I parchi naturali regionali in italia

04 Lug 2019 | articoli, contributi

Relazione tenuta al convegno presso l’Università di Reims, Les parcs naturels régionaux 1967-2017 – Journée juridique Echange / Colloque Approche comparative, similarités européennes – Comparaison italienne

Di Paola Brambilla

  1. La nascita e l’evoluzione storica delle aree protette regionali in Italia.

Il caso italiano, nella sua evoluzione storica e giuridica, è davvero singolare ed emblematico. Offre infatti un esempio di come la governance multilivello da un lato, e le crescenti pressioni antropiche di utilizzo delle risorse naturali dall’altro, possano essere, di volta in volta, fattore di ritardo e inefficienza o complicazione nella tutela delle aree protette, ovvero fattore di implementazione di questa.

Per questo motivo ho pensato di impostare questa relazione partendo dall’illustrazione della nascita delle aree protette in italia, a livello nazionale e poi regionale, per poi affrontare i diversi modelli di strutturazione e gestione dei parchi regionali, ed infine scendere nel letto fluido della giurisprudenza più recente, dove convergono gli scontri tra gli attori della materia.

L’Italia, forse non è noto, è stata il quarto stato nei paesi del continente europeo in senso lato a istituire riserve naturali: prima la Svezia, agli inizi del secolo scorso, poi Svizzera e Spagna, quindi il nostro Stato che tra il 1922 e il 1923 istituì il Parco Nazionale del Gran Paradiso e il Parco Nazionale dell’Abruzzo, rispettivamente per un’estensione di oltre 60.000 ettari e 30.000 ettari, secondi per estensione in Europa ancora una volta dopo la Svezia. Questi parchi nascono anche per la presenza di un vasto movimento protezionista agli albori, che annovera tra le sue fila soprattutto zoologi e botanici, spesso reduci da visite entusiastiche a Yellowstone, nonché grazie alle prime grandi associazioni ambientaliste. L’autonomia amministrativa degli enti parco, inizialmente conferita loro dalle prime leggi istitutive, funzionale ed efficace, viene però sostituita a breve nell’era fascista da una gestione centralizzata e ministeriale. in questo periodo, a parte l’istituzione di altri due parchi nazionali, Circeo e Stelvio (quest’ultimo per mere ragioni politiche di affermazione suprematista nazionale), tutto si ferma.

Segue poi un lungo periodo di torpore istituzionale, da cui l’Italia si risveglia alla fine degli anni ’60, in concomitanza con la nascita del vero e proprio movimento ecologista (WWF, Italia Nostra, Lipu) e la diffusa preoccupazione per le conseguenze sull’ecosistema delle attività umane, specie industriali, che spinge all’istituzione di nuove aree protette: proprio nel ’68 la Provincia di Trento, pioniera nella sperimentazione di nuove forme di tutela del territorio, istituisce due riserve (Dolomiti del Brenta-Adamello e Pala di San Martino). Sono i primi parchi “locali”.

Il disegno Costituzionale italiano prevedeva già dal suo nascere le Regioni (artt. 114 e ss.), enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione, tra cui le Regioni a Statuto speciale (Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta) dotate di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali. Alle Regioni (e alle Province autonome di Trento e Bolzano) la Carta riservava da un lato potestà legislativa nei limiti fondamentali posti dalle leggi dello Stato in una serie di materie, tra cui non comparivano però parchi, o paesaggio o ambiente; dall’altro conferiva alle Regioni la potestà amministrativa relativa a tale materie, oltre a quella delegata dallo Stato

Devono però passare vent’anni perché il dettato costituzionale venga attuato, forse a causa dell’unità recente e del timore delle autonomie locali.

Solo con la L. 108/1968, infatti, vengono indette le prime elezioni regionali; segue nel 1971 l’approvazione degli Statuti delle Regioni, e infine nel 1972 si assiste all’emanazione di decreti – aventi valore di legge ordinaria – che regolano il passaggio alle Regioni delle funzioni previste dall’art. 117 della Costituzione, ed ampliano la possibilità di tali enti di legiferare nei limiti dei principi fondamentali già esistenti, senza necessità di attendere di volta in volta le leggi cornice dello Stato.

Per quanto il tema odierno, è però solo con la L. 382/1975 e il D.P.R. 616/1977 che le Regioni conquistano la titolarità delle funzioni amministrative in materia di beni culturali ed ambientali, ed in particolare quelle (art. 83) degli “interventi per la protezione della natura, le riserve ed i parchi naturali”.

Si tratta di norme che però rimandano ancora una volta a una successiva legge la disciplina generale relativa a parchi e riserve nazionali e la ripartizione dei relativi compiti, come in gioco di scatole cinesi.

Al traguardo finale si giunge solo grazie all’attivazione spontanea di tutta una serie di Regioni, Lombardia in testa, che sfruttando le potestà già trasferite di pianificazione territoriale, istituiscono da subito aree protette regionali, da un lato attraverso leggi quadro di natura e sapore urbanistico, che mirano a pianificare le attività consentite e a porre limitazioni alla trasformazione in aree di particolare pregio ambientale, dall’altro attraverso singole leggi istitutive di parchi e riserve naturali.

Pioniera la L.R. Lombardia 58/1973, di “Istituzione delle riserve naturali e protezione della flora spontanea”, che autorizza la Regione “a istituire riserve naturali nel quadro di un piano regionale delle riserve e dei parchi regionali per concorrere alla conservazione dell’ambiente naturale ed alla tutela idrogeologica, per consentire migliori condizioni di abitabilità nell’ambito dello sviluppo dell’economia e di un corretto assetto dei territori interessati, per la ricreazione e la cultura dei cittadini, e l’uso sociale e pubblico dei beni ambientali nonché per scopi scientifici”; anche su aree demaniali.

La legge, innovativa in modo sbalorditivo e con tratti anticipatori delle soluzioni attuali basate su solidarietà e sussidiarietà orizzontale, prevede indennizzi per i proprietari dei beni sottoposti a vincolistica (ritenuta allora evidentemente espropriativa e non conformativa), misure di tutela, sanzioni, e una vigilanza affidata al Corpo Forestale dello Stato, alle Guardie regionali, alle Polizie Provinciali e a guardie giurate onorarie, da scegliersi tra le persone proposte dalle Associazioni naturalistiche locali previa frequenza di appositi corsi.

Seguono poi il Piemonte, il Lazio, la Liguria, il Veneto e la Sicilia, con leggi regionali che non attendono le mosse statali; la normativa nazionale quadro, dopo lunghissime discussioni, vede la luce solo con la L. 394/1991.

Di lì il passo è breve: la riforma costituzionale del Titolo V operata dalla Legge Costituzionale 3/2001 modifica il quadro del riparto delle competenze tra Stato e Regioni attribuendo – nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – allo Stato (art. 117, comma 2, lett. s) la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, e alla Regione in via concorrente con lo Stato delle materie “governo del territorio; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali”: ciò significa che la potestà legislativa spetta alla Regione, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, che resta riservata alla legislazione dello Stato.

Nelle materie concorrenti la potestà regolamentare spetta invece alla Regione.

