End of waste e sottoprodotti: l’onere della prova nell’epoca dell’economia circolare

03 Gen 2023 | articoli, contributi, in evidenza 4

di Roberto Losengo

Il contributo riporta gli spunti trattati dall’autore quale Coordinatore del gruppo di lavoro Sottoprodotto ed End of Waste: requisiti e onere probatorio nella casistica giurisprudenziale” – Scuola Superiore della Magistratura – “Sostenibilità e diritto” – Napoli, 27 settembre 2022

Costituisce principio consolidato della giurisprudenza comunitaria (e, conseguentemente, lo stesso è costantemente recepito da quella nazionale) quello per cui “la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo” (tra le decisioni più note, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. 15 giugno 2000, cause n. 418/97 e n. 419/97, Arco Chemie Nederland; sent. 18 aprile 2002, causa n. 9/00, Palin Granit Oy).

Tale assunto si fonda sulla considerazione secondo cui, ai sensi dell’art. 174, comma 2 Trattato CE, la politica dell’Unione in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela, ed è fondata, in particolare, sui principi di precauzione e di azione preventiva (nonché su quello di correzione e sul “chi inquina paga”); principi che, come noto, a livello interno sono richiamati all’art. 178 D.Lgs. n. 152/2006 (Testo Unico Ambientale, di seguito “T.U.A.”) in materia di rifiuti.

Nell’interpretazione giurisprudenziale, l’osservanza di tali caposaldi fa sì che le norme che dispongono deroghe alla disciplina dei rifiuti o determinano la cessazione della relativa qualifica (attualmente, in particolare, gli artt. 184 bis e 184 ter T.U.A.  in materia di sottoprodotti ed end of waste) siano – di converso – interpretate in termini strettamente restrittivi, ponendo a carico del soggetto che intenda far valere le relative disposizioni un rigoroso onere della prova.

Come si vedrà nella rassegna delle decisioni di legittimità dell’ultimo quinquennio, tale orientamento appare pressoché monolitico, anche rispetto a situazioni che, in relazione al caso di specie che può desumersi dall’esame delle singole decisioni, parrebbero piuttosto controverse in punto di classificazione dei materiali oggetto di causa come rifiuto o non rifiuto (o come c.d. rifiuto cessato).

A fronte di tale lettura (e nel senso di una possibile rivisitazione) si pone tuttavia l’esigenza di valorizzare l’ulteriore principio che sta informando l’intera concezione dello sviluppo e della prodizione: quello dell’economia circolare.

Il principio, che caratterizza l’azione governativa in materia ambientale dell’Unione Europea, ha trovato espresso recepimento nel nostro ordinamento ad opera del D.Lgs. n. 116/2020, adottato in attuazione delle Direttive UE n. 2018/251 e n. 2018/252[1].

L’attuale art. 177 T.U.A., modificato appunto dalla riforma del 2020, prevede ora che la disciplina della gestione dei rifiuti debba prevedere “misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, evitando o riducendo la produzione di rifiuti, riducendo gli impatti complessivi dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia e l’efficienza che costituiscono elementi fondamentali per il passaggio ad un’economia circolare”.

Ci si chiede pertanto se, alla luce di tale essenziale principio, non meriti una rilettura (o meglio, una chiave di interpretazione attualizzata) l’assunto in base al quale l’elevato livello di tutela ambientale che si prefigge la politica unionale debba necessariamente implicare, in termini assoluti, che la nozione di rifiuto non possa essere applicata in senso restrittivo.

A scanso di equivoci: non si intende in alcun modo prospettare che la disciplina in materia di rifiuti debba essere “lassista” e consentire la tolleranza di condotte pregiudizievoli per l’ambiente e per le persone.

Al contrario, proprio nel rispetto dei principi che improntano la normativa europea, si intende evidenziare la “pari dignità” di quelle disposizioni, specificamente contemplate dalle stesse Direttive del 2018, che valorizzano quale obiettivo primario, “per promuovere l’utilizzo sostenibile delle risorse”, il riconoscimento dei processi che generano sottoprodotti e di quelli che determinano la cessazione della qualifica di rifiuto (cfr. considerando n. 16 e 17 Direttiva n. 2018/851).

In altri e più chiari termini: una corretta ed equilibrata applicazione del principio di economia circolare comporta necessariamente che, nel rispetto delle regole tecniche di riferimento, la generazione di sottoprodotti (anziché di rifiuti) nei cicli industriali e la produzione di nuove materie prime con la cessazione della qualifica di rifiuto debba essere vista in ottica di favore, nonostante (ed anzi proprio in quanto) tali disposizioni limitano l’ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti.

