di Federico Peres
L’individuazione dei precisi obblighi gravanti sul curatore fallimentare in materia ambientale è un tema molto dibattuto in giurisprudenza. L’articolo, una volta richiamati i fondamentali riferimenti normativi in materia di abbandono rifiuti e obbligo di bonifica (concetti diversi che però talvolta vengono sovrapposti), esamina l’evoluzione giurisprudenziale (amministrativa, civile e infine penale) intervenuta su questo tema specifico, per provare a trarre, al termine della disamina, alcune conclusioni.
- Premessa
Da tempo la giurisprudenza amministrativa (ma non mancano pronunce di quella civile e penale) si interroga sulle responsabilità ambientali del Curatore fallimentare, in particolare sugli obblighi di rimozione rifiuti e di bonifica[1]. Per questa ragione è opportuna una ricognizione storica della giurisprudenza che, senza operare un’esegesi delle singole pronunce, consenta di comprendere l’evoluzione storica degli orientamenti per provare cogliere un principio comune nelle diverse sentenze dei diversi giudicanti. Nel presente contributo, pertanto, dopo brevi considerazioni sulla detenzione (rilevante trattandosi, appunto, del Curatore fallimentare che non produce rifiuti, ma li detiene) si procederà ad esaminare dapprima la giurisprudenza amministrativa, poi civile e infine quella penale intervenute su questo tema specifico, per provare a trarre, al termine della disamina, alcune conclusioni.
- La detenzione
Ai sensi dell’art. 183 lett. f) del d.lgs. n. 152/2006 il “produttore” dei rifiuti è «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)». La lettera h) della medesima disposizione definisce come “detentore” «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso». Il detentore dei rifiuti è, quindi il produttore degli stessi e/o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso. Per comprendere la portata giuridica di questa disposizione è necessario riprendere la definizione di possesso (e di detenzione) fornita dal codice civile. Orbene, l’art. 1140 c.c. identifica il possesso come un potere sulla cosa (corpus) che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, accompagnata dall’animus rem sibi habendi[2]. Il possesso, dunque, è il potere (di fatto) sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale[3]. Invece, nel diverso caso della detenzione, il soggetto è sì in relazione materiale con il bene, ma non ha l’intenzione di farlo proprio, cioè di trasformare il rapporto di fatto in rapporto di diritto e questo perché ne riconosce l’altruità. Questo vale anche quando la detenzione è qualificata dal fatto che il soggetto detiene anche nel proprio interesse e non solo nell’interesse altrui[4]. Ciò premesso, la definizione di cui all’art. 183 del d.lgs. n. 152/2006 contiene l’esplicito riferimento al possesso; devono quindi sussistere i due elementi oggettivo e soggettivo di cui sopra: il primo è l’oggetto materiale (corpus) sul quale viene esercitata la situazione possessoria, il secondo, invece è rappresentato dall’intenzione con la quale la cosa viene tenuta (animus).
Con riferimento specifico ai rifiuti, in dottrina[5] si è sottolineato che la detenzione di un rifiuto, pur potendo coincidere con la produzione, non le è subordinata poiché la detenzione integra gli estremi di una situazione possessoria, cioè dell’esercizio di fatto del potere sulla cosa medesima. Il detentore di un rifiuto si pone con il rifiuto medesimo in un rapporto di signoria di fatto che, in quanto tale, prescinde ed è indipendente dal titolo giuridico sottostante. Proprio in ragione di tale indipendenza, il detentore è sempre responsabile del rifiuto che detiene. A questo punto, è fin troppo facile capire che chiunque entri in rapporto materiale con il rifiuto (produttore, trasportatore, recuperatore, smaltitore) ne è anche detentore. Non si può trattare dunque – secondo la richiamata dottrina – di una disponibilità occasionale, non voluta o non specifica, bensì di una detenzione qualificata.