Chiarisce inoltre l’art. 118, secondo comma, Cost., che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.” Almeno questo assomiglia molto al quadro francese, per la verità.

C’è spazio quasi per tutti, dunque: un quadro composito, multilivello, della chiamata degli enti locali alla disciplina dei parchi regionali.

  1. Il quadro nazionale. I parchi regionali nella mente del legislatore statale.

La normativa nazionale, come detto con valore di cornice per la legislazione regionale, prevede che le aree protette regionali siano di due tipologie: parchi naturali regionali, “costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali ed eventualmente da tratti di mare prospicienti la costa, di valore naturalistico e ambientale, che costituiscono, nell’ambito di una o più regioni limitrofe, un sistema omogeneo individuato dagli assetti naturali dei luoghi, dai valori paesaggistici ed artistici e dalle tradizioni culturali delle popolazioni locali”, e riserve naturali “aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono una o più specie naturalisticamente rilevanti della flora e della fauna, ovvero presentino uno o più ecosistemi importanti per le diversità biologiche o per la conservazione delle risorse genetiche”, ovviamente di rilevanza regionale. Classificazione e istituzione di queste aree protette regionali sono effettuate dalle Regioni. Le riserve naturali possono essere statali o regionali in base alla rilevanza degli interessi in esse rappresentati.

Ci sono poi altre aree naturali protette (oasi delle associazioni ambientaliste, parchi di cintura urbana e simili) che non rientrano nelle tipologie codificate dal legislatore nazionale, ma sono prevista dal livello regionale: aree a gestione pubblica, istituite con leggi regionali o provvedimenti equivalenti, o aree private (le oasi del WWF, ad esempio) riconosciute dalla Regione.

Ebbene, questo sistema di classificazione realizza però una sorta di compromesso tra il criterio finalistico ed il criterio valoriale, vale a dire tra la finalità delle aree fissata per legge ed il tipo di patrimonio da proteggere, così da creare una pregiudizievole confusione sia sui confini tra la nozione di parco e quella di riserva, ad esempio, sia su altri aspetti gestionali che però esulano da questa trattazione.

Al riguardo non si può non evidenziare come detta classificazione non corrisponde punto ai criteri già da tempo immemore proposti dall’IUCN, Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, la quale invece ha costruito una classificazione fondata sul grado di naturalità e wilderness, e di correlata ma inversamente proporzionale umanizzazione.

Secondo tali criteri, soggetti a prima revisione nel 1994 e a una seconda rivisitazione nel 2008, il sistema delle aree protette non è gerarchico, in quanto tutte le categorie partecipano alla conservazione della natura, a seconda dei livelli progressivi di umanizzazione. Si deve trattare di un sistema slegato dalla proprietà e dal tipo di governo, che può assumere forme differenziate in relazione alle condizioni dell’area; in cui un obiettivo primario, distintivo della categoria, può essere affiancato da altri eventuali obiettivi coesistenti purché non compromettano il primo (possono coesistere valori diversi, ma la natura è prioritaria). E ancora, si assume che non tutte le categorie siano applicabili alla stessa situazione, in relazione ai suoi caratteri distintivi e al ruolo che la categoria assume nel paesaggio e nel sistema complessivo; infine si ammette che la categoria possa essere modificata se gli obiettivi non sono raggiunti, tenendo però conto del fatto che la categoria non riflette l’efficacia della gestione, e che i fattori che possono impedire il raggiungimento dello scopo di conservazione devono essere eliminati.

Le categorie sono dunque definite dall’IUCN secondo un principio di scopo, in cui l’articolazione degli obiettivi è però definita sia quanto agli obiettivi primari che secondari.

Tutte le categorie di aree protette devono infatti per IUCN: (i) conservare la composizione, la struttura, la funzione e l’evoluzione potenziale della biodiversità; (ii) contribuire alle strategie nazionali di conservazione (ricoprire un ruolo nel sistema nazionale); (iii) mantenere la diversità del paesaggio o dell’habitat, dell’insieme delle specie e dell’ecosistema; (iv) essere di dimensione sufficiente per assicurare l’integrità e la manutenzione di lunga durata delle specie e degli obiettivi specificati di conservazione o tale da poter essere incrementata per raggiungere lo scopo; (v) mantenere i valori che intende proteggere nel tempo.

Tutte le aree protette, oltre agli obiettivi primari, come detto possono i

perseguire anche altri obiettivi, volti a conservare significative componenti paesistiche, geomorfologiche o geologiche, fornire i servizi ambientali prodotti dagli ecosistemi, conservare aree di significato spirituale, scenico o scientifico, integrare i benefici per le popolazioni  con gli obiettivi di gestione, integrare gli usi ricreativi negli obiettivi di gestione, favorire la ricerca scientifica e il monitoraggio dei valori da difendere, contribuire a fornire occasioni educative, informative e formative: la possibilità di assegnare tali obiettivi secondari alle aree protette presuppone però, quale condizione tassativa, che questi ultimi non si pongano in alcun contrasto con gli obiettivi primari.

Infine, secondo l’IUCN, l’obiettivo prioritario per ogni categoria, deve essere applicato ad almeno ¾ dell’area protetta. La classificazione dell’IUCN, condotta secondo questi obiettivi primari, si articola così in Riserve naturali integrali (Strict Nature Reserve), categoria Ia, Aree incontaminate (Wilderness Area), categoria Ib, Parchi nazionali, (National Park) categoria II, Monumenti naturali (Natural Monument) categoria III,  Aree di conservazione di specie e habitat (Habitat/Species Management Area) categoria IV, Paesaggi terrestri e aree marine protetti (Protected Landscape/Seascape) Categoria V, e Aree per la gestione sostenibile delle risorse (Managed Resource Protected Area), categoria VI.

Un’altra forma di classificazione, infine, per nulla basata su criteri gerarchici o di gradienti di protezione è quella accolta dalla direttiva habitat 92/42/CEE, che prevede unicamente l’assegnazione delle aree importanti per la biodiversità a livello europeo, la c.d. Rete Natura 2000, a specifiche regioni biogeografiche: in Italia però questa classificazione distinta è assicurata, sia a livello statale che regionale, perché queste aree hanno una disciplina e un’articolazione specifica.

Ciò chiarito, la legge quadro 394/91 detta i tratti fondamentali della disciplina dei parchi regionali (art. 22) prevedendo: la partecipazione degli enti locali tanto al processo istitutivo dell’area, quanto alla gestione del parco; la pubblicità degli atti istitutivi e di pianificazione.

Queste garanzie procedurali di partecipazione e pubblicità sono espressamente definite come principi fondamentali di riforma economico sociale statale, di cui – sia pure a livelli differenziati – Regioni a statuto speciale e ordinarie devono tener conto.

Quanto agli aspetti contenutistici della disciplina, la norma nazionale prescrive che la legge regionale detti i criteri per l’adozione di regolamenti del parco, coerenti con i principi cardine statali dettati dall’art. 11.

