Ancora sul decreto forestale n. 34 del 2018

14 Dic 2020 | articoli, contributi

di Alberto Abrami

Con questo scritto torniamo a trattare della legge 3 aprile 2018 n. 34, recante “Testo unico in materia di foreste e di filiere forestali”, sulla quale abbiamo già avuto occasione di intrattenerci su questa Rivista, soffermandoci ora per un’analisi maggiormente puntuale.

Fin da subito, possiamo affermare che la nuova legge forestale è stata strutturata all’insegna di criteri che la dottrina selvicolturale più avanzata, ossia orientata in senso naturalistico, ha da tempo abbandonati, avendo posto al centro della sua attenzione, insieme all’interesse per l’estrazione del legname, la compatibilità di tale aspetto produttivistico con la complessità fenomenica del bosco.

Il decreto forestale n. 34 del 2018 ha come fine primario quello della produzione del legname, sicché, più che una legge per il bosco, o sul bosco, si tratta di normativa che disciplina l’estrazione del bene legno, e dove elemento dominante è la preoccupazione che il bosco rimanga, per questo fine, inutilizzato, tant’è che si arriva ad imporre il taglio degli alberi – come vedremo più avanti – allo stesso proprietario che preferisca astenersi per seguire l’evoluzione naturale della vegetazione arborea.

L’enunciazione, infatti, di principi di natura ecologica – a parte il richiamo alla stabilità idrogeologica già presente nel decreto n. 3267 del 1923 – rimane fine a sé stessa, non trovando un effettivo riscontro nelle singole disposizioni della legge come, ad esempio, il riferimento al sequestro del carbonio (art. 2, comma 1, lett. d) che, in realtà, viene liberato con l’utilizzazione massiva del bosco che il legislatore persegue.

Una tale concezione della selvicoltura in chiave economicistica ci riporta però agli inizi degli anni venti del secolo scorso, allorché venne emanato il decreto n. 3267 che concepì il bosco unicamente come strumento di difesa idrogeologica attraverso l’imposizione di un vincolo di utilizzazione, ove fosse stato ritenuto necessario per la stabilità del terreno, sicché una volta assolta questa funzione, il bosco non aveva altra tutela. E però tale normativa era stata finalmente aggiornata agli inizi degli anni 2000, col decreto n. 227 del 2001, abrogato e sostituito dalla nuova legge in commento la quale, con un atteggiamento poco lungimirante, ci riporta indietro negli anni quando la questione ambientale era inesistente. E comunque, a prescindere dall’interesse ambientale che si rinviene nella superficie boscata, e cioè considerando solo l’interesse economico, l’idea portata avanti dalla legge della massimizzazione della produzione legnosa, fa sì che si rinunzi, insieme all’invecchiamento del bosco, ad una maggiore provvigione legnosa di interesse dello stesso privato e, con essa, al potenziamento delle funzioni generali del bosco.

Oggi il bosco viene considerato come un bene di primaria importanza sociale, senza per questo escludere la sua utilizzazione ai fini della produzione del legname, altrimenti non ci potrebbe essere la selvicoltura e ne risentirebbe tutto il sistema legno, la cui rilevanza economica è inutile qui evidenziare. Ma il punto è che, attualmente, si va sempre più affermando fra gli studiosi l’idea di una selvicoltura naturalistica che la rende compatibile, nel suo esercizio, con la complessità delle funzioni di interesse generale tipiche del bosco e provvede, nello stesso tempo, ad una zonizzazione delle superfici boscate perché non ricevano tutte lo stesso trattamento. Cosa di cui non tiene conto il decreto n. 34 del 2018. Non va, peraltro, dimenticato che la funzione di produzione di legname risulta ben minore, se la consideriamo in termini percentuali, rispetto ai servizi di interesse collettivo offerti dal bosco in quanto sistema ecologico.

