Fanghi e agricoltura

27 Lug 2021 | articoli, contributi

di Enrico Fedrighini

Grazie ai Carabinieri Forestali di Brescia, è stata ricostruita un’intera filiera dei terreni agricoli in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna dove un’impresa bresciana, Omissis, ha sparso fra il 2018 e il 2019 150.000 tonnellate di gessi di defecazione prodotti da fanghi contaminati da scarti industriali, spacciandoli per fertilizzanti. Sono coinvolti 78 comuni e 176 aziende agricole del Nord Italia. Omissis, fondata nel 1997, si occupa di smaltimento dei fanghi da trattamento delle acque reflue urbane e industriali, unitamente alla produzione di fertilizzanti, ammendanti, concimi e mangimi per l’agricoltura.

Per bonificare questi terreni – parliamo di una superficie complessiva di 3000 ettari di campi – occorrerà anzitutto analizzare il suolo per avere un quadro puntuale dei valori di contaminazione; nel peggiore dei casi andrebbero rimossi i primi 30 cm di terreno contaminato (arato e fertilizzato), pari a 10 milioni di metri cubi: un intervento per il quale non basterebbero certamente i 12 milioni di euro preventivamente sequestrati alla Omissis. “Dalle tabelle emergono dati impressionanti” scrive il gip nella sua ordinanza che ha portato lo scorso 24 maggio 2021 al sequestro degli impianti. “Nei campioni dei gessi in uscita dall’azienda e in spargimento, le sostanze inquinanti (fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco, fenolo, metilfenolo e altri) erano decine, se non addirittura centinaia di volte superiori ai parametri di legge“.

I fanghi prodotti da impianti pubblici e privati di depurazione delle acque reflue urbane e industriali sono un rifiuto ai sensi di legge; i gessi di defecazione no: sono un ammendante agricolo. Il ritiro di fanghi da impianti urbani e industriali è un’attività molto ben remunerata, perché questa tipologia di rifiuto va sottoposta a trattatamento con procedimenti chimico-fisici particolarmente onerosi, al fine di garantirne l’igienizzazione, smaltimento ed un eventuale riutilizzo. Dai fanghi civili di depurazione è possibile per legge produrre correttivi ad uso agricolo (Allegato 3 del D. Lgs n.75/2010) come gessi e carbonati di defecazione, mediante trattamento con cloruro ferrico, calce viva e infine acido solforico (per gessi di defecazione) oppure diossido di carboni (per produrre carbonato di calcio, ovvero calcare). L’inchiesta ha rivelato che l’impresa, per massimizzare i profitti, non sottoponeva i fanghi contaminati al trattamento necessario e anzi venivano aggiunti ulteriori inquinanti, come l’acido solforico derivante dal recupero di batterie esauste.

Da questa vicenda – che riproduce nella valle del Po dinamiche da Terra dei Fuochi – emergono diverse questioni da approfondire per tentare di rispondere a due domande fondamentali: come è potuto accadere? Come uscirne?

Per rispondere alla prima domanda, lasciando da parte ciò che è materia di procedimento giudiziario, cerchiamo di capire il contesto politico, giuridico e ambientale che ha reso possibile tutto ciò.

Questi gessi di defecazione prodotti da questo tipo di fanghi producono un pesante impatto olfattivo nell’ambiente circostante; da molto tempo cittadini e comitati segnalavo ad Arpa e a Regione questo problema, ma nulla si è mai mosso fino all’arrivo dei Carabinieri Forestali. Perché non sono stati fatti controlli? E gli operatori delle aziende agricole che hanno utilizzato questi gessi di defecazione accettando proposte talmente convenienti da essere fuori mercato (fornitura dei fanghi con aratura gratuita del terreno!) come è possibile che, oltre a beneficiare dell’incongruenza economica dell’offerta, non si siano accorti delle micidiali esalazioni prodotte da questi fanghi che da tempo provocavano proteste da parte di abitanti e comitati vari?

Come è possibile che in una materia così delicata per l’ambiente, l’ecosistema, la tutela della salute pubblica e della sicurezza alimentare, debbano essere i Carabinieri Forestali ad intervenire per controllare e capire che qualcosa non torna?

Nel 2017 la Cassazione, confermando la natura di rifiuto dei fanghi contenenti idrocarburi ed altre sostanze derivate da lavorazioni industriali, sentenziava l’applicabilità per queste sostanze delle norme previste dal vigente Testo Unico in materia ambientale, indicando quindi la quantità massima consentita di idrocarburi nei fanghi di depurazione per l’agricoltura pari a 50 mg/kg.