Quanto al Curatore, come rilevato dalla sezione fallimentare del Tribunale di Milano[6], egli non è detentore qualificato dei rifiuti abbandonati (nello stesso senso anche il Consiglio di Stato, sent. n. 2724/2017). Più in generale, rispetto a tutti i beni del fallito, anche la Corte di Cassazione aveva già affermato che il fallimento non costituisce una causa interruttiva del possesso e ciò in quanto «la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni prevista dal R.D. n. 267 del 1942, art. 42, anche se comunemente definita spossessamento, comporta soltanto la presa in consegna dei beni medesimi da parte del curatore, che ne diviene detentore, e non la sottrazione al fallito ope legis del loro possesso»[7]. Escluso, dunque, che il Curatore detenga (corpus et animus) i rifiuti abbandonati dal fallito, esaminiamo le disposizioni rilevanti in tema di abbandono rifiuti e di bonifica, due situazioni diverse, nei fatti e nella disciplina, che però, talvolta, troviamo sovrapposte anche in giurisprudenza.
- La giurisprudenza amministrativa
Inizialmente la giurisprudenza amministrativa riteneva che il Curatore fosse legittimo destinatario di un’ordinanza di rimozione rifiuti in quanto «la dichiarazione del fallimento priva il fallito della disponibilità dei suoi beni, i quali passano nella massa fallimentare da gestire da parte della curatela» (T.A.R. Toscana, sent. n. 780/2000).
Tuttavia, solo un anno dopo lo stesso T.A.R. Toscana mutava radicalmente indirizzo e, dato atto che «i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non costituiscono “beni” da acquisire alla procedura fallimentare», dichiarava illegittimo l’ordine di rimozione impartito al Curatore (sent. n. 1318/2001).
Sempre nell’anno 2000 già si delineavano altri due orientamenti, o meglio due prospettive non necessariamente confliggenti, anzi complementari. La prima pose l’accento sull’aggravamento della situazione introducendo il concetto – che poi ritroveremo in pronunce recenti – della “univoca, autonoma e chiara responsabilità”. In questo senso il T.A.R. Milano (sent. n. 5374/2000) ritenne legittimo l’ordine di rimozione rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi impartito al Curatore «nella misura in cui tale degrado risulti aggravato da specifici episodi di sversamento di liquidi pericolosi successivi al fallimento, nonostante il curatore non sia stato autorizzato a proseguire l’attività produttiva, in ragione del dovere di custodia e vigilanza che incombe sul suo ufficio». Nella seconda prospettiva (destinata anche questa a diventare orientamento consolidato) la responsabilità del Curatore andava circoscritta ai rifiuti presenti e prodotti durante la gestione provvisoria (T.A.R. Liguria, sent. n. 1024/2000). Questa interpretazione fu presto confermata dal Consiglio di Stato secondo il quale «Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti. In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito. Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell’art. 1576 del codice civile, poiché l’obbligo di mantenimento della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo. Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l’attività precedentemente svolta dall’impresa fallita. Pertanto, l’obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti» (sent. n. 4328/2003).
Come detto, l’orientamento che vedeva il Curatore responsabile solo in caso di esercizio provvisorio si consolidò negli anni seguenti[8] e nel 2009 il Consiglio di Stato lo confermò ulteriormente in questi termini: «in tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell’attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell’ordine di bonifica» (sent. n. 3885/2009[9]).
Nello stesso senso troviamo anche il T.A.R. Salerno (sent. n. 11823/2010) che, seguendo il solco tracciato nel 2000 dal T.A.R. Milano (senza, dunque, espressamente invocare all’esercizio provvisorio), fece «salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull’abbandono dei rifiuti». La necessità di una univoca, autonoma e chiara responsabilità fu poi rimarcata anche da T.A.R. Liguria, sent. n. 3543/2010, T.A.R. Veneto, sent. n. 530/2012, T.A.R. Milano, sent. n. 1/2016 e n. 520/2017, T.A.R. Basilicata, sent. n. 293/2017, T.A.R. Emilia-Romagna, sent. n. 644/2017, T.R.G.A. Trento, sent. n. 173/2017 e n. 309/2017, T.A.R. Napoli, sent. n. 829/2018, T.A.R. Palermo, sent. n. 1764/2018.