Già a metà degli anni ottanta, con l’individuazione dei territori boscati nella loro generalità, in quanto beni paesaggistico-ambientali, era emersa la considerazione delle superfici forestali, non già per la rilevanza produttivistica e neppure estetica – non tutti i boschi possono dirsi di una peculiare bellezza – ma perché rappresentavano un sistema ecologico da proteggere per l’interesse pubblico intrinseco alla loro natura

Negli ultimi decenni la concezione di una selvicoltura di stampo naturalistico, o ecosistemica, che considera cioè il bosco, come sopra accennato, nella sua complessità o molteplicità delle sue funzioni, e non solo come produttore di legname, era stata portata avanti dalla più avvertita letteratura selvicolturale, tant’è che significativi segni di questo nuovo modo di esercitare la selvicoltura si rinverranno nel decreto 18 maggio 2001.

Non intendiamo soffermarci sulle disposizioni del decreto n. 227 del 2001, solo vogliamo ricordare che lì viene data, fra l’altro, la definizione di bosco che risulta quanto mai esaustiva, diversamente da quanto disposto dal decreto n.34 del 2018 che, sorprendentemente, esclude che si possano definire bosco “le formazioni di origine artificiale realizzate su terreni agricoli anche a seguito dell’adesione a misure agroambientali o nell’ambito degli interventi previsti dalla politica agricola comune dell’Unione europea”( art.5, comma 1, lett. a ).

Quindi, quei boschi che trovano origine in un rimboschimento artificiale realizzato su terreni agricoli non sono da considerarsi tali in quanto diviene di maggior interesse recuperare il paesaggio agricolo originario, senza che si abbia a trovare ostacoli di sorta, forse per un mal inteso senso estetico. Con la conseguenza che questi boschi – essendo giuridicamente inesistenti – potranno essere estirpati senza alcuna precauzione e controllo da parte dell’Amministrazione forestale competente al rilascio dell’autorizzazione, fosse anche solo per accertarne le conseguenze sotto il profilo dell’interesse idrogeologico. In sostanza, viene considerato come fosse sterpaglia da eliminare per il disturbo che provoca (paesaggistico?) ogni rimboschimento artificiale che abbia interessato i terreni agricoli a prescindere dalla loro anzianità o vetustà, e quindi non solo i rimboschimenti relativamente recenti, come quelli finanziati dall’Unione europea negli ultimi decenni del secolo scorso, ma anche i rimboschimenti realizzati verso la fine dell’ottocento, facenti ormai parte del patrimonio paesaggistico tradizionale.

A questo punto vale la pena ricordare che la superficie boscata produce ossigeno, contrasta l’inquinamento atmosferico attraverso l’assorbimento del CO2, esercita un’azione di mitigazione del clima, costituisce la formazione di riserva d’acqua, conserva la biodiversità vegetale e animale, immobilizza con le sue radici il terreno dandogli stabilità, trattiene il dilavare delle acque con il suo “humus”, impedisce la desertificazione, costituisce il rifugio per la fauna selvatica, ecc.

A metà degli anni ottanta, quando vennero resi noti i risultati del censimento dei nostri boschi, l’allora Direttore generale del Ministero ebbe a dichiarare che il nostro Paese era ricco di boschi poveri, intendendo, con questa dichiarazione, che la superficie boscata nazionale era ragguardevole per la quantità, ma non per la qualità.

Oggi possiamo riscontrare, rispetto al passato, un incremento della superficie forestale nazionale in termini quantitativi, per via della colonizzazione conseguente all’abbandono di aree agricole e delle aree dove si esercitava la pastorizia. E vi è stato anche, in una certa misura, un incremento in termini di volume, rispetto al censimento sopra richiamato, con conseguente aumento del capitale produttivo forestale. Ma questa condizione – che comunque è decisamente più modesta che in altri Paesi boscosi- non è destinata a conservarsi e, tanto meno, a diventare migliore, con l’entrata in vigore del nuovo decreto, poiché la Strategia Forestale Nazionale disciplinata nel testo unico va verso una preoccupante utilizzazione.

Se si considera l’esordio del decreto n. 34 del 2018, si direbbe che il legislatore delegato abbia preso atto della condizione non esaltante dei nostri boschi, quando “riconosce” il patrimonio forestale nazionale come “bene di rilevante interesse pubblico da tutelare e valorizzare per la stabilità e il benessere delle generazioni presenti e future” (art. 1, comma 1). E però il testo normativo non è orientato nel senso della tutela e neppure della valorizzazione del bosco, quasi che la preoccupazione maggiore sia quella di sanare il nostro “deficit” della bilancia dei pagamenti relativa al legno che in effetti è cospicuo. Non si spiega, altrimenti, per quale ragione siano considerati “terreni abbandonati” quei terreni boscati che il proprietario ha ritenuto di conservare, preferendo, cioè, seguire la naturale evoluzione del bosco verso forme più complesse, piuttosto che provvedere per il taglio.