Allo scopo di neutralizzare questa sentenza, l’11 settembre 2017 la Giunta della Regione Lombardia (la stessa che dopo l’inchiesta WTE ha proposto la tracciabilità dei fanghi), con delibera n. 7076, indicava nuovi parametri e limiti di concentrazione per idrocarburi (C10-C40) e fenoli per autorizzarne lo spandimento nei terreni agricoli, aumentando le concentrazioni ammesse di idrocarburi di ben 200 volte (da 50 mg/Kg a 10.000 mg/Kg) rispetto alle norme richiamate dalla Cassazione.

Contro questa delibera, circa 50 sindaci di altrettanti comuni del Lodigiano e del Pavese ricorrevano al Tar Lombardia: un terreno dove vengono scaricati fanghi con idrocarburi in concentrazione superiore ai 500 mg/kg non può essere più considerato un terreno agricolo, bensì una discarica di rifiuti industriali. E infatti il 20 luglio 2018 il Tar Lombardia accoglieva il ricorso e annullava la delibera regionale rimandando ai limiti richiamati dalla Cassazione, previsti dall’allegato 5 al titolo V della parte Quarta.

Esplodeva, a quel punto, in Lombardia − che riceve ed impiega in agricoltura circa il 40% dei fanghi in questione prodotti a livello nazionale – la cosiddetta “emergenza fanghi” dato che il limite di 50 mg/kg indicato da Cassazione e Tar Lombardia non consentiva più lo smaltimento nei campi coltivati di circa 3000 tonnellate di fanghi di depurazione alla settimana.

Arriviamo così al DL 109/2018, il “Decreto Genova” nato per fronteggiare il disastro del Pinte Morandi; l’art. 41, intitolato “Disposizioni urgenti sulla gestione dei fanghi di depurazione”, dispone che “Al fine di superare situazioni di criticità nella gestione dei fanghi di depurazione…vale per gli idrocarburi (C10-C40) il limite di 1.000 (mg/kg tal quale), aumentando così di 20 volte il limite (50 mg/kg) indicato da Cassazione e Tar Lombardia, ed ampliando i limiti anche di altre sostanze pericolose e potenzialmente cancerogene come diossine, furani, PCB, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), toluene, selenio, berillio, arsenico, cromo.

In sintesi, quando è successo è il risultato di forti pressioni economiche che hanno spinto la politica, in spregio ad ogni principio di precauzione, ad abbassare le soglie di tutela stabilite dalla Cassazione senza peraltro aumentare il sistema dei controlli sul territorio.

Seconda domanda: come uscirne?

A parte una revisione delle soglie in senso precauzionale ed un aumento dei controlli preventivi da parte di Arpa, esistono percorsi paralleli che, indipendentemente dal quadro normativo, possono migliorare e cambiare, rapidamente ed efficacemente, il sistema di produzione primaria.

Milano è il secondo comune agricolo italiano, con i suoi 2.900 ettari coltivati su 18mila di superficie totale! Realizzare qualcosa di nuovo qui, può avviare cambiamenti a catena nell’intero sistema.

Nel concreto: sviluppare un progetto di agricoltura urbana di prossimità dentro i confini comunali, in linea con gli indirizzi che arrivano dall’Unione Europea, per integrare in una logica di economia circolare la difesa del suolo e delle acque, sicurezza alimentare, biodiversità, nuova occupazione, produzione a km zero, integrazione dell’attività primaria nel sistema dei parchi metropolitani, rapporto diretto produttore-consumatore. Rendere economicamente e socialmente conveniente un nuovo modello di produzione primaria, oggi ancora troppo legata alle sovvenzioni a fondo perduto e ad un basso livello occupazionale (i fitofarmaci rimpiazzano gli agricoltori, come ai tempi di Tommaso Moro “le pecore mangiano gli uomini”).

In piccolo, nel Municipio 8 di Milano, sono già stati sperimentati da due anni orti urbani biologici a Milano: un successo straordinario. Ora è arrivato il momento di fare un salto in avanti, per dimensione e impatto economico/ambientale: un grande progetto di agroecologia urbana su terreni comunali per produrre cibo migliorando l’ambiente, il lavoro e i consumi alimentari, in un’area a portata di fermata metropolitana.

Nelle principali riviste di urbanistica si narra della “rivoluzione agricola” di Detroit che ha creato 8000 mq di orti urbani, e di Parigi dove sul tetto del Parc des Expositions è stata avviata un’azienda agricola da 14.000 mq. presentata come la “più grande azienda agricola urbana del mondo”. Milano ha recentemente acquistato 500.000 mq di aree agricole in ambito urbano, a dieci minuti dalla fermata metropolitana Bonola. La città è il luogo del cambiamento. Bisogna crederci e lavorare in tal senso.

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Fanghi agricoltura luglio 2021

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