Si tratta di principi propulsivi o direttivi da un lato, e di limiti dall’altro; i primi impongono che il regolamento detti una specifica disciplina delle attività antropiche edilizie, artigianali, commerciali, di servizio, agro-silvo-pastorali; che disciplini modalità di soggiorno e circolazione del pubblico, attività sportive e ricreative, attività di ricerca scientifica, limiti alle emissioni, anche sonore e luminose, misure per la promozione del volontariato e per l’accessibilità ai disabili e agli anziani. Le limitazioni che il regolamento deve prevedere sono quelle tese ad evitare la compromissione della salvaguardia di paesaggio ed ambienti naturali, e in particolare di flora, fauna ed habitat protetti. Vi sono inoltre divieti puntuali per l’apertura di nuove cave e discariche, attività pubblicitarie fuori dai centri urbani, modifiche del regime delle acque, strumenti di alterazione dei cicli biogeochimici, l’introduzione di armi, l’accensione di fuochi all’aperto, il sorvolo. Sono possibili deroghe, che però devono essere previste dallo stesso Regolamento del Parco.

La disciplina nazionale infine precisa che nel parco regionale è vietata la caccia (tema caldo in Italia), perchè vi sono consentiti solo prelievi o abbattimenti faunistici selettivi, per la ricomposizione degli equilibri ecologici, per di più da svolgersi in conformità al regolamento del parco e esclsuivamente da parte di personale dipendente o autorizzato.

Ora, per più di vent’anni questo quadro nazionale della disciplina dei parchi regionali è rimasto inalterato, mentre a livello locale si è assistito al fiorire, anche successivo, di modelli molto differenziati gli uni dagli altri da parte delle Leggi regionali.

  1. La crisi o il fiorire del modello: i parchi regionali nella realtà delle autonomie locali.

A livello storico i parchi regionali hanno conosciuto tre grandi fasi di riforma. La prima è quella che è seguita all’armonizzazione con la legge quadro statale, dopo il 1991. Le Regioni hanno proceduto, chi prima e chi poi, a prevedere oltre alle varie tipologie di aree protette delineate dalle loro leggi, anche i parchi naturali e le riserve naturali sottoposte alla disciplina nazionale o a una disciplina conforme.

Una seconda riforma si è avuta quando sono stati soppressi i consorzi a livello nazionale: poiché la maggior parte degli enti gestori aveva avuto la veste di consorzio, si è reso necessario trasformare i consorzi in enti di diritto pubblico, di livello regionale o provinciale o compositi (ciò che ha dato vita a una razionalizzazione, vedasi il caso particolare delle Macroaree dell’Emilia Romagna, o della Lombardia).

Una terza riforma infine, la più recente, a seguito della modifica delle province e della riattribuzione delle loro funzioni alle regioni, ha visto in alcune regioni e la regionalizzazione delle aree protette, in altre la modifica dei ruoli che in precedenza erano stati dati alla provincia, riattribuiti a comunità montane, comuni e altri livelli associativi degli enti territoriali.

In ogni caso, sia che la gestione spetti ad enti regionali, che ad enti di altro livello, i parchi regionali sono enti con personalità giuridica di diritto pubblico, titolari del diritto all’uso del nome e del proprio marchio, generalmente forniti di potere statutario e regolamentare, dotati di potestà pianificatoria (nel rispetto dei piani di livello superiore regionale o provinciale) che prevale sui piani di livello comunale, e di potere sanzionatorio ed autoritativo, di ordinanza o similare, ovviamente nel settore della tutela ambientale e paesaggistica, per ordinare ripristini e demolizioni.

L’oggetto della tutela.

L’oggetto della tutela delle aree protette regionali è multiforme: viene indicato di volta in volta, oltre al classico patrimonio naturale e ambientale, anche le formazioni fisiche, geologiche, biologiche, paleontologiche, estetiche, ma anche quelle faunistiche e archeologiche; biotopi e zone corografiche costituenti passaggi anche trasformati dall’uomo, comprese le strutture insediative che presentino valore di testimonianza di civiltà (Bolzano), e giardini e parchi con flora e fauna particolarmente rilevanti (Bolzano). Il territorio di solito viene ripartito in zone di riserva integrale o di riserva orientata (quando lo scopo è sorvegliare e orientare scientificamente l’evoluzione della natura, Veneto), zone di riserva generale, zone di protezione e zone di controllo, o zone di iniziativa comunale orientata, in cui i limiti alle attività antropiche via via decrescono. Vi sono normative regionali che prevedono anche la tutela di aree di protezione fluviale, o di reti ecologiche o reti verdi, e corridoi ecologici (Lombardia, Trento), e parchi naturali locali, a scala minore (Trento, Lombardia), e regioni (Campania) che disciplinano espressamente le aree di preparco o aree contigue. Tralasciando parchi naturali e riserve naturali, biotopi e geotopi (Puglia, Toscana) la fantasia delle regioni ha dato vita a parchi agricoli, montani, fluviali, forestali, e persino di cintura metroplitana, intesi come “zone di importanza strategica per l’equilibrio ecologico dell’area metropolitana, per la tutela ed il recupero paesistico e ambientale delle fasce di collegamento tra città e campagna, per la concessione delle aree esterne dei sistemi di verde urbani, per la ricreazione ed il tempo libero dei cittadini, mediante la più efficace gestione del paesaggio, con particolare riguardo alla continuazione ed al potenziamento delle attività agro-silvo-colturali” (Lombardia).

Vincoli e indennizzi, aspetti finanziari.

Vi sono poi altre differenze tra i vari modelli che possono essere anche molto profonde, di cui qui si cerca di operare una sintesi.

Ora, in Italia i vincoli ambientali e paesaggistici (imposti dalla pianificazione) sono conformativi e non espropriativi, per cui non necessitano di indennizzi economici: non privano infatti il proprietario del bene, ma ne conformano l’uso all’interesse pubblico (art. 42 Cost). Ciò nonostante vi sono parchi regionali che indennizzano la presenza di vincoli introdotti dalla pianificazione, quando essi limitano le attività antropiche (agricole, ma anche estrattive o produttive), in funzione di un’incentivazione all’accettazione della conformazione dell’uso del bene. Vi sono anche normative che incentivano l’acquisizione di aree private per acquisirle al demanio (in Sicilia all’interno della riserva e nella pre-riserva) e garantirne meglio, attraverso la mano pubblica, la protezione; questi processi di acquisto hanno dunque anche la funzione di consentire indennizzi integrali ai proprietari, attraverso la cessione del bene all’ente.

Vi sono poi leggi che prevedono anche la possibilità del parco, per esigenze di conservazione, di stipulare con i privati contratti d’affitto a lunga scadenza (Bolzano, Lazio).

Inoltre è decisamente comune che le leggi regionali in argomento consentano ai parchi di erogare contributi a chi si impegna ad attività di mantenimento di attività tradizionali di conservazione genetica di specie agricole o di razze d’allevamento, come anche di ammettere a finanziamenti prioritari gli enti che perseguono finalità di restauro e valorizzazione del patrimonio tradizionale e del paesaggio o dei servizi destinati alla sostenibilità, alla ricettività e al turismo. Così il Piemonte, la Sicilia, la Provincia di Bolzano che ha istituito a tal fine un “fondo del paesaggio” che finanzia anche privati che vogliano concorrere al mantenimento del quadro paesaggistico e della natura; così la Provincia di Trento, che addirittura sovvenziona anche titolari di diritti reali minori, usufruttuari, conduttori delle aree più pregiate e vincolate perché proseguano la manutenzione dei beni socio ambientali (anche il patrimonio edilizio tradizionale e rurale) in chiave naturalistica e sostenibile.