In questo quadro già di per sé articolato, la giurisprudenza amministrativa si è interrogata anche sul subentro, vale a dire sul significato da attribuire all’art. 192, comma 4, del d.lg. n. 152 del 2006 secondo il quale: «Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni». Ebbene, il Consiglio di Stato (sent. n. 3274/2014), con ampia motivazione – ripresa poi da altre sentenze e della quale è dunque opportuno riprodurre un ampio stralcio – ha precisato che «il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42 R.D. n. 267/1942 “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”). Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”). Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, nè successore del fallito, ma terzo subentrante nell’amministrazione del suo patrimonio per l’esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926). Più ampiamente, la Suprema Corte (sez. I, 14 settembre 1991, n. 9605) ha difatti osservato quanto segue: “Il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorchè relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16-3- 1942 n. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”. Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa»[10]. Gli stralci di questa sentenza verranno testualmente ripresi dal T.A.R. Milano (sent. n. 520/2017; cfr. anche n. 427/2017) e dal T.R.G.A. Trento (sent. n. 93/2017).
Nonostante quest’orientamento fosse ormai pressoché consolidato, due pronunce (T.A.R. Brescia 2016 e Consiglio di Stato 2017) andarono in direzione opposta, dilatando il concetto di “detenzione” nei seguenti termini: «In base al diritto comunitario (v. art. 14 par. 1 della Dir. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale, o dai detentori del momento, o dai detentori precedenti dei rifiuti. Questo costituisce un’applicazione del principio “chi inquina paga” (v. anche il considerando n. 1 della Dir. 2008/98/CE). In altri termini, la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un’obbligazione comunitaria avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i rifiuti; (b) l’obbligo di smaltire gli stessi. Se per effetto di categorie giuridiche interne questa obbligazione non fosse eseguibile, l’effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato (v. C. Giust. Sez. IV 3 ottobre 2013 C-113/12, Brady, punti 74-75). Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi sono collocati, può invocare l’esimente interna dell’art. 192 comma 3 del Dlgs. 152/2006. La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi di tale norma, lasciando abbandonati i rifiuti» (T.A.R. Brescia, sent. n. 669/2016).
Allo stesso modo, come detto, anche il Consiglio di Stato affermò che «La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’art. 192 cit., lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti secondo il diritto comunitario, la curatela fallimentare è obbligata a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero» (sent. n. 3672/2017)[11].
Solo un anno dopo il T.A.R. Brescia (sent. n. 38) tornava però all’orientamento prevalente precisando che «in sede di applicazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull’abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa».
Lo stesso fece anche il Consiglio di Stato: «Se non è individuata una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore, infatti, non sostituisce il fallito dato che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa fallita» (sent. n. 5668/2017)[12].
Nella giustizia amministrativa l’orientamento prevalente di cui si è dato conto ha, dunque, ripreso a consolidarsi. Tra le più recenti pronunce in questo senso si segnalano le sentenze n. 56/2018 del T.R.G.A. Trento e n. 1764/2018 del T.A.R. Catania contenenti, entrambe, numerosi richiami alla giurisprudenza amministrativa, civile e penale citata nel presente contributo. L’ultima sentenza richiamata impone però di dare conto del contrasto che, allo stato, sembra permanere per quanto riguarda l’amianto (su quale si veda anche la Cassazione penale al paragrafo 4). Ed invero, nel 2015 il T.A.R. Friuli-Venezia Giulia si era espresso in questi termini: «Il principio “chi inquina paga” dedotto dal ricorrente non è applicabile nel caso della materia “amianto” perché non si tratta di individuare il responsabile dell’inquinamento ma di intervenire con urgenza a tutela della salute pubblica con obblighi a carico dell’attuale detentore, anche se è il curatore fallimentare. Se nel caso di inquinamento del suolo e/o delle falde prodotto da complessi industriali in seguito dismessi o ceduti ad altri imprenditori e riconvertiti o entrati a far parte di procedure concorsuali è applicabile il principio “chi inquina paga” a condizione, ovviamente, che si dimostri che l’inquinamento è stato provocato dal precedente gestore dell’impianto, nel caso dell’amianto la legge 257/1992 impone sorveglianza continua a tutela della salute e obbliga passivamente il soggetto che detiene il bene nel momento in cui si verificano le condizioni per l’applicazione della normativa speciale» (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sent. n. 441/2015). Più o meno nello stesso senso è la recente sentenza n. 562/2018 del T.A.R. Piemonte che ha confermato la validità di un’ordinanza di rimozione di rifiuti contenenti amianto impartita al Curatore fallimentare non già ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, bensì quale ordinanza contingibile ed urgente ex art. 50 d.lgs. n. 267/2000. Anche nella predetta recente sentenza del T.A.R. Catania si discuteva di amianto e la conclusione fu nel senso di dichiarare illegittima l’ordinanza sindacale di rimozione emessa (esclusivamente) ai sensi dell’art. 192.