E la condizione di abbandono ricorre già allorché il bosco ha superato il turno di maturazione di una volta e mezzo senza che il possessore abbia provveduto agli “interventi selvicolturali” (art. 3, comma 2, lett. g). In tal modo il legislatore dimostra di ignorare, o piuttosto, preferisce ignorare che l’invecchiamento dei boschi cedui, come è universalmente noto ai selvicoltori, li converte in fustaie “le quali avranno una produttività, rispetto al bosco ceduo, appunto, di almeno il doppio”.

Quello di massimizzare purchessia la produzione legnosa conduce, dunque, al paradosso di impedire l’invecchiamento del bosco pur di ottenere un utile immediato in termini economici, anche quando il proprietario del bosco non è interessato al taglio, e neppure se ne giova l’interesse collettivo. L’unica giustificazione può risiedere nella preoccupazione che l’astensione dal taglio comporti anche l’astensione dagli sfolli e dai diradamenti, rendendo il bosco, secondo un’opinione che risulta diffusa, quanto errata, più facilmente preda degli incendi, come se questi siano dovuti ad un fatto naturale e non, invece, all’opera dell’uomo, come nella grandissima maggioranza dei casi.

Ora torna utile evidenziare che il turno di maturazione degli alberi non ha lo stesso significato che ha la maturazione dei beni agricoli, allorché il prodotto commestibile se non è utilizzato al termine dell’annata agraria (o all’equivalente) si deteriora finendo col deperire. Nel caso del bene forestale, il prodotto o frutto legnoso, una volta giunto a maturazione può permanere presso la cosa madre, ossia nell’albero, senza andare perduto, perché il frutto non utilizzato si capitalizza e il bosco invecchiando migliora e accresce il capitale produttivo. Senza contare che tutto l’ecosistema del quale il bosco è il maggior protagonista viene a beneficiarne, sicché, non solo la struttura e la fisionomia degli alberi, ma anche la flora, la fauna, il cosiddetto sottobosco costituito dalla vegetazione minore e dalla microfauna, i licheni, gli stessi funghi, i tartufi, ecc.

Veniamo alle prescrizioni relative al taglio degli alberi. Vi è nella legge forestale (art. 4, comma 5, lett. a) l’affermazione categorica del divieto della “pratica del taglio a raso dei boschi”, fatti salvi unicamente gli interventi con carattere d’urgenza disposti dalla Regione per finalità di interesse pubblico, o comunque, correlati all’interesse pubblico, come la difesa fitosanitaria, o per la necessità di ripristinare il bosco in conseguenza di un incendio. Questo divieto generalizzato espresso in termini che appaiono precettivi viene, in realtà, contraddetto dalla successiva lettera b) dello stesso comma dove il divieto è riferito ai boschi d’alto fusto e ai cedui non matricinati, con esclusione quindi dei boschi matricinati, i quali potranno, per conseguenza, essere oggetto del taglio a raso. Ma, anche questa seconda disposizione che consente, ripetiamo, il taglio a raso soltanto nei boschi matricinati, ha tutto il sapore di una norma manifesto, perché il conclamato divieto del taglio a raso nei boschi d’alto fusto e nei cedui non matricinati può essere superato dall’autorizzazione regionale. Questa non incontra alcun limite nell’esercizio del suo potere discrezionale, neppure una limitazione all’estensione della “tagliata”, poiché viene solo richiesto che siano trascorsi cinque anni dall’ultimo intervento e si provveda al reimpianto naturale o artificiale. La disposizione non può non lasciare perplessi per l’incoerenza legislativa.