Meno diffusa è la presenza di disposizioni che finanziano enti e privati, anche proprietari dei beni protetti, per la realizzazione di iniziative di studio e di valorizzazione (Bolzano), o per la definizione di un’offerta di formazione professionale mirata alla costruzione di green jobs (Emilia Romagna).

In una logica che abbraccia il modello del pagamento dei servizi ecosistemici queste misure indennitarie diventano coerenti con la funzione di conservazione e mantenimento delle risorse naturali e dei benefici che esso rende alle comunità insediate e a quelle che dipendono dall’integrità ed efficienza della conservazione del capitale naturale per l’approvvigionamento di acqua potabile, per la depurazione, per il raffrescamento, per la stabilità idrogeologica, per il drenaggio, per la produzione di cibo, per la produzione di servizi turistici, ricreativi e spirituali. Alcune regioni, anticipatamente rispetto al disegno di riforma nazionale (Lombardia, che li prevede come meccanismi di carattere negoziale) hanno già previsto questo modello, che è in fase di anticipata sperimentazione, grazie ad alcuni progetti Life, in alcune aree protette regionali (specialmente nelle Oasi WWF, parchi privati riconosciuti dagli enti pubblici, gestiti direttamente dall’associazione che ne è proprietaria):

Accanto a questi indennizzi facoltativi, vi sono invece erogazioni risarcitorie obbligatorie, quali quelle a favore di agricoltori o allevatori che subiscano danni causati dalla fauna selvatica; questa nelle aree protette è protetta e gestita dagli organi del parco, che possono provvedere peraltro ad attività di selezione unicamente per ragioni di tutela degli equilibri ecosistemici e faunistici complessivi.

Quanto alle entrate dei parchi regionali, tasto dolente, esse dipendono in parte dai fondi del Ministero dell’ambiente, che finanzia le aree protette inquadrate come parchi naturali regionali o riserve naturali, in parte da finanziamenti regionali; i parchi hanno peraltro anche entrate proprie, che possono provenire o da strumenti cogenti (tariffe di ingresso, canoni o sovracanoni per l’uso di risorse naturali, proventi delle sanzioni irrogate, compensazioni e mitigazioni ambientali imposte da valutazioni ambientali – VAS, VIA, VIC – quali condizioni per la realizzazione di interventi o progetti nel parco, e ancora contributi fissi degli enti partecipanti agli organismi di gestione proporzionali alle quote di territori inclusi nel parco o agli abitanti) o volontari (gestione marchio del parco, raccolta fondi, contributi volontari).

Struttura organizzativa.

I Parchi hanno un Presidente, che negli enti gestori dipendenti dalla Regione sono di nomina regionale (Campania, Piemonte) negli altri casi sono eletti dall’organismo con compiti esecutivi, denominato consiglio direttivo o comitato di gestione e simili) o dall’organo assembleare (Lombardia), con composizione numericamente più consistente, che spesso si chiama comunità del Parco e riunisce rappresentanti degli enti locali, esponenti di associazioni ambientaliste, di associazioni venatorie, e di agricoltori o pescatori, e in qualche caso anche di associazioni del comparto dei servizi turistici (Lombardia). A detto organo spettano solitamente compiti di straordinaria amministrazione, come l’approvazione di piani o regolamenti, l’approvazione dello Statuto o la sua modifica, l’approvazione del bilancio. Raramente è previsto uno sdoppiamento dell’esecutivo in Consiglio e Giunta (Puglia) o Consiglio e Comitato esecutivo (Veneto).

In alcune Regioni vi sono comitati scientifici consultivi, sia per i livelli politico-istituzionali che per i livelli degli enti gestori (Sicilia, Trento, Toscana, Puglia), e in parallelo organi di gestione aperti nella composizione a rappresentanze del mondo universitario e scientifico. Vi sono Regioni che prevedono anche una rappresentanza degli imprenditori e degli enti gestori degli usi civici (Trento), valorizzando una partecipazione più estesa che consente decisioni più ponderate e condivise. Nella generalità dei casi però la partecipazione non solo dei Comuni, o degli enti locali di altro livello, ma dei portatori di interessi viene concentrata nell’organo assembleare.

E’ peraltro prevista da alcune normative regionali una valorizzazione espressa del volontariato (Toscana, Emilia Romagna), in altre regioni più sfumata dove si parla però di educazione ambientale operata in collaborazione con l’associazionismo (Lombardia, Abruzzo).

  1. La riforma in corso della normativa nazionale: la rincorsa dei modelli regionali.

Il quadro della tutela delle aree protette è attualmente, dopo 25 anni, in fase di riforma, ad opera del disegno di legge 119 e collegati.

Il testo sostanzialmente prevede un Sistema nazionale delle aree protette, e un Piano di sistema triennale finalizzato a implementare globalmente strategie, finalità, programmi e progetti di tutela dei parchi e delle riserve, coerenti con le politiche di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico, per la realizzazione degli obiettivi di sviluppo dell’Agenda 2030; piano cofinanziato dalla Regioni.

La riforma realizza una sistematizzazione unitaria della “vision” delle aree protette statali e regionali, a cui concorre anche rete Natura 2000, disciplinata dagli appositi strumenti di derivazione comunitaria.

Un nuovo Comitato nazionale per le aree protette, in raccordo con il Comitato paritetico per la biodiversità e il Comitato per il capitale naturale, organismi di raccordo politico-tecnico-scientifico, con compiti consultivi e propulsivi, sono chiamati a collaborare per condividere strategie e interventi.

Decisamente importante (anche se preceduto al solito dalla legislazione regionale della Lombardia) l’introduzione dei PES, pagamenti dei servizi ecosistemici, specie per attività di utilizzo o sfruttamento di beni naturalistici di interesse comune (acque minerali, termali, derivazioni, attività estrattive, di produzione o di trasporto di energia o gas), secondo norme di dettaglio da emanarsi con decreti legislativi.

Tra le più salienti modifiche: la previsione di misure di incentivazione regionali, stanziate nell’ambito dei fondi europei per lo sviluppo regionale, per i territori compresi in parchi, da destinare non già alla conservazione della biodiversità ma a misure di rafforzamento della sostenibilità e attrattività delle comunità e attività antropiche insediate; restauro di centri abitati, implementazione di opere di risanamento ambientale e sanitario, attività di riqualificazione territoriale e forestale, interventi di ricomposizione paesaggistica, promozione di energie rinnovabili e di servizi pubblici a livelli adeguati e in chiave sostenibile, sostegno all’imprenditoria agricola, agrituristica, culturale – e anche produttiva ove compatibile – e di promozione territoriale.