Alla luce di questo necessario bilanciamento (ma forse è più corretto parlare di compresenza) tra principi in materia ambientale, l’esame della giurisprudenza in materia di sottoprodotto ed end of waste delinea, invece, un apparente quadro di “sfavore” verso le norme che, in quanto derogatorie alla disciplina dei rifiuti (comportandone l’esclusione o la cessazione del relativo status), talvolta sembrano quasi viste come “nemiche” della tutela ambientale, anziché come concreta opportunità di ulteriore valorizzazione della risorsa.

Vero è che il panorama offerto dalla casistica di legittimità (che per la maggior parte, peraltro, concerne procedimenti cautelari) è estremamente variabile: in non poche vicende, infatti, emerge in tutta chiarezza come la pretesa gestione di un residuo di produzione come sottoprodotto sia del tutto priva di fondamento e meramente strumentale ad eludere obblighi ed oneri economici; in taluni altri, tuttavia (ed in base alla limitata conoscenza che consegue all’illustrazione della causa e dei motivi di ricorso) le prospettazioni circa  la sussistenza dei requisiti ex art. 184 bis o art. 184 ter D.Lgs. n. 152/2006 si appalesano meno peregrini.

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Di seguito, si riportano, in estrema sintesi, le principali sentenze pubblicate nell’ultimo quinquennio, richiamando brevemente la vicenda sottesa e gli esiti del giudizio, così da avere una panoramica sull’orientamento assunto dalla Corte di Cassazione (che, nei casi qui elencati, si è sempre espressa in senso negativo rispetto alla sussistenza delle condizioni legittimanti la classificazione di un residuo di produzione quale sottoprodotto o la cessazione della qualifica di rifiuto, rimarcando, in più occasioni, il mancato soddisfacimento dell’onere della prova in capo al ricorrente).

Cass. pen., Sez. III, 14 ottobre 2022, n. 38864

La ricorrente impugnava la sentenza del Tribunale con cui era stata condannata alla pena dell’ammenda per il reato di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, avendo depositato in assenza di autorizzazione nel sito della società di cui era rappresentante, rifiuti consistenti in terre e rocce da scavo e inerti da demolizione.

Per quanto qui interessa, la Corte ha rigettato il motivo di ricorso relativo alle terre e rocce da scavo (che risultavano utilizzate in un sito diverso da quello comunicato agli Enti amministrativi) richiamando la consolidata giurisprudenza in forza del quale l’applicazione della disciplina dei sottoprodotti – in sentenza di si fa richiamo alla previgente disciplina dell’art. 186 T.U.A. – è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura derogatoria ed eccezionale rispetto a quella ordinaria.

Cass. pen., Sez. III, 27 settembre 2022, n. 36555

La vicenda concerneva il ricorso avverso la decisione del Tribunale del riesame con cui era stato confermato il sequestro preventivo di un’area privata sulla quale erano depositati scarti della lavorazione di lapidei ed altri materiali, impiegati per il rimodellamento del terreno, precedentemente escavato (fattispecie ex art. 256 commi 1, 2 e 3 T.U.A.)

Il ricorrente lamentava che non fosse stata adeguatamente considerata la classificazione dei materiali lapidei come sottoprodotti, in quanto essi costituivano un residuo della lavorazione della pietra (di cui non erano il risultato principale del processo di produzione) e ne era certo il loro riutilizzo nell’ambito di un progetto unitario di riqualificazione industriale, senza necessità di attività di trattamento diverse dalla normale pratica industriale di riferimento (consistente nella frantumazione e riduzione volumetrica degli sfridi lapidei).

La Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso, ritenendo carente la prova della certezza del riutilizzo (in mancanza di un piano di caratterizzazione ed in ragione del mero accumulo sul terreno di tali residui), escludendo pertanto che i materiali potessero essere qualificati come sottoprodotti, a prescindere dall’indagine in ordine al carattere delle operazioni cui sottoporli per il loro reimpiego.

Cass. pen., Sez. III, 28 marzo 2022, n. 11065

Il ricorrente impugnava la sentenza della Corte d’Appello a conferma della decisione di primo grado con cui era stata emessa condanna per il reato di deposito incontrollato di rifiuti (art. 256, comma 2, T.U.A.) in relazione all’abbandono di vari rifiuti speciali (rottami ferrosi, ceneri da combustione, imballaggi metallici) nell’area adiacente al capannone in cui veniva svolta attività di impresa.

Il ricorso, che prospettava una possibilità di riutilizzo dei materiali (ad eccezione delle ceneri) veniva dichiarato manifestamente infondato, in quanto le modalità di deposito casuale e disordinato e l’assenza di qualsiasi prova circa una destinazione al riutilizzo rendevano insussistenti i requisiti per qualificare i materiali come sottoprodotti.

