Elefanti e orsi. Dal Botswana al Trentino

01 Giu 2024 | articoli, editoriale

Molti quotidiani hanno recentemente pubblicato l’offerta del presidente del Botswana, Mokgweetsi Masisi, di inviare 20.000 elefanti alla Germania per far vivere ai tedeschi l’esperienza di convivere con questi animali. Il Ministro dell’ambiente di quel paese ha rivolto un’analoga offerta al Regno Unito aggiungendo: “Voglio che gli inglesi sperimentino la convivenza con animali che stanno distruggendo il mio paese: in molte zone gli elefanti calpestano esseri umani e mangiano i raccolti dei contadini lasciando le persone senza cibo”.

Le offerte, che non sembra siano state finora accettate, hanno fatto seguito alla richiesta delle organizzazioni ambientaliste dei due Paesi di vietare l’importazione di trofei di caccia grossa dall’Africa.

La caccia al trofeo dei big five (leone, elefante, leopardo rinoceronte, bufalo) è disciplinata da normative che prevedono l’abbattimento di esemplari di specie non a rischio di estinzione, selezionati secondo un programma di quote annuali in linea con le indicazioni formulate dal CITES. Per abbattere un elefante il permesso costa in Botswana, Tanzania e Kenya 50.000 dollari.

Il costo non spaventa i cacciatori: sono stati importati tra il 2005 e il 2014 negli Stati Uniti 32.500 trofei, mentre sono stati quasi 15.000 quelli importati dal 2014 al 2018 in Europa.

I proventi derivanti dalle licenze sono per la maggior parte rinvestite in progetti di sviluppo, conservazione dell’ambiente e assistenza alle comunità locali.

Oggi gli elefanti rappresentano il caso di maggior successo, insieme ai leoni, delle politiche di conservazione dell’ambiente in Africa, sostenute dall’attività delle associazioni ambientaliste e da finanziamenti da parte dei paesi ricchi.

Erano oltre un milione all’inizio del secolo scorso; ne rimanevano poco più di 200.000 cinquanta anni orsono: un risultato cui hanno contribuito non solo la caccia e il commercio internazionale dell’avorio (proibito solo nel 1989), ma anche la convinzione in molti paesi africani che la natura selvaggia fosse il marchio del sottosviluppo e dell’inferiorità rispetto ai paesi ricchi: una situazione descritta da Romain Gary in uno dei primi romanzi ambientalisti, Les racines du ciel. Nel libro, gli elefanti sono visti dai movimenti africani per l’indipendenza come un simbolo di arretratezza e inferiorità; chi vuole evitarne la caccia e l’estinzione in nome della tutela dell’ambiente è considerato come un esponente di un nuovo, più insidioso colonialismo.

Così, furono classificati nel 1996 in pericolo di estinzione ma già nel 2004 furono promossi al livello superiore, come specie vulnerabile. Sono attualmente oltre 400.000 distribuiti su un’ampia area dell’Africa.

Il Botswana è il paese che ha applicato con maggior rigore le politiche di protezione degli elefanti, con la partecipazione delle popolazioni locali che hanno tratto benefici per l’incremento del turismo. Il risultato è che lì si trova un terzo del totale degli elefanti africani: sono più di 130.000 e aumentano di circa 6.000 unità ogni anno. Tuttavia meno della metà si trova nei parchi e nelle aree protette, gli altri si sono diffusi sul territorio nazionale, distruggendo i raccolti e l’habitat: un elefante adulto consuma fino a 150 kg di vegetazione al giorno. Fra il 2022 e il 2023 si sono registrati oltre 11mila episodi di conflitto fra pachidermi e comunità locali.

Per limitarne il numero, il Botswana ha regalato migliaia di elefanti a paesi vicini (Angola e Mozambico) che progettano di sviluppare il turismo, utilizzando anche la caccia ai trofei per contenerne il numero, ricavando un