- La giurisprudenza civile
In sede civile le sentenze sono meno numerose ed è più difficile individuare un vero e proprio orientamento. La prima pronuncia reperita risale al 1993; la normativa allora vigente era il D.P.R. n. 915/1982. La sentenza è perentoria: «Nel caso del fallimento di una società spetta al sindaco, in qualità di ufficiale di governo, e non al curatore, provvedere allo smaltimento dei rifiuti tossici o speciali rivenuti nel patrimonio fallimentare; di conseguenza il curatore può ottenere in via d’urgenza il provvedimento con cui si ordini al sindaco di smaltire i suddetti rifiuti» (Tribunale Lucca 5 novembre 1993).
Sempre in ambito fallimentare va richiamato anche il Tribunale di Mantova: «il curatore fallimentare non può considerarsi destinatario dell’obbligo di ripristino ambientale dell’area occupata dalla società fallita non essendogli addebitabile alcun comportamento colposo nell’abbandono dei rifiuti. L’obbligazione derivante dalla necessità di bonificare tale area deve pertanto considerarsi concorsuale e sarà l’ente pubblico a dover provvedere all’esecuzione della stessa salvo poi il diritto di chiedere l’insinuazione al passivo secondo gli art. 93 e 101 l.f.» (6 marzo 2003).
Più recentemente la Corte di Cassazione è intervenuta specificamente sulla prededuzione del credito relativo alle spese di bonifica sostenute dal commissario: «In materia ambientale, chi subentra nella proprietà o nel possesso di un sito contaminato (nella specie immobile sul quale era svolta attività produttiva poi risultata gravemente contaminatoria), ma non è responsabile della violazione, subentra anche negli obblighi connessi all’onere reale di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, ed è tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica, se intende evitare che le spese sostenute per detti interventi realizzati eventualmente d’ufficio dal Comune o dalla Regione qualora i responsabili non provvedano o non siano individuabili siano assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, privilegio esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile. La bonifica del sito effettuata dal commissario consente di escludere che gli immobili acquisiti alla massa vengano alienati – in sede di liquidazione dell’attivo – gravati da tale onere reale, rendendo prededucibile il “credito da bonifica”. Infatti il credito per le spese di bonifica di un sito contaminato si qualifica come prededucibile, purché tali costi avvantaggino gli immobili acquisiti alla massa. Infatti, ai fini della prededucibilità dei crediti nel fallimento, il necessario collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale, menzionato dall’art. 111 L. Fall., va inteso non solo con riferimento al nesso tra l’insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri negli interessi della massa e risponda, dunque, agli scopi della procedura medesima, in quanto utile alla gestione fallimentare. Ed invero, la prededuzione attua un meccanismo satisfattorio, volto a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma anche tutte quelle che interferiscono con l’amministrazione fallimentare ed influiscono sugli interessi dell’intero ceto creditorio» (sent. n. 5705/2013).