Cass. pen., Sez. III, 7 marzo 2022, n. 8088

Il ricorso concerneva la condanna a pena pecuniaria per reato di cui all’art. 256 T.U.A., avendo l’imputato depositato in modo incontrollato terre e rocce da scavo derivante da opere di realizzazione di una galleria.

Il ricorrente si doleva che il Collegio di merito non avesse condiviso la qualificazione delle terre da scavo quali sottoprodotti, trattandosi di materiale di significativo valore di mercato, depositato in vista del riutilizzo in un frantoio di un’altra società per la produzione di calcestruzzo.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, richiamando il principio per cui, in materia di terre e rocce da scavo (e, più in generale, di sottoprodotti) incomba sull’imputato la prova positiva delle condizioni di operatività della disciplina derogatoria, che in relazione ai cantieri di piccole dimensioni è adempiuta mediante la trasmissione della dichiarazione di utilizzo ai sensi dell’art. 21 DPR n. 120/2017.

Cass. pen., Sez. III, 31 gennaio 2022, n. 3339

La vicenda cautelare concerneva il sequestro di una cartiera industriale, nell’ambito di un procedimento per i reati di gestione illecita di rifiuti (art. 256 T.U.A.) e di inquinamento ambientale (art. 452 bis c.p., in relazione agli scarichi decadenti dall’insediamento).

I ricorrenti rappresentavano come presso il sito industriale venissero lavorati materiali costituiti da sottoprodotti e che i prodotti derivanti dal trattamento, essendo conformi alla norma UNI di riferimento, avrebbero dovuto essere qualificati come materia prima secondaria.

I giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibili i ricorsi, evidenziando come i materiali sequestrati non potessero considerarsi sottoprodotti, in quanto non derivanti da un ciclo produttivo, e dunque per la loro lavorazione fosse obbligatoria l’autorizzazione unica ambientale, di cui l’insediamento era privo (motivazione che, si deve supporre, assorbiva anche il dedotto profilo sulla cessazione della natura di rifiuto ex art. 184 ter T.U.A.)

Cass. pen., Sez. III, 12 gennaio 2022, n. 523

La vicenda processuale concerneva il sequestro preventivo di residui della lavorazione prodotti dal taglio del marmo con filo diamantato (c.d. marmettola), qualificati dal produttore come sottoprodotti.

Il ricorrente lamentava come il Giudice per le indagini preliminari ed il Tribunale del riesame avessero ritenuto che i residui fossero qualificabili come rifiuti (e dunque fosse configurabile il reato di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006), nonostante il produttore avesse fornito piena prova della destinazione al riutilizzo del materiale nell’ambito di un progetto di recupero di un ex cava e per la realizzazione del capping di una discarica comunale.

A sostegno delle proprie argomentazioni, il ricorrente citava anche giurisprudenza amministrativa (TAR Piemonte, 5 giugno 2009, n. 1563 e TAR Liguria, 23 marzo 2021, n. 253), in base alla quale la certezza del riutilizzo debba avere carattere relativo e non assoluto, non potendosi ascrivere a responsabilità del produttore anche il mancato reimpiego per effetto di casi fortuiti od imprevedibili al momento della produzione o del conferimento.

La Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso per carenza di interesse, in quanto l’impianto in cui erano stoccati i residui era già stato restituito dal Tribunale del riesame per carenza di esigenze cautelari, ditalché la questione puntualmente dedotta sulla sussistenza dei requisiti ex art. 184 bis D.Lgs. n. 152/2006 non trovava trattazione.

Cass. pen., Sez. III, 8 giugno 2021, n. 22313

Il caso di specie riguardava una spedizione transfrontaliera di quattro container di materiali plastici, oggetto di sequestro probatorio in relazione all’ipotesi di cui all’art. 259 D.Lgs. n. 152/2006.

Il ricorrente lamentava che i materiali, destinati ad una società malese (ove sarebbe stato effettuato un trattamento di granulazione), fossero in parte qualificabili come sottoprodotto ed in parte come materia prima secondaria, in quanto già oggetto di recupero presso una società munita di autorizzazione; circostanza, quest’ultima, confermata sia dalle schede tecniche di prodotto, sia dall’elevato corrispettivo di cessione.

La Cassazione accoglieva solo parzialmente il ricorso, annullando la decisione del Tribunale del riesame sotto il profilo della violazione del principio di proporzionalità (atteso che la cautela era stata estesa a tutti i beni in spedizione), ma confermandola sul punto della classificazione dei materiali, in quanto i materiali sarebbero stati sottoposti ad ud una mera riduzione volumetrica mediante triturazione, non idonea a ritenere cessato lo status di rifiuto.

Cass. III, 7 settembre 2021, n. 33084

La decisione concerneva l’applicazione di una misura cautelare personale in relazione alla fattispecie di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti (art. 452 quaterdecies c.p.).