Si prevede anche la possibilità di introdurre misure di incentivazione fiscale, tra cui, per le isole poste all’interno di aree protette marine, un diritto di sbarco con finalità ambientali, quasi un novello dazio ambientale.

Si assiste infine a un rafforzamento delle sanzioni, con l’aumento indicizzato delle sanzioni amministrative, e la loro applicazione (regolata in via uniforme nei minimi e massimi edittali) anche alle violazioni delle disposizioni emanate dagli organismi di gestione.

Inoltre la sanzione penale viene estesa alla violazione delle misure di salvaguardia previste da leggi regionali in vista dell’istituzione di parchi, ed alla violazione dei regolamenti dei parchi naturali regionali; come pure viene prevista l’applicazione in via generale della misura accessoria della confisca delle cose utilizzate per l’illecito, in caso di condanna per casi di particolare gravità, fermo restando il ribadito diritto dell’ente gestore al risarcimento del danno ambientale.

  1. Governance multilivello e Parchi Regionali; conflitti e diritto vivente nella giurisprudenza di settore.

A differenza che in Francia, dunque, l’esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni, unitamente alla natura vincolistica del regime di protezione delle aree protette regionali, e al fatto che la violazione delle norme di tutela è sanzionata penalmente o amministrativamente, ha dato vita ad un ricco contenzioso costituzionale.

Questo contenzioso ha le vesti ora del conflitto di attribuzione (quando Stato e Regioni discutono della legittimazione e competenza all’emanazione di atti non legislativi) ora si svolge in sede di legittimità, quando lo Stato ritiene che un atto legislativo della Regione abbia leso le sue competenze e lo impugna, o viceversa; e sono proprio questi ultimi giudizi – in via principale – ad essere aumentati notevolmente dopo la riforma costituzionale del 2001.[1] Alla Corte costituzionale approdano anche i giudizi costituzionali di legittimità incidentale sulle leggi regionali, quando il giudice a quo ritiene, d’ufficio o su istanza di parte, che una norma sia in contrasto con la carta costituzionale, e che la risoluzione della questione appunto di legittimità sia rilevante per la decisione del giudizio, e non manifestamente infondata. Procede allora a sospendere il giudizio ed attende la decisione della Corte.

E’ molto interessante e fitta anche la casistica che si è sviluppata avanti al giudice amministrativo, competente a conoscere delle impugnazioni degli atti autoritativi assunti dagli enti gestori delle aree protette regionali o comunque assunti dalle Regioni con regolamenti o deliberazioni relativi ai parchi regionali: atti di pianificazione, di autorizzazione o di diniego a progetti o interventi, ma anche sanzioni ordinatorie, ripristinatorie o pecuniarie: come infatti stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile,[2] le sanzioni ambientali rientrano generalmente nella disciplina dell’uso del territorio, e dunque la relativa cognizione è demandata al giudice amministrativo, in quanto le sanzioni sono atti strumentali all’esercizio dei poteri di vigilanza, i quali ultimi sono strettamente connessi all’esercizio di potestà autoritative.

C’è però anche un corpo, meno consistente, di pronunce del giudice civile; questi ha una competenza residuale a conoscere delle sanzioni di natura pecuniaria in tema di attività estrattive, di scarichi e di altre minori tematiche: si tratta di una competenza funzionale che spetta al solo Tribunale, in quanto legata alla materia ambiente, per cui non c’è spazio alcuno per il giudice di pace (cfr. art. 6, comma 4 lett. c del d. lgs. 150/2011), che in Italia si occupa delle cause minori e delle sanzioni amministrative in genere.[3]

La forma e/è la sostanza.

Quali sono i temi del contendere? Come dicevamo, i filoni sono due.

Quello procedurale e quello contenutistico.

Quanto al primo tema, questo involve da un lato l’aspetto “soggettivo” del rispetto della partecipazione e della pubblicità nel procedimento di istituzione, garanzie poste a tutela degli attori nel governo del bene; dall’altro quello “oggettivo” delle tipologie di parco regionale istituite, o del contenuto specifico della protezione, o ancora delle deroghe aperte al regime di protezione.

Ora, già prima della riforma del 2001 la Corte Costituzionale (con sentenza 14 luglio 2000 n. 282) aveva ben chiarito l’illegittimità della legge regionale della Campania 33/1993, diretta a consentire l’inclusione del territorio di un Comune all’interno di un Parco Regionale in assenza delle specifiche procedure di cooperazione e raccordo con gli enti locali previsti dalla legge quadro sulle aree protette (Parco Regionale dei Campi Flegrei). In questo caso il Comune di Procida aveva impugnato gli atti regionali davanti al giudice amministrativo, e questi aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa della Regione al riguardo: rilevando che mentre la legge nazionale prevede la partecipazione dei singoli enti locali attraverso apposite conferenze, finalizzate alla redazione di un documento di indirizzo concernente l’area destinata a protezione, la legge regionale si limitava a prevedere un comitato consultivo non composto da rappresentanti dei comuni concretamente interessati, e una mera possibilità per questi enti di formulare osservazioni. Il modello procedimentale è stato considerato deviato e limitativo della partecipazione rispetto allo standard statale, con la conseguente declaratoria di illegittimità della normativa.

Non è andata diversamente dopo la riforma: sempre la Corte Costituzionale (sentenza 212/14, su rinvio del T.A.R. Sicilia, adito dal Consorzio di tutela dalla IGP pomodoro di Pachino e del Comune di Pachino) ha dichiarato illegittima la legge della Regione Sicilia 98/1981 che, per l’istituzione di parchi regionali, prevedeva una competenza esclusiva a ciò della Regione, riducendo a una mera facoltà di presentare osservazioni, la partecipazione di privati, enti, organizzazioni sindacali, cooperativistiche, sociali; dunque un segmento consultivo generico, e non partecipativo e individualizzato, in violazione dei principi fondamentali di riforma economico sociale stabiliti dalla legge quadro statale validi anche per la Regione a Statuto speciale.

Ed ancora, la stessa scure dell’illegittimità ha travolto la legge della Regione Abruzzo 60/2010 di ampliamento della già esistente Riserva Naturale Pineta Dannunziana di istituzione del Parco Regionale della Pace; in questo caso il giudice ha affermato che neppure il solo allargamento dei confini dell’area protetta può essere sottratto alle garanzie partecipative della legge quadro statale. Infatti, sebbene sia vero che le Regioni potrebbero adottare norme conservative e migliorative dei parchi esistenti e procedere ad interventi legislativi ampliativi della sfera di tutela riservata allo Stato, non può però considerarsi legittima l’adozione, da parte degli stessi enti, di modalità procedimentali che si discostano in peius dai princìpi fondamentali tracciati dalla legislazione statale a garanzia dei diritti partecipativi: la partecipazione, in materia di aree protette, è una prerogativa fondamentale riconosciuta alle comunità locali e, per esse, agli enti correlati.

Il coinvolgimento dei diversi enti territoriali interessati rappresenta per la Corte uno snodo procedimentale di essenziale rilievo, trattandosi di una partecipazione tutt’altro che formale, dal momento che essa è volta a realizzare un compiuto e bilanciato apprezzamento delle varie esigenze e finalità che la realizzazione dell’area protetta mira a perseguire.

