gatto nero mangerà il topo?

30 Set 2022 | editoriale, articoli

di Stefano Nespor

Il cambiamento climatico è provocato dall’immissione dei c.d. “gas serra” nell’atmosfera da parte dell’uomo. Il principale di questi gas è l’anidride carbonica, causata dall’estrazione e dal consumo di combustibili fossili.

Il contenimento del cambiamento climatico comporta quindi la riduzione della presenza di questi gas e in particolare della CO2 nell’atmosfera.

La riduzione può essere ottenuta in due modi. Agendo sulle cause, quindi eliminando il più possibile le emissioni: questo risultato si ottiene sostituendo i combustibili fossili con energie rinnovabili.

Ma la riduzione della presenza di CO2 nell’atmosfera può anche essere ottenuta “catturando” l’anidride carbonica prodotta. Questo secondo sistema, con il quale non si riducono le emissioni, ma se ne riduce la presenza nell’atmosfera, è chiamato Carbon capture and storage (CCS). È il sistema ovviamente preferito dai produttori di combustibili fossili, perché consente di mantenerne l’utilizzazione e, nello stesso tempo, di ridurne le conseguenze climatiche.

Studi e sperimentazioni per sviluppare tecniche di CCS, soprattutto da parte di grandi impianti industriali i cui processi produttivi comportano elevate quantità di emissioni, si sono intensificati negli ultimi anni, via via che ci si è resi conto che ben difficilmente si sarebbe ottenuto un significativo contenimento del cambiamento climatico, così come richiesto dagli scienziati e dall’Accordo di Parigi. Già nel 2009 l’Unione europea ha approvato la direttiva 2009/31/EC (Direttiva CCS) fissando i principi tecnici e giuridici per dare attuazione a processi di CCS. Tra i Paesi con strutture di CCS in fase di sviluppo e sperimentazione ci sono Belgio, Danimarca, Ungheria, Indonesia, Malesia e Svezia.

In Italia esistono già progetti che prevedono l’utilizzo di questa tecnologia. L’unico in fase avanzata di realizzazione è quello promosso da Eni in provincia di Ravenna.

Tuttavia, le tecniche di CCS non sono una novità. Denominato Enhanced Oil Recovery (EOR) è stato utilizzato sin dagli anni Settanta dai produttori di petrolio e gas naturale, senza alcuna finalità di riduzione dell’impatto climatico: l’anidride carbonica prodotta durante il processo di estrazione era allora riutilizzata e iniettata nei giacimenti in via di esaurimento per sospingere il combustibile residuo in superficie.

Ma non tutti sono d’accordo: il CCS è considerato dagli ambientalisti una inammissibile scorciatoia in quanto aggira l’obiettivo fondamentale di eliminare le cause del cambiamento climatico.

Poiché però l’obiettivo sempre più prioritario è quello di contenere il surriscaldamento del pianeta, la controversia si può risolvere applicando il noto aforisma del presidente cinese Deng Xiao Ping: non importa se il gatto sia bianco o nero, purché mangi i topi.

La questione è però se il gatto nero – il CCS – sia davvero in grado di mangiare i topi o serva solo a mantenere l’uso di combustibili fossili, per di più finanziando i produttori.

Quest’ultima conclusione è sostenuta da un recente rapporto dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis – IEEFA (https://ieefa.org), un centro di ricerca che studia tutti gli aspetti della transizione energetica.

Osserva il rapporto che dei 13 progetti di CCS oggetto dello studio, che dovrebbero rappresentare a regime il 55% della capacità mondiale di cattura di anidride carbonica, sette hanno una capacità produttiva assai inferiore a quella prevista, due sono stati abbandonati e uno è sospeso a tempo indeterminato. Solo tre stanno funzionando.

Ma ciò che maggiormente rileva, secondo il rapporto, è che l’80% dei progetti di CCS non sono altro che adattamenti dei vecchi EOR: servono cioè per produrre più petrolio e, soprattutto, più gas e quindi più emissioni di gas serra. Inoltre, solo il 20% stiva l’anidride carbonica in depositi che ne precludono l’immissione nell’atmosfera.

C’è poi un altro aspetto da considerare. Molti produttori affermano di produrre gas “carbon neutral” perché rimuovono l’anidride carbonica durante il processo di estrazione del gas. In realtà, si tratta di un passaggio necessario per la produzione di gas. Ma il 90% delle emissioni provocate dal gas (e dal petrolio) non si verificano quando i combustibili sono prodotti, ma quando sono utilizzati. Queste emissioni restano, come sempre, la fonte delle principali emissioni di gas serra.

In sostanza, conclude il Rapporto, il CCS è ampiamento utilizzato per realizzare nuovi progetti di estrazione di combustibili fossili, etichettandone i prodotti come carbon free: una buona trovata pubblicitaria.

Il Guardian ha riferito ampiamente in un recente articolo  le conclusioni del rapporto (Carbon capture is not a solution to net zero emissions plans, report says | Carbon capture and storage (CCS) | The Guardian).

Nel medesimo articolo è stato intervistato anche un esponente del Governo britannico che ha duramente contestato le conclusioni del rapporto, indicando il CCS come uno strumento decisivo per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni e affermando che la Gran Bretagna intende predisporre depositi per stivare 78 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

Pochi giorni fa, inoltre, è stato annunciato l’avvio della sperimentazione del Progetto Bison, gestito dalla società statunitense CarbonCapture Inc: il più grande impianto finora di cattura di anidride carbonica dall’atmosfera. L’impianto è collocato nel Wyoming (non a caso il più grande produttore di carbone degli Stati Uniti: qui si estrae il 40% del carbone nazionale e dai combustibili fossili dipende quasi il 60% delle entrate statali e locali) e dovrebbe entrare in funzione alla fine del 2023. Inizialmente riuscirà a estrarre dall’atmosfera circa 10.000 tonnellate di CO2 all’anno. Ma entro il 2030 il Progetto Bison sarà in grado di raggiungere una capacità di cattura e stoccaggio pari a 5 milioni di tonnellate di CO2 annui, immagazzinandole nel sottosuolo: una quantità pari alle emissioni annuali di un milione di veicoli (si veda in proposito CarbonCapture Inc. | Direct air capture for a net zero future).

In precedenza il primato per capacità di stoccaggio era dell’impianto in funzione in Islanda, denominato “Orca”.

Resta quindi irrisolto l’interrogativo se il gatto nero mangerà il topo, anche se, come osserva Claudia Tebaldi, coautrice del quinto e del sesto rapporto sul clima dell’IPCC, nell’intervista pubblicata in questo stesso numero «Realisticamente, credo sarà più facile risolvere il problema del riscaldamento globale con la tecnologia che non cambiando il nostro stile di vita radicalmente, come la politica promette di voler fare». È quindi prevedibile che nei prossimi decenni le tecnologie di cattura della CO2 avranno significativi sviluppi, tenuto conto dei consistenti finanziamenti che stanno ricevendo la ricerca e la sperimentazione in questo settore.

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