Agli indagati era contestato di avere reiteratamente sversato in un pozzo artesiano il sangue di animali macellati (il che, ad avviso del ricorrente, non avrebbe consentito di ritenere applicabile la disciplina in materia di rifiuti, bensì quella comunitaria regolante i sottoprodotti di origine animale).

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha evidenziato come la qualifica di sottoprodotto degli scarti animali sia applicabile solo a fronte della rigorosa osservanza dei requisiti di cui ai Regolamenti n. 1774/202 e 1069/2009/CE, il che era assolutamente da escludersi nel caso di specie, attese le modalità di smaltimento abusive in contestazione.

Cass. III, 15 marzo 2021, n. 9954

La sentenza, che ha deciso il caso più rilevante tra quelli recentemente sottoposti al giudizio di legittimità, ha accolto il ricorso per saltum della Procura della Repubblica avverso la sentenza che in primo grado aveva assolto gli imputati dei reati ambientali loro ascritti a vario titolo (art. 452 quaterdecies c.p., art. 256, commi 1 e 3 T.U.A.) in relazione alla gestione dei materiali decadenti dai lavori autostradali della c.d. variante di valico.

Tra le numerose questioni, anche di natura procedurale, trattate dalla sentenza, assume particolare rilevanza (per quanto qui interessa) quella della classificazione dei residui derivanti dall’intervento di perforazione e realizzazione del tratto autostradale (c.d. smarino di terre e rocce, diaframmi di demolizione e fanghi).

Il Tribunale aveva ritenuto che i materiali in questione non fossero da classificarsi quali rifiuti, ma quali sottoprodotti, essendo qualificabili in osservanza della disciplina di settore come terre e rocce da scavo, di cui è ammessa la contaminazione con sostanze inquinanti, a condizione che essa sia avvenuta durante l’attività di escavazione, perforazione e costruzione (come desunto sulla base di circostanze di fatto non sindacabili in sede di legittimità); inoltre, il Collegio di primo grado aveva ritenuto che le attività di frammentazione e macinatura dei materiali, non incidendo sull’identità merceologica e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei materiali, fosse configurabile quale normale pratica industriale.

La Corte di Cassazione si è discostata dall’interpretazione offerta dal Tribunale, ribadendo preliminarmente il principio per cui l’onere della prova grava su chi invoca l’applicazione delle disposizioni derogatorie che escludono o limitano l’applicazione della disciplina dei rifiuti, che in quanto tali devono ricevere un’interpretazione restrittiva nel massimo rispetto del bene tutelato dalla norma generale (in tal senso è richiamato l’art. 174, comma 2, del Trattato CE, unitamente ad una serie di precedenti conformi, a partire dalla nota sentenza Cass. pen. Sez. III, 32797/2013, ric. Rubegni).

In particolare (e nella massima sintesi qui consentita), la Suprema Corte non ha ritenuto adeguatamente soddisfatti, sulla base della decisione di primo grado, i requisiti dell’assenza di situazioni di pericolo per l’integrità ambientale e quello della certezza del riutilizzo.

Sotto il primo profilo, i giudici di legittimità hanno espresso il principio per cui l’impatto ambientale deve essere accertato in senso complessivo, valorizzando cioè non solo le inferenze rispetto al sito di destinazione, ma anche le interazioni sull’ambiente nel corso dell’intero processo di produzione (ad es. impatti sulla falda e sugli agenti atmosferici), attraverso una verifica non basata su valutazioni teoriche o principi generali.

Quanto al secondo aspetto (certezza del riutilizzo), la decisione ha affermato che la sussistenza dei requisiti di applicabilità della disciplina sulle terre e rocce da scavo deve essere accertata in fatto dal giudice del merito sulla base di dati oggettivi, e non può essere dimostrata da chi ne invoca l’applicazione sulla base dei meri contenuti cartolari di progetti, accordi, dichiarazioni di intenti ed atti similari (in tal senso, in particolare, la sentenza ha censurato la decisione del Tribunale, nella parte in cui aveva ritenuto sufficiente la collocazione del materiale nel luogo ove ne era previsto il reimpiego entro i termini stabiliti, non essendo in astratto rilevante la successiva realizzazione dell’opera a cui il materiale era destinato); nemmeno sarebbe rilevante, ad avviso della Corte, l’esistenza di titoli abilitativi, in quanto di essi non è sottratta al giudice del merito la possibilità di valutarne la validità ed efficacia sotto il profilo della legittimità sostanziale.

Cass. pen., Sez. III, 13 maggio 2020, n. 14746

La decisione ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva respinto l’impugnazione del decreto di sequestro di un’area oggetto di un intervento di manutenzione stradale e di rimozione dei materiali derivanti dalle opere in corso (fattispecie ex art. 256 T.U.A.)