La tutela delle risorse ambientali e del territorio presenta, infatti, come è ovvio, una pluralità di peculiari aspetti – di ordine naturalistico, economico, sociale, culturale – che necessariamente comportano l’altrettanto diversificato concorrere degli enti locali “esponenziali” delle relative comunità, alle quali, dunque, nelle forme previste, non può essere negato uno specifico diritto a interloquire, volto a definire non soltanto l’ambito spaziale della istituenda area, ma anche gli obiettivi che attraverso essa si intendono concretamente realizzare.

Un caso simile, ma dai tratti diversi, è quello del piano territoriale di coordinamento del Parco agricolo sud della Regione Lombardia, approvato in violazione del diritto dei soggetti interessati all’istituzione a presentare osservazioni e a vederle oggetto di analisi da parte dell’organo regionale competente, che aveva profondamente modificato le proposte dell’Assemblea dei sindaci, senza quella considerazione degli interessi locali in materia di sviluppo economico e sociale e alla collaborazione tra Regione ed enti locali prevista dalla normativa regionale in attuazione legge quadro nazionale; tra l’altro in questo caso sono stati ritenuti impugnabili gli atti amministrativi preparatori della legge regionale.

È importante sottolineare che, per arrivare alla predetta decisione, il T.A.R. ha qualificato l’attività procedimentale dell’amministrazione regionale non di natura legislativa, e quindi sottratta al sindacato del giudice amministrativo, bensì amministrativa endoprocedimentale ma con rilevanza esterna, e pertanto produttiva di effetti autonomi rispetto a quelli del provvedimento normativo finale, in grado di incidere su interessi legittimi di soggetti pubblici e privati come tali legittimati dunque  a ricorrere (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 8 ottobre 1997, n. 1738).

La sentenza è stata impugnata per conflitto di attribuzioni dalla Regione Lombardia avanti alla Corte Costituzionale, la quale ha deciso con sentenza 226/1999 che il procedimento di istituzione di un parco è bifasico, ha una prima parte amministrativa ed una seconda legislativa. La prima si compone dell’istruttoria dell’ente parco su cui la cui Giunta regionale interviene apportando modifiche con atti che rientrano nella competenza del giudice amministrativo, immediatamente lesivi per i singoli: i piani dei parchi regionali infatti sostituiscono i piani territoriali paesistici nei territori compresi nei parchi naturali, ed hanno la funzione non di solo coordinamento al fine di indirizzare le successive pianificazioni sottordinate – creando vincoli nei confronti delle amministrazioni locali come indirizzo nella pianificazione, ma comportano immediatamente e direttamente vincoli e limiti anche per i privati. La seconda fase invece, a partire dalla delibera di proposta della Giunta, è finalizzata esclusivamente alla presentazione del progetto di legge di approvazione, e non ha valore autonomo né comporta ulteriori effetti, ma è semplicemente preparatoria e strumentale rispetto alla iniziativa legislativa anzidetta. Ne consegue che gli atti della prima fase sono impugnabili avanti al giudice amministrativo, ma quelli della seconda fase no, per cui la pronuncia di annullamento del giudice amministrativo costituisce menomazione della sfera di attribuzione assegnata alla Regione con riferimento alla iniziativa legislativa ed al procedimento legislativo regionale.

Prime conclusioni.

Da queste sentenze possiamo trarre alcune importanti conclusioni, che proviamo a riassumere: (i) in materia ambientale “il giusto procedimento” deve essere garantito anche dagli atti legislativi, non solo dagli atti amministrativi, secondo la nota categoria delle “leggi provvedimento” che non possono essere utilizzate per eludere il rispetto vuoi di norme comunitarie che di principi costituzionali; (ii) il rispetto del modulo procedimentale risponde a esigenze di tipicità che limitano gli spazi della vasta discrezionalità del legislatore in materia di istituzione e estensione del parco, per garantire partecipazione effettiva, pubblicità della procedura e una forma di sindacato procedimentale sulla decisione nel suo fieri, perché la legge regionale è impugnabile solo dallo Stato, ma non dai privati; questi ultimi devono attendere l’emanazione del primo atto applicativo di rango amministrativo, e poi impugnarlo chiedendo al giudice che sollevi la questione di legittimità costituzionale della norma; (iii) sebbene “l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione” (art. 3 quater, comma 2 del Codice dell’Ambiente, d. lgs. 152/06), ciò non toglie che anche gli interessi privati concorrenti all’uso delle risorse naturali oggetto di protezione devono essere resi ostensibili attraverso procedure pubbliche, e presi in seria considerazione attraverso appunto forme di partecipazione tipizzate. Qui riecheggia la lezione di Cassese, che sottolinea l’importanza della predeterminazione delle modalità di azione della P.A., ma anche quella di Nigro, per cui occorre “identificare e valutare tutti gli interessi coinvolti, sicché la scelta risulti il frutto di una esatta e completa rappresentazione e ponderazione di tali interessi”; una scelta che non è imparziale, si badi bene, ma necessariamente “di parte”, posto che il decisore non è super partes, ma intra partes.

Lo scontro: invasioni di campo.

Ecco allora che siamo arrivati a trattare i contenuti della protezione propri dei parchi regionali.

Anche in questo ambito la Corte Costituzionale ha in più pronunce rispettivamente castigato tanto eccessi di tutela, invasivi delle competenze statali, quanto lacune e deroghe rispetto agli standard minimi di protezione degli ecosistemi regionali.

Per dare evidenza della prima ipotesi, che può sembrare curiosa (la fame antropica di risorse naturali di rado spinge le istituzioni ad ampliare le aree protette), significativo il caso del Parco Naturale Costa dei Trabocchi istituito dalla Regione Abruzzo con legge 38/2015 su un vasto tratto di mare prospiciente la costa. La Corte Costituzionale (sentenza 15 febbraio 2017 n. 36) ha affermato l’illegittimità della legge regionale, rilevando che la disciplina delle aree marine protette – dettata dalla legge n. 394 del 1991 e dalla legge n. 979 del 1982 − afferisce alla materia di competenza esclusiva statale «tutela dell’ambiente». L’inclusione nel parco regionale di tratti di mare prospicienti la costa per essere legittima deve essere una previsione marginale rispetto al territorio costiero protetto, a pena della violazione del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.

La legge quadro 394/91 infatti non prevede la figura del parco regionale marino, ma solamente la possibilità che tratti di mare prospicienti la costa vengano a far parte di parchi regionali costituiti da aree terrestri, fluviali e lacuali; quando il tratto di mare sia invece l’oggetto sostanziale della protezione, scatta la competenza del Ministro dell’ambiente, ed il ruolo centrale dello Stato anche nella fase di gestione e di regolamentazione, che corrisponde alla competenza esclusiva in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che comprende l’ambiente marino.

Al contrario, è stato deciso che invece ben può lo Stato istituire Parchi nazionali all’interno del territorio di una sola Regione, anche a Statuto speciale, come affermato dalla Corte Costituzionale (sentenza 23 gennaio 2009 n. 12) nel caso della creazione del Parco delle Egadi e del litorale trapanese, del Parco delle Eolie, del Parco dell’isola di Pantelleria e Parco degli Iblei in Sicilia.