Prima si è accennato ai boschi “vetusti”, per i quali si è manifestata un’attenzione non da ora a livello europeo, in considerazione della loro importanza sotto il profilo della tutela dell’ambiente. La nuova legge forestale si limita a segnalarne l’esistenza piuttosto che definirli in quella che è la loro fondamentale caratterizzazione e cioè l’anzianità che rimane indeterminata, mentre si diffonde su altri requisiti che tali boschi devono possedere, come l’interesse “storico, letterario, toponomastico o paesaggistico e spirituale” (art. 1, comma 1, lett. b); in questo senso, devono essere oggetto di “una speciale azione di conservazione”. Ma, fatto di rilievo, il legislatore forestale considera – a ben vedere – i boschi vetusti in modo, potremmo dire, residuale, non tanto, cioè, come aree boschive, ma come fossero, se non singole piante arboree, agglomerati di poco rilievo quanto alla loro estensione, altrimenti non si spiega perché questi boschi siano inseriti, ad opera dei Comuni, nel medesimo elenco speciale degli alberi monumentali.

Abbiamo detto sopra come la disciplina dei boschi vetusti sia rimasta incompiuta se non per l’emersione di quei requisiti, visti sopra, per cui sono stati accumunati agli alberi monumentai. E però se fossero stati definiti per la realtà che essi rappresentano, quella, cioè, di aver superato abbondantemente il turno di maturazione, il legislatore sarebbe entrato in contraddizione con sé stesso allorché definisce, come già rilevato, i boschi abbandonati.

Del bosco vetusto se ne occupa ora la legge d’attuazione della direttiva europea sulla qualità dell’aria ecc. Nel testo approvato dalla Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati – dopo le modifiche che erano state introdotte dal Senato al testo originario – bosco vetusto viene definito una “superficie boscata costituita da specie autoctone spontanee con il contesto biogeografico, con una biodiversità caratteristica conseguente all’assenza di disturbi da almeno sessanta anni”. Ciò che caratterizza i boschi vetusti non sono quindi i requisiti previsti dal testo unico forestale, ma solo che si tratti di specie autoctone spontanee che siano rimaste integre da qualsiasi tipo di intervento antropico per almeno sessanta anni. Tale è il significato di vetustà.

Ed è significativo che nel testo che, per brevità, chiameremo d’interesse comunitario, si parli, riferite ai boschi vetusti, di “aree”. Per l’identificazione di tali aree, definibili, appunto, come boschi vetusti, nonché per la loro gestione e tutela, viene disposta l’adozione di un apposito decreto ministeriale concertato fra i due Ministeri delle Politiche Agricole e dell’Ambiente e d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Quello che preme sottolineare è che la disposizione, che sopra abbiamo richiamato relativa ai boschi vetusti, per espressa volontà del legislatore integra il testo unico n. 34 del 2018 negli artt.3 e 7.

Da una legge che si occupa di boschi, e soprattutto che si definisce ambiziosamente” testo unico “, ci saremmo aspettati che il contenuto di almeno un articolo fosse stato dedicato al tema dei rimboschimenti, al quale la normativa del 1923 dedica una Sezione, insieme al rinsaldamento dei terreni vincolati. Si tratta, in questo caso, di un’attività funzionale alla difesa del suolo, tema che non è, comunque, rimasto estraneo al decreto n. 34 del 2018, sicché a livello di principi generali sarebbe stato auspicabile un intervento che ne evidenziasse l’importanza che invece è mancato, se non per il richiamo ai rimboschimenti che si rinviene riguardo agli interventi compensativi, e cioè sostitutivi della superficie forestale trasformata per altra destinazione produttiva ( art. 8, comma 4, lett. b).

Il tema dei rimboschimenti per finalità idrogeologiche – ma non solo per questo fine, come vedremo fra poco – non viene, però, trascurato dalla normativa di attuazione della direttiva europea sulla qualità dell’aria, prima ricordata, che nel testo licenziato dalla Commissione Agricoltura della Camera, prescrive il “rimboschimento delle fasce ripariali e delle aree demaniali fluviali, ove ritenuto necessario per prevenire il rischio idrogeologico”. Un Fondo apposito viene anche disposto “per favorire” negli anni 2020 e 2021, mediante i rimboschimenti, “la tutela ambientale e paesaggistica” – diversamente dal t.u.f. che si preoccupa di eliminare i rimboschimenti artificiali – nonché “per contrastare il dissesto idrogeologico nelle aree interne e marginali del Paese”.