Il ricorrente aveva sostenuto che dovessero qualificarsi come sottoprodotti i cubetti in porfido rimossi dalla pavimentazione stradale e destinati ad essere immediatamente rivenduti o riutilizzati per il medesimo scopo, non mutando la loro natura per la presenza di frammenti di altro materiale, derivanti dal medesimo ciclo produttivo ed eliminabili mediante una pulizia rientrante nella normale pratica industriale; il gravame sottolineava inoltre l’intenzione dell’amministrazione comunale di riutilizzare i cubetti in porfido, desumibile dalle autorizzazioni al loro deposito in aree pubbliche, con la conseguente insussistenza della volontà di disfarsene.

I motivi di ricorso erano tuttavia ritenuti manifestamente infondati, in quanto non sarebbero stati comprovati i requisiti che, contestualmente, devono sussistere per attestare la qualifica di sottoprodotto: oltre alla mancanza di certezza in ordine al riutilizzo (desunta dalla tempistica di deposito), si rilevava – con richiami di precedenti conformi – che i cubetti in porfido, nella situazione in cui essi erano stati rilevati, avrebbero dovuto essere sottoposti, per il loro reimpiego, a operazioni di trattamento esulanti dalla normale pratica industriale, in quanto per la separazione da essi dei residui di materiale bituminoso e cementizio non sarebbero stati sufficienti operazioni preliminari di pulitura e lavaggio (occorrendo invece interventi non marginali, da eseguire con strumenti meccanici e dai quali sono destinati a originarsi non modeste quantità di scarti).

Cass. pen., Sez. III, 18 novembre 2019, n. 46586

Gli imputati avevano impugnato la condanna a pena pecuniaria irrogata dal Tribunale per la contravvenzione ex art. 256 T.U.A., per avere smaltito illecitamente, abbandonandoli in un ravaneto, rifiuti derivanti dalla lavorazione del marmo.

La Corte ha rigettato i ricorsi degli imputati, nonostante gli stessi avessero dimostrato che i materiali in questione, di significativo valore economico, erano già stati venduti ad un’impresa edile ai fini del loro riutilizzo per reinterri e riempimenti (dovendosi dunque ad ogni effetto qualificare come sottoprodotti); prospettazione che, tuttavia, la Cassazione ha ritenuto di carattere presuntivo ed inadeguata a soddisfare il criterio di certezza del riutilizzo.

Cass. pen., Sez. III, 19 ottobre 2018, n. 47712

Nell’ambito di un procedimento per i reati di attività organizzata per traffico illecito di rifiuti e gestione non autorizzata, definito nel merito con sentenza di condanna in primo e secondo grado, i ricorrenti censuravano l’erronea applicazione dell’art. 184 ter D.Lgs. n. 152/2006, in quanto la disciplina tecnica per il recupero dei rifiuti asseritamente violata (quella del D.M. 5 febbraio 1998) sarebbe stata superata dalla disciplina comunitaria di cui al Regolamento UE n. 333/2011 (il tema concerneva la cesoiatura di binari, imposta nella misura massima di 1,5 m dalla disposizione interna, mentre quella unionale sopravvenuta non prevede limiti).

A fronte del rilievo operato dai ricorrenti, pur fondato (si legge in sentenza) su una corretta ricostruzione normativa, la decisione ha affermato che le specificazioni tecniche, non contemplate dalla disciplina comunitaria, “a giudizio del Collegio devono essere comunque previste e devono essere normate” per evitare che materiali con caratteristiche diverse possano essere sottoposti alla medesima disciplina in tema di end of waste.

Cass. pen., Sez. III, 2 luglio 2018, n. 29652

La decisione ha accolto il ricorso del Procura della Repubblica avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato il provvedimento di diniego del sequestro preventivo di un impianto di recupero di fanghi di dragaggio.

La sentenza analizza la disposizione di cui all’art. 184 quater T.U.A., definendone il rapporto di specialità rispetto all’art. 184 ter, in quanto essa individua specifiche condizioni per la cessazione della qualifica di rifiuto in ordine ai soli materiali di dragaggio.

Nella specie, la Cassazione rilevava come non risultassero in concreto effettuati i test di cessione necessari ad escludere il rischio di contaminazione dei fanghi, il che (per quanto si intende) aveva precluso la corretta redazione della dichiarazione di conformità, indispensabile per il completamento della procedura di recupero.

Cass. pen., Sez. III, 4 giugno 2018, n. 24865

Il ricorso investiva la sentenza di condanna in relazione ad un’attività di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da asfalto proveniente dal disfacimento e fresatura del manto stradale, nell’ambito dei lavori di ammodernamento di un’autostrada (art. 256 T.U.A.)