Ancora in ambito fallimentare, il già richiamato decreto del Tribunale di Milano, sezione fallimentare, ha chiarito il concetto di “detentore”, correttamente arricchendolo con l’aggettivo “qualificato”. Questa pronuncia si allinea all’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa e “risponde” alla tesi minoritaria sostenuta (ma poi abbandonata) dal T.A.R. Brescia (sent. n. 669/2016) e dal Consiglio di Stato (sent. n. 3672/2017): «Il curatore del fallimento non può ritenersi né produttore, ancorché come avente causa del fallito, né detentore qualificato (in caso di mancata inventariazione o abbandono dei rifiuti) a termini dell’art. 188 TUA. La responsabilità e il conseguente costo della bonifica dell’area inquinata non può ricadere sugli incolpevoli creditori (e sul curatore che ne rappresenta gli interessi), i quali non hanno concorso alla produzione dei rifiuti e al conseguente inquinamento e, quindi, non possono farsi carico dell’interesse della collettività al loro trattamento e smaltimento» (decreto 8 giugno 2017 richiamato in nota n. 4).
Infine è opportuno ricordare che anche la giurisprudenza amministrativa aveva espressamente dato conto della possibilità, per la Pubblica Amministrazione, di insinuarsi nel passivo fallimentare per recuperare le spese sostenute per lo smaltimento dei rifiuti: «in tale evenienza la p.a. competente può procedere all’esecuzione d’ufficio in danno degli eventuali soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate mediante insinuazione del credito al passivo del fallimento» (T.A.R. Milano, sent. n. 1159/2005). Nello stesso senso: «Peraltro, quando (come nella fattispecie per cui è causa) è il fallito ad aver prodotto i rifiuti e cagionato un danno all’ambiente, sullo stesso grava l’onere per il relativo smaltimento, da soddisfare, come già esposto, con l’insinuazione al passivo fallimentare del credito sorto in capo alla P.A. che ha anticipato le relative spese» (T.A.R. Toscana, sent. n. 137/2011).
- La giurisprudenza penale
L’aggravarsi delle condizioni dei fabbricati contenenti amianto in costanza di fallimento è l’oggetto della sentenza n. 37282/2008 della Sezione III penale della Corte di Cassazione così massimata: «In caso di emissioni in atmosfera prodotte da attività non autorizzate, per la configurabilità del reato di cui all’art. 674 c.p. non occorre verificare il superamento dei limiti di legge, ma è sufficiente accertare la semplice idoneità delle emissioni a creare molestia alle persone (nella fattispecie di trattava di dispersione nell’ambiente di fibre di amianto quale conseguenza del negligente abbandono agli agenti atmosferici in cui la curatela fallimentare aveva lasciato i capannoni industriali contenenti amianto)».
Nella motivazione si legge: «La norma incriminatrice invero, sanziona penalmente l’abbandono o il deposito incontrollato di rifiuti solo se imputabile ai ‘titolari di impresa” o ai “responsabili di enti”, perché fa carico a questi soggetti di un qualificato ruolo di responsabilità nella gestione dei rifiuti connessi alla loro attività, riservando invece ai soggetti “comuni” un carico di responsabilità minore, presidiato da una semplice sanzione amministrativa ex art. 255 D.Lgs. 152/2006. Ma quando l’impresa sia dichiarata fallita — ad avviso di questo collegio — la responsabilità del suo titolare si trasferisce sul curatore fallimentare, che da una parte è pubblico ufficiale e dall’altra ha il compito di amministrare il patrimonio dell’impresa in sostituzione del suo titolare (ex artt. 30 e 31 Legge fallimentare). Si tratta non già di estensione analogica, ma di interpretazione teleologica della norma incriminatrice, secondo la quale, nella soggetta materia, il ruolo del curatore non può ridursi a quello di soggetto “comune”. Del resto, non sembra estranea a questa logica la recente affermazione delle Sezioni unite di questa Corte, secondo la quale la curatela fallimentare non è “terzo estraneo al reato” ai fini di cui all’art. 240, comma 3, c.p. (Sez. Un. n. 29951 del 24.5.2004, Cur. fall. in proc. Focarelli, rv. 228164). Per queste ragioni, da una parte non può negarsi l’astratta ricorribilità del contestato reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006, dall’altra non può affermarsi la sua estinzione per decorso del termine di prescrizione». La sentenza così conclude: «Nel caso di specie, il giudice cautelare, con motivazione incensurabile in questa sede, ha ritenuto che lo spossessamento dell’impresa per effetto del fallimento era inidonea a scongiurare la protrazione o la reiterazione del reato, considerato che l’abbandono dei rifiuti pericolosi continuava ad accrescersi anche in costanza di fallimento, per il perdurante sfaldamento delle coperture in eternit, che erano in stato di abbandono ormai da oltre vent’anni». Sui rifiuti contenenti amianto vanno richiamate le pronunce del giudice amministrativo riportate in chiusura del paragrafo 2.