Nello stesso progetto di legge di derivazione comunitaria, già approvato dalla Commissione competente della Camera, si prevede, inoltre, il finanziamento di un programma sperimentale per la creazione di foreste urbane e periurbane nelle città metropolitane

Se il decreto forestale non mostra interesse per i rimboschimenti per finalità idrogeologiche, lo stesso deve dirsi per quanto riguarda i rimboschimenti volontari, ossia per la formazione di nuovi boschi ad opera del proprietario privato, i quali vengono agevolati dalla legge del 1923 attraverso contributi, l’attribuzione gratuita dei semi e delle piantine occorrenti e la direzione tecnica dei lavori, anch’essa gratuita (art. 91, commi 1 e 2). Oggi, più di ieri, il tema dei rimboschimenti è d’attualità e raccomandazioni in questo senso giungono dalle sedi internazionali ai vari Stati, essendo il rimboschimento considerato lo strumento più potente ai fini ai fini della lotta ai cambiamenti climatici. Ma il legislatore forestale non se ne è accorto, non essendo interessato al nostro futuro, ma al profitto immediato.

La nuova legge forestale non fa alcun particolare richiamo alla proprietà forestale pubblica, anzi essa viene considerata allo stesso modo della proprietà privata ai fini della “redazione di piani di gestione o di strumenti equivalenti” promossi dalla Regione (art. 6, comma 6), diversamente, peraltro, da quanto è previsto dal testo base del 1923, dove la proprietà pubblica è oggetto di una separata disciplina – ci asteniamo qui dall’entrare nel merito – dalla proprietà privata. A sua volta il decreto n. 3267 del 1923 opera una distinzione tra la proprietà forestale appartenente ai Comuni – circa il 35% della superficie nazionale – e la proprietà forestale statale, ora regionalizzata.

Se è vero che la natura giuridica dei boschi di proprietà comunale non risulta evidente nella normativa del 1923, diversamente dalla proprietà forestale statale che appartiene “ex lege” al patrimonio indisponibile, non si può dubitare che quei beni boscati non siano meritevoli di tutela sotto il profilo ambientale – tant’è che per essi si è parlato di beni comuni – e per questa ragione non possono essere considerati oggetto dello stesso interesse della proprietà privata. Valutati, cioè, per la loro resa in termini di estrazione di legname secondo i criteri di massimizzazione della produzione rinvenibili nelle disposizioni del t.u.f. e che vede protagonista per questo fine la “Strategia nazionale forestale “, senza considerazione per gli aspetti di interesse generale del bosco correlati all’essere questo un ecosistema complesso. Non va dimenticato che per ottenere il frutto del bosco, ossia il legname, occorre procedere al taglio degli alberi, la cui ricrescita, a seconda delle diverse specie arboree, può essere intorno ai venti anni, se si tratta di boschi cedui, ma anche di sessanta, ottanta anni e anche di più, se ci riferiamo ai boschi d’alto fusto.

Ed è anche vero che oggi i Comuni hanno una diretta responsabilità in relazione alla tutela dell’ambiente cittadino, per via delle funzioni di interesse collettivo che svolgono, in particolare nella materia urbanistica, tant’è che la norma dello Stato ha sollecitato – di recente, ma già in passato – i Comuni alla formazione di boschi urbani e periurbani, non certo col fine di utilizzarli per la produzione del legno. E lo stesso è previsto, come già si è visto, nel progetto attuativo della Direttiva comunitaria, dove l’impianto della vegetazione arborea ha come fine quello di contrastare l’inquinamento atmosferico nelle città metropolitane.

Abbiamo appena detto dell’interesse ambientale che nella realtà odierna rivestono i boschi comunali, ma altrettanto dobbiamo dire, in forza della loro natura giuridica, dei beni già statali e ora regionali, che il legislatore forestale del 1923 definisce demaniali, ma in realtà appartenenti al patrimonio indisponibile, dopo la correzione operata dal legislatore all’art. 826, comma 2. Qui si pone d’ostacolo al medesimo trattamento riservato alla proprietà privata forestale la loro natura giuridica e la loro finalità destinata a soddisfare un interesse pubblico prima di ogni altra considerazione.