La prospettazione difensiva dei ricorrenti circa la riutilizzabilità del fresato bituminoso proveniente dalla asportazione del manto stradale è stata ritenuta manifestamente infondata, in quanto le modalità di smaltimento, mediante lo spandimento sul suolo e il compattamento, sono state definite incompatibili con il riutilizzo del fresato bituminoso; la sentenza (che, pur essendo di poco successiva all’emanazione del D.M. n. 69/2018 sulla cessazione della qualifica di rifiuto dei conglomerati bituminoso, non fa cenno a tale disciplina) rilevava come il fresato d’asfalto possa essere trattato alla stregua di un sottoprodotto solo se venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito (circostanze queste non emerse né prospettate dai ricorrenti, con conseguente declaratoria di inammissibilità del gravame).

Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2017, n. 53136

La decisione ha interessato i ricorsi avverso la sentenza della Corte d’Appello a conferma della condanna degli imputati per il reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., per avere depositato presso un sito industriale un ingente quantitativo di miscele bituminose derivanti dalla fresatura di manti stradali in vari cantieri, tra cui quello del locale aeroporto.

I ricorrenti allegavano che la qualifica del fresato d’asfalto come sottoprodotto era stata ritenuta anche dal concessionario pubblico, sulla base di una apposita relazione tecnica, rappresentando come non ostasse a tale classificazione la circostanza che il riutilizzo sarebbe stato solo parziale e ad opera di terzi, atteso che l’attuale disposizione non prevede più (come nell’originaria versione della norma) l’integrale reimpiego nel corso del medesimo ciclo produttivo e da parte dello stesso produttore.

La Cassazione ha tuttavia rigettato i ricorsi rilevando, quanto al requisito della certezza del riutilizzo, che l’utilizzo del fresato d’asfalto per la realizzazione di fasce laterali delle piste dell’aeroporto era stato stabilito, per effetto di una variante, solo successivamente al momento in cui il materiale aveva già assunto la qualifica di rifiuto; ditalché la modifica progettuale non poteva mutare, a posteriori, la natura del materiale, che inoltre non era riutilizzato “tal quale”, ma attraverso la miscelazione con altre componenti vergini.

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Le recenti decisioni della Corte di Cassazione, qui sinteticamente richiamate, danno il quadro di un’articolata casistica, in cui figurano sia comportamenti che (per quanto ovviamente si intende dalla lettura delle sentenze) si appalesano come manifestamente abusivi, sia condotte di gestione che, sempre per quanto apprezzabile dall’esame dei provvedimenti, appaiono caratterizzate da elementi fattuali o assetti contrattuali in forza dei quali i soggetti sottoposti ad indagine o condannati sono stati quantomeno in grado di prospettare elementi a sostegno della classificazione dei prodotti o materiali di volta in volta in esame in deroga alla disciplina dei rifiuti; elementi che tuttavia, in tutti i casi in questione, non sono stati ritenuti sufficienti o adeguati per supportare l’applicazione degli invocati artt. 184 bis, 184 ter e 184 quater T.U.A.

La Cassazione, infatti, ha applicato con estremo rigore il principio sull’onere della prova circa le condizioni derogatorie, non ritenendolo soddisfatto nemmeno nelle circostanze (peraltro non infrequenti nella casistica esaminata) in cui esse erano supportate da elementi documentali (contratti, progetti, accordi pubblici) o persino da autorizzazioni pubbliche.

Non è ovviamente questa la sede per commentare ulteriormente le decisioni ora brevemente passate in rassegna, anche tenuto conto del fatto che la maggior parte di esse sono state adottate in fase cautelare o comunque nell’abito di procedimenti non definiti con sentenza irrevocabile.

L’interrogativo che ci si pone, tuttavia, a fronte di una lettura giurisprudenziale volta a ribadire l’eccezionalità della deroga al regime dei rifiuti e, conseguentemente, un’interpretazione massimamente restrittiva di ogni disposizione che comporti l’esclusione o la cessazione della qualifica di rifiuto di un prodotto o di un materiale, è se – come indicato in premessa – tale orientamento “intransigente” possa trovare un temperamento per effetto dei principi che informano l’economia circolare.

Se, quindi, la prospettiva della valorizzazione delle risorse non possa condurre, pur mantenendo ferma l’esigenza di miglior tutela delle risorse ambientali, ad un diverso atteggiamento interpretativo, rispetto all’attuale posizione che potremmo quasi definire una “presunzione di sfavore” rispetto alla qualifica di sottoprodotto o alla cessazione dello stato di rifiuto.

Come si è visto, in particolare, numerose delle decisioni di legittimità sopra richiamate sul regime dei sottoprodotti concludono per l’omesso adempimento dell’onere probatorio in ordine alla certezza del riutilizzo; a tale proposito, dunque, occorre valutare se l’onere dimostrativo debba essere considerato di carattere assoluto o se esso possa considerarsi soddisfatto con la prospettazione di alcuni elementi indicativi dell’insussistenza, in capo al produttore del materiale, della volontà di disfarsi dello stesso (ditalchè, nell’ambito del giudizio penale, a fronte di tale principio di prova portato dall’imputato, ritorni a carico della Procura della Repubblica dimostrare, oltre il ragionevole dubbio, la sua inadeguatezza).