Nello statuto speciale siciliano non si rinvengono, rileva la Corte, disposizioni che prevedono in tema di ambiente ed ecosistema, una disciplina derogatoria rispetto a quella stabilita, in via generale, dal secondo comma, lettera s), dell’art. 117 Cost. che vi correla la competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Tale competenza statale viene in rilievo perché attraverso l’istituzione di un’area protetta nazionale lo Stato non pone in essere una mera operazione di uso del territorio, di competenza regionale, ma dà vita a un sistema di protezione che riguarda i due concetti, ambiente ed ecosistema, non riconducibili a un’endiadi: col primo termine si fa riferimento a ciò che riguarda l’habitat degli esseri umani, con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della natura come valore in sé.  Nella legge quadro sui parchi è richiesto l’intervento dello Stato quando ciò, in un’ottica di sussidiarietà, è necessario ai fini della conservazione di un insieme di valori di varia caratura, per le generazioni presenti e future.

La disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale “primario” (sentenza n. 151 del 1986) ed “assoluto” (sentenza n. 641 del 1987), volta a garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderogabile dalle altre discipline di settore; tuttavia va rilevato come accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario possono coesistere altri beni giuridici aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi, altrettanto giuridicamente tutelati e spesso di competenza regionale: pesca, turismo, territorio, sanità, attività produttive.

Ecco perché si parla, in proposito, dell’ambiente come “materia trasversale”, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni» (Corte Costituzionale, sentenza n. 378 del 2007). In tali circostanze, quando si realizza un concorso di queste sfaccettature della materia, “la disciplina unitaria di tutela del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che riguardano l’utilizzazione dell’ambiente, e, quindi, altri interessi”, che sono ritenuti cedevoli.

Leggi provvedimento.

Un altro tema ricorrente negli arresti in argomento riguarda poi appunto l’uso della legge provvedimento, che spesso le Regioni utilizzano per dettare contenuti regolamentari in contrasto con i principi statali senza rischiare caducazioni dell’atto in sede di giurisdizione amministrativa: gli atti legislativi in Italia, dove non c’è il sindacato diffuso di costituzionalità, possono essere annullati solo dalla Corte Costituzionale.

Spesso allora le Regioni fanno ricorso alla legge-provvedimento, specie per consentire nelle aree protette attività vietate dalla legge quadro nazionale.

Al riguardo la Consulta da tempo, in particolare in materia di caccia, (ricalcando l’insegnamento già enucleato nei precedenti arresti n. 20 del 2012, n. 105 e n. 116 del 2012, n. 90 del 2013) afferma che quando il legislatore statale assegna natura tecnica all’attività regionale intende che si faccia uso del provvedimento amministrativo, e non già della legge-provvedimento, che è vietata.

Nel caso invece in cui sia possibile per la Regione scegliere tra i due strumenti, essa è comunque tenuta all’obbligo di congrua motivazione; detto obbligo sussiste anche in caso di atto regionale di natura normativa con contenuto tecnico, specie quando debba dar conto del rispetto della normativa comunitaria a monte (Corte Costituzionale, 22 luglio 2010, n. 266).

Inoltre tale motivazione, ad avviso di chi scrive, è necessaria e si impone anche per la dimostrazione dell’adeguatezza dell’atto rispetto ai canoni dell’azione ambientale e dell’azione sostenibile, imposti in via generale alla pubblica amministrazione dagli artt. 3 ter e 3 quater del d. lgs. 152/06, c.d. Codice dell’Ambiente.

Crossing over genetico.

Come dicevamo, il problema di questa presenza di aree protette in parte conformi al modello nazionale, da un lato – parchi naturali e riserve naturali – e in parte diverse in quanto peculiari ad ogni Regione dall’altro, è vero che contribuisce all’estensione di forme di tutela, anche più leggere di quella nazionale, a grandi aree di territorio che altrimenti resterebbero esposte a cementificazione e utilizzi senza freni ambientali; però crea spesso complicazioni ed equivoci procedurali, a cui deve dar risposta il giudice.

Ciò ha dato vita a una giurisprudenza euristica, manipolativa, che addiziona elementi dello schema nazionale ai modelli regionali, e viceversa, dando vita a una sorta di crossing over genetico, a una ricombinazione dei dna delle due tutele.

Significativo il caso di cui si è occupato il giudice amministrativo a proposito del modello lombardo (L.R. 86/83): nei parchi regionali lombardi diversi dal modello nazionale (parco naturale o riserva) non è previsto il nulla osta, inteso come autorizzazione preventiva resa dall’ente gestore per interventi, edilizi o di trasformazione in genere, che vanno vagliati nella loro compatibilità con la pianificazione del parco. Ora, un ente gestore, nel rivedere il proprio piano territoriale di coordinamento, aveva invece deciso di introdurre il nulla osta, ma la Regione, nell’approvare il piano, aveva eliminato tale previsione, oltre a cassare tutta una serie di limitazioni e vincoli all’uso delle risorse naturali che invece l’ente aveva delineato.

Sia in primo grado (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 24 febbraio 2015 n. 543) che in secondo grado (Consiglio di Stato, IV, 29 febbraio 2016 n. 817) è stato deciso come non risponda al criterio di razionalità attribuire ad un ente preposto alla tutela di valori ambientali poteri di pianificazione territoriale e poteri repressivi per poi negargli però la possibilità di accertare ex ante la conformità alla normativa da esso emanata degli interventi da realizzarsi sul suo territorio. Il giudice amministrativo ha così esteso il regime del nulla osta anche ai parchi regionali “customizzati”: “l’art. 13 della legge n. 394 del 1991 si applica anche ai parchi regionali istituiti in base alla legge della Regione Lombardia n. 86 del 1983 – anche se privi della qualifica di parco naturale ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) della stessa legge – posto che essi perseguono comunque finalità ambientalistiche e sono comunque dotati di poteri di pianificazione territoriale nonché di poteri repressivi. Peraltro, una volta riconosciuto al Parco il potere di autorizzare gli interventi edilizi da eseguirsi sul suo territorio, si deve anche riconoscere il potere consequenziale di dettare prescrizioni e di pretendere garanzie affinché queste ultime siano effettivamente osservate”.

Così, lungi dall’essere illegittima, la previsione del nulla-osta, quale atto preventivo esplicitante una positiva verifica di conformità, è stata ritenuta assai coerente con i principi dettati dalla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990) che regola i rapporti tra privato e P.A. nello svolgersi dell’attività procedimentale, in funzione di garanzia, imparzialità, efficienza ed efficacia: il nulla osta infatti rende immediatamente edotto colui che intende porre in essere una attività (in specie edilizia), della conformità o meno della medesima al piano del parco, evitando successivi interventi repressivi.

Per contro è stato ritenuto illegittimo vietare in una parco regionale, in via generale, tutta una serie di attività economiche e antropiche, dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, ad attività insalubri; ciò in quanto nel regime ordinario dei parchi regionali, intesi “quali zone […] organizzate in modo unitario, con preminente riguardo alle esigenze di protezione della natura e dell’ambiente e di uso culturale e ricreativo, nonché con riguardo allo sviluppo delle attività agricole, silvicole e pastorali e delle altre attività tradizionali atte a favorire la crescita economica, sociale e culturale delle comunità residenti” – e fatta eccezione per le zone a parco naturale che godono del massimo livello di protezione – nelle altre aree permane l’esigenza di tutela delle attività economiche, con divieto di introdurre limiti generalizzati per cave e altre forme di uso del territorio, per cui sono ci sono altri strumenti di vaglio.

E ancora, questa varietà di modelli e di intensità di tutele spesso dà vita a fughe eversive in avanti della Regione, che cerca di erodere le norme di protezione statali che si applicano a parchi naturali, riserve naturali e aree contigue regionali, aprendo varchi soprattutto alla caccia e all’attività cinegetica, come un apprendista stregone che sperimenta maliziosamente confidando nella disattenzione del maestro.

Talvolta la Presidenza del Consiglio dei ministri si scorda di impugnare questi ammutinamenti avanti alla Corte Costizionale, talora invece opera con decisione; come pure spesso le associazioni ambientaliste riescono a far sollevare la questione di legittimità costituzionale delle normative regionali da parte dei giudici aditi in contenziosi relativi agli atti applicativi delle normative regionali sediziose.

Da ciò un nutrito filone giurisprudenziale che ha di volta in volta cassato queste disposizioni regionali come incostituzionali: siano esse volte a consentire la caccia a soggetti da quelli residenti nelle aree contigue (la Liguria vi voleva fare accedere tutti i residenti negli ambiti di caccia che includevano le aree contigue, Corte Costituzionale 11 novembre 2010, n. 315); siano esse dirette a consentire attività vietate, generalmente la caccia, ma anche l’addestramento cani, o attività di produzione di energia.

A quest’ultimo riguardo la Corte costituzionale ha ribadito come la disciplina statale in materia di aree protette vuole apprestare una rigorosa protezione della natura all’interno delle aree destinate a parco e nelle riserve naturali, e, in concomitanza, mira a garantire standards minimi e uniformi di tutela della fauna nelle aree contigue mediante l’apposizione di limiti unificanti che rispondono a esigenze riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva dello Stato: finalità di queste norme non è il mantenimento della densità venatoria, ma la tutela di un’area che si dice protetta proprio perché la si vuole porre al riparo da tutta una serie di perturbazioni di origine antropica, che arrecano disturbo non solo alla componente faunistica prelevabile, ma a tutto l’ecosistema che è stato ritenuto meritevole di protezione nel suo insieme, secondo regole uniformi tra cui compare anche quella in esame, che alle zone contigue assicura importanti funzioni di filtro e tampone tra la biodiversità protetta e il caos esterno. “Il divieto di caccia» si legge nella sentenza, “è una delle finalità più rilevanti che giustificano l’istituzione di un’area protetta, poiché oggetto della caccia è la fauna selvatica, bene ambientale di notevole rilievo, la cui tutela rientra nella materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, che deve provvedervi assicurando un livello di tutela, non “minimo”, ma “adeguato e non riducibile” (cfr. anche Corte Costituzionale 23 maggio 2017 n. 74 quanto alla legge della Regione Abruzzo 11/2016 e 14 giugno 2017 n. 139, a proposito della legge della Regione Liguria 29/2015).

Resta salva solo la potestà della Regione di prescrivere, purché nell’esercizio di proprie autonome competenze legislative, unicamente livelli di tutela più elevati.

  1. Conclusioni finali.

In questo quadro la prospettiva è allora quella di comprendere se l’aver custodito oltre il 10 % del territorio italiano per oltre 3.000.000 di ettari, di cui oltre 1.500.000 di ettari generati da parchi e riserve regionali, e 50.000 protetti da forme regionali non riconducibili al modello statale, sia merito più dello Stato o della Regione, e se il modello nazionale abbia ancora appeal e tenuta. Ora, la storia recente pare dire di no.

Il Parco Nazionale dello Stelvio è stato di recente regionalizzato e diviso in parco lombardo da una parte, affidato alla Regione, e parte trentina e bolzanina affidate alle relative province autonome, con un comitato di coordinamento e di indirizzo che vede la presenza, oltre agli enti territoriali, anche di ISPRA, l’agenzia nazionale per l’ambiente, e delle associazioni ambientaliste; Regione Lombardia e le due Province autonome di Trento e Bolzano hanno poi regolato con legge la parte ricadente nel loro rispettivo territorio, con modelli diversi, ma funzionali alle rispettive visioni di sostenibilità partecipata.

E ancora, in questi giorni pare che il disegno di un parco nazionale del Delta del Po sia stato cancellato in favore di un ritorno a più parchi regionali.

Forse il motivo nobile (speculazioni a parte, che pure cercano di ridurre le tutele proprie del regime nazionale) ha a che fare con la codificazione del principio 22 della Dichiarazione di Rio, per cui “popolazioni e comunità indigene e le altre collettività locali hanno un ruolo vitale nella gestione dell’ambiente e nello sviluppo grazie alle loro conoscenze e pratiche tradizionali. Gli Stati dovranno riconoscere la loro identità, la loro cultura ed i loro interessi ed accordare ad esse tutto il sostegno necessario a consentire la loro efficace partecipazione alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile”. E’ la lezione nazionale dei territorialisti.

Ecco, la chiave di volta che rende i parchi regionali strumento di perseguimento degli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 è proprio forse la capacità di rendere identitaria e partecipata in chiave democratica la gestione e difesa delle risorse ecosistemiche, e di renderne visibili ai cittadini i vantaggi in termini di benefici di vasta portata e valore. Un valore non solo ideale, ma anche economico, come il capitale naturale e i pes sono in grado di dimostrare e di contabilizzare adeguatamente nelle scelte da operare quotidianamente nella sfida tra pressione antropica e risorse naturali. Certo, occorre mantenere fede al principio di conservazione secondo i gradienti dell’IUCN, e potrebbero essere le Regioni ad anticipare l’allineamento.

I parchi regionali appaiono allora il laboratorio sperimentale giuridico in cui diritti fondamentali e rispetto dei confini planetari (nel modello dell’economia della ciambella) possono coesistere.

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[1] I dati al 2016 ci dicono che il contenzioso in tema di ambiente è al 6° posto per numero di giudizi, con 52 vertenze; se però cumuliamo pianificazione del territorio, energia e valorizzazione dell’ambiente, i dati sommati portano al 1° posto il tema dell’uso del suolo e delle risorse, scalzando finanza pubblica e sistema fiscale. www.infodata.ilsole24ore.com/2016/08/29/stato-regioni-la-mappa-dei-ricorsi-alla-consulta/?refresh_ce=1

[2] Ordinanza 12 marzo 2008, n. 6525.

[3] Anche in precedenza l’art. 22 bis della L. 689/81, introdotto dal d. lgs. 507/99, aveva chiarito detto riparto; cfr. Cassazione civile, 14 giugno 2007 n. 13976.

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