- Conclusioni
L’esame della giurisprudenza amministrativa, civile e penale, pur muovendo, logicamente, da presupposti diversi, mette in evidenza un orientamento prevalente in forza del quale il Curatore non è tenuto allo smaltimento dei rifiuti prodotti dalla impresa fallita o alla bonifica delle matrici ambientali contaminate dalla pregressa attività produttiva, fatta eccezione per il caso di prosecuzione dell’esercizio provvisorio. Tuttavia, il Curatore non potrà dirsi esente da oneri se collegati ad una sua responsabilità chiara, autonoma ed esclusiva che può pertanto verificarsi in caso di aggravamento della situazione ambientale spesso legato ad un suo comportamento omissivo colposo.
[1] Sul tema F. Peres, La responsabilità del curatore per l’abbandono dei rifiuti prodotti dall’impresa fallita, in questa Rivista, 1, 2009, p. 180; V. Vitiello, Obblighi di bonifica e fallimento dell’inquinatore, in questa Rivista, 2014, p. 758B; F. Vanetti – C. Fischetti, Cambio di rotta: il curatore fallimentare è obbligato a rimuovere i rifiuti abbandonati dal fallito, in questa Rivista, 4, 2017, p. 726; F. Vanetti, Conflitto giurisprudenziale sugli obblighi del curatore per l’abbandono di rifiuti, in questa Rivista, 1, 2018, p. 158.
[2] Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane (Napoli, 2011), cap. XVI. pag. 225.
[3] Gazzoni cap. V. 9 pag. 67
[4] Gazzoni cap. V. 9 pag. 68
[5] P. Ficco, Rifiuti-Bollettino di informazione normativa, n. 144 – 10/07
[6] Decreto 8 giugno 2017.
[7] Sentenza 4 settembre 2015 n. 17605.
[8] T.A.R. Abruzzo, sent. n. 1393/2004, T.A.R. Catania, sent. n. 398/2005, T.A.R. Latina, sent. n. 304/2005, T.A.R. Milano, sent. n. 1159/2005.
[9] Hanno insistito sull’esercizio provvisorio quale elemento discriminante anche il Consiglio di Stato, sent. n. 3765/2009, il T.A.R. Toscana, sent. n. 663/2009 e n. 137/2011 e il T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, sent. n. 385/2012.
[10] Si veda, per un approfondimento, il commento a sentenza di F. Aprile, Amministrazione del patrimonio del fallito e obblighi del curatore in materia di ripristino ambientale, in Il Fallimento, 4, 2015, pp. 491-495.
[11] Si veda il commento di F. Vanetti – C. Fischetti, Cambio di rotta: il curatore fallimentare è obbligato a rimuovere i rifiuti abbandonati dal fallito, in questa Rivista, 4, 2017, p. 726.
[12] L. D’Orazio, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo, in Il Fallimento, 5, 2018, pp.586-681; F. Vanetti, Conflitto giurisprudenziale sugli obblighi del curatore per l’abbandono di rifiuti, in questa Rivista, 1, 2018, p. 158.