È noto che una serie di indicatori circa la dimostrazione della certezza di utilizzo sono contemplati dal D.M. 13 ottobre 2016, n. 264 (“Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualificazione dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”; di seguito, il “Decreto”) ed ulteriormente oggetto di chiarimenti nella Circolare esplicativa emessa da Ministero dell’Ambiente il 30 maggio 2017.

Dalle disposizioni ministeriali si evince, in primo luogo, come l’adozione del sistema probatorio indicato dal decreto (ad esempio, la predisposizione di schede di prodotto) non sia vincolante, essendo rimessa all’operatore la possibilità di scegliere mezzi di prova individuati in autonomia e diversi da quelli disciplinati dal Decreto (cfr. art. 4, comma 2 del Decreto stesso).

Rispetto, in particolare, al tema dell’ulteriore impiego in un ciclo produttivo dei residui di produzione, l’art. 5, comma 3 prevede che “l’attività o l’impianto in cui il residuo deve essere utilizzato sia individuato o individuabile già al momento di produzione dello stesso”; sul punto la Circolare esplicativa precisa come “l’espressione ‘individuabilità’ faccia riferimento a tipologie di impianti o attività in cui il residuo può essere impiegato; pertanto, se potrebbe esservi, all’origine, incertezza sul soggetto destinatario del residuo, non deve invece esservi alcun dubbio circa la tipologia di impianto o di attività in cui il residuo può essere e sarà impiegato in considerazione delle sue caratteristiche tecniche”.

Ora, la previsione in base alla quale è sufficiente la “individuabilità” dell’attività o dell’impianto di destinazione (il che consente addirittura un’incertezza originaria sulla effettiva destinazione finale), considerata unitamente all’elemento dimostrativo di cui al successivo comma 3 (l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra produttore e l’utilizzatore, o eventuali intermediari), porta a ritenere che nell’ambito di un procedimento penale la persona sottoposta ad indagini o imputata possa adeguatamente soddisfare il proprio onere attraverso la prospettazione vuoi di un accordo contrattuale, vuoi (anche in assenza di un contratto già stipulato) dell’esistenza di un mercato rispetto al quale sia appunto “individuabile”, anche se non ancora individuata una destinazione finale che, in accordo con il principio di economia circolare, garantisca l’utile valorizzazione della risorsa (con il limite, ovviamente, che i materiali non siano depositati a tempo in determinato in assenza di una concreta prospettiva di reimpiego).

E conseguentemente, sempre in funzione della ripartizione dell’onere probatorio tipica del processo penale, che una volta vinta dall’imputato la presunzione (a questo punto da ritenersi relativa) circa la qualifica di rifiuto, spetti all’accusa dimostrare l’insufficienza o inadeguatezza dell’assunto difensivo.

Il che, peraltro, si desume anche dalla testuale dizione dell’art. 5, comma 4 del Decreto, laddove si prevede che “resta ferma l’applicazione della disciplina in materia di rifiuti, qualora, in considerazione delle modalità di deposito o di gestione dei materiali o delle sostanze, siano accertati l’intenzione, l’atto o il fatto di disfarsi degli stessi”; attività di “accertamento” che, se calata nel contesto del processo penale, non può che essere a carico della Procura della Repubblica.

Una considerazione non dissimile sovviene in relazione ai casi in cui l’onere della prova circa le condizioni derogatorie per consentire la qualifica di sottoprodotto o per la cessazione della qualifica di rifiuto sia correlato anche ad una serie di elementi di carattere prettamente formale o procedurale (la cui inosservanza, tuttavia, nell’ottica di estremo rigore sopra delineata, comporterebbe comunque l’impossibilità di una “via d’uscita” rispetto alla disciplina dei rifiuti, con impatti non necessariamente tutelanti per il sistema complessivo di gestione ambientale).

Uno spunto in tal senso viene, ad esempio, dall’esame della recente disciplina dell’end of waste per i rifiuti inerti da costruzione e demolizione, introdotta dal D.M. 27 settembre 2022, n. 152.

Il presupposto della disciplina è la promozione dell’impiego dell’aggregato riciclato (cioè i materiali derivanti da un ciclo di recupero di rifiuti inerti da costruzione e demolizione), quale materiale di effettivo valore economico e funzionale, in quanto comunemente utilizzato in opere di ingegneria civile in sostituzione di materie prime naturali.