Poche parole vanno infine spese riguardo a quella che il decreto n. 34 del 2018 definisce “Impresa forestale” e che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. q), “esercita prevalentemente attività di gestione forestale, fornendo anche servizi in ambito forestale e ambientale”. In quanto impresa forestale – e non commerciale – è iscritta nello speciale registro presso la Camera di Commercio come si conviene per gli imprenditori agricoli, anche se la sua natura giuridica, nonostante la denominazione legislativa non risulta chiarissima. Ci spieghiamo: intanto, cosa vuol significare il legislatore con “attività di gestione forestale”? Se è la stessa attività che svolge l’impresa selvicolturale di cui all’art.2135 c .c, perché non richiamare tale articolo o riferirsi semplicemente all’attività di selvicoltura? Forse con la parola “gestione” si vuole intendere altro rispetto all’interpretazione che dell’impresa selvicolturale disciplinata dal Codice civile ne dà la dottrina e la giurisprudenza, quella cioè di allevamento di alberi e di produzione del suo frutto, ossia il legname, sicché l’impresa che ha l’unico scopo di tagliare il bosco quando esso è giunto a maturità è considerata un’impresa commerciale?

Questa impresa, disegnata dal legislatore forestale, non si limita, peraltro, all’attività “prevalentemente” di “gestione forestale”, ma fornisce anche “servizi in ambito forestale e ambientale”. Questi servizi non si possono considerare alla stregua di attività connesse all’attività di “gestione forestale”, come insegna il modello codicistico, per il solo fatto che la fornitura di servizi indica una prestazione in favore di altri, che è quanto caratterizza l’impresa commerciale.

D’altra parte, se l’impresa “forestale” non coincide nei fini con l’impresa di selvicoltura disciplinata dal Codice Civile, la si doveva definire in diverso modo perché i termini forestale e selvicolturale sono equivalenti, come precisa il t.u.f. nel comma 1 dell’art. 3 nel dare la definizione di bosco.

Detto che l’approccio al tema dell’impresa forestale non ci pare eccessivamente rigoroso sotto il profilo tecnico-giuridico, delle perplessità le suscitano anche le disposizioni dell’art. 10, intitolato alla “promozione ed esercizio delle attività selvicolturali di gestione”, ma dove l’espressione “di gestione” non è chiaro quale significato abbia .In tale articolo 10, nei commi 1 e 2 che ci interessano, non si fa più riferimento all’“impresa forestale” e alla sua attività come definita nell’art. 3, comma 2, lett. q), ma si attribuisce alla Regione un generico potere di “promuovere la crescita delle imprese che operano nel settore forestale e ambientale, della selvicoltura e delle utilizzazioni forestali”, ma anche “nella gestione, difesa, tutela del territorio e nel settore delle sistemazioni idraulico-forestali,” nonché nel “settore della prima trasformazione e commercializzazione dei prodotti legnosi”. Imprese, quindi, quest’ultime, che esercitano un’attività che si direbbe connessa all’attività selvicolturale se non fossero, invece, rilevate in modo autonomo. Ci sarebbe intanto da notare che se ci si riferisce al settore forestale, questo è comprensivo anche del settore ambientale e, quindi, non costituisce un’aggiunta al primo da mettere in rilievo. Osserviamo questo perché, se della tutela dell’ambiente in tutta la legge si tiene in pochissimo conto, di questo termine abbondano le disposizioni della legge. Ma potremmo anche osservare che l’attività selvicolturale è comprensiva delle utilizzazioni forestali, per cui non ha molto senso evidenziarle separate, a meno che non si voglia attribuirle un’altra caratterizzazione rispetto a quella che le individua come prodotto del bosco.

Ma quello che ci preme mettere in evidenza è che ora si fa riferimento ad imprese non più qualificate forestali, ma che possono avere “diversa natura giuridica” e, tuttavia, hanno titolo per essere iscritte negli albi regionali, presumibilmente per le finalità che perseguono e nell’ambito in cui agiscono, come prima abbiamo visto. E qui ci fermiamo.

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Alberto Abrami

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