L’art. 4 del Decreto prevede che i rifiuti in questione cessano dal loro status ed assumono quello di aggregato recuperato (non rifiuto) se esso è conforme “ai criteri dell’Allegato 1”.

Tale Allegato, che appunto viene a definire le “condizioni di deroga” rispetto alla disciplina dei rifiuti si appalesa quale disposto estremamente variegato e complesso, in quanto unitamente alla perimetrazione dei rifiuti ammissibili (punto a) ed alla previsione dei parametri chimici dei materiali recuperati (punto c e punto d), sono descritti anche elementi di processo gestionale attinenti alle verifiche dei rifiuti in ingresso ed alle modalità di lavorazione e deposito.

Seguendo un’interpretazione di rigore, dunque, il produttore di aggregato riciclato che, pur avendo in ipotesi ottenuto un materiale conforme ai requisiti chimici e prestazionali che legittimano il reimpiego, non sia in grado di comprovare il pieno rispetto anche degli elementi formali (ad esempio, dimostrando di avere adottato uno specifico sistema di controllo in accettazione, attuato da personale con formazione e aggiornamento biennale)  potrebbe vedersi esposto al rischio che le materie prime secondarie prodotte rimangano qualificate come rifiuti e che ne sia imposto un (ulteriore) trattamento, con il rischio di un significativo aggravio rispetto al complessivo impatto ambientale.

È infatti esperienza nota nel settore che nel caso in cui un materiale ritenuto non conforme allo standard di end of waste debba essere conferito ad impianti di recupero, vi sarà un notevole impatto per effetto del traffico veicolare dei mezzi impiegati per il trasporto, oltre all’incidenza di sistema a livello territoriale, per effetto della più celere saturazione della capienza dei siti di destinazione.

Tale considerazione, riportata alle tematiche ora trattate, porta a ritenere opportuno che, in chiave applicativa, sia preferibile valorizzare gli elementi sostanziali circa il perfezionamento dell’attività di recupero (quelli, cioè, che anche in presenza di eventuali difformità formali consentano di ritenere raggiunto lo status di end of waste “di fatto”), così da evitare, in una paradossale eterogenesi dei fini, che si realizzi un pregiudizio, anziché un beneficio del bene tutelato (beneficio che, per quanto esposto, viene senz’altro conseguito dall’utile valorizzazione della risorsa in deroga alla disciplina dei rifiuti).

In conclusione di questa breve disamina, non appare dunque improprio affermare che anche i principi consolidatamente espressi dalla giurisprudenza circa la ripartizione dell’onere probatorio, e le rigide condizioni a cui è correlato l’adempimento dello stesso, debbano essere necessariamente bilanciati, attraverso una lettura dei complessivi interessi di tutela in chiave sostanziale e non “burocratica”, con quelli che presiedono all’effettiva circolarità di risorse di cui si avverte la sempre maggiore scarsità.

Un’equilibrata applicazione delle disposizioni in materia di sottoprodotti e di cessazione della qualifica di rifiuto deve quindi essere necessariamente vista come un’effettiva e concreta opportunità di valorizzazione dell’esistente, superando una presunzione negativa (sorta di “pan-rifiutismo”) che, specie laddove basata su elementi formali, rischia altrimenti di disperdere l’utilità di prodotti e materiali secondari.

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NOTE:

[1]  Il primo considerando della Direttiva n. 2018/851 recita “la gestione dei rifiuti nell’Unione dovrebbe essere migliorata e trasformata in una gestione sostenibile dei materiali per salvaguardare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana, garantire un utilizzo accorto, efficiente e razionale delle risorse naturali, promuovere i principi dell’economia circolare, intensificare l’uso delle energie rinnovabili, incrementare l’efficienza energetica, ridurre la dipendenza dell’Unione dalle risorse importate, fornire nuove opportunità economiche e contribuire alla competitività nel lungo termine. Al fine di creare un’autentica economia circolare, è necessario adottare misure aggiuntive sulla produzione e il consumo sostenibili, concentrandosi sull’intero ciclo di vita dei prodotti in modo da preservare le risorse e fungere da «anello mancante. L’uso più efficiente delle risorse garantirebbe anche un considerevole risparmio netto alle imprese, alle autorità pubbliche e ai consumatori dell’Unione, riducendo nel contempo le emissioni totali annue dei gas a effetto serra”.

In termini analoghi si esprime il primo considerando della Direttiva n. 2018/852: “la gestione dei rifiuti nell’Unione dovrebbe essere migliorata per salvaguardare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana, garantire un utilizzo accorto, efficiente e razionale delle risorse naturali, promuovere i principi dell’economia circolare, intensificare l’uso delle energie rinnovabili, incrementare l’efficienza energetica, ridurre la dipendenza dell’Unione dalle risorse importate, fornire nuove opportunità economiche e contribuire alla competitività nel lungo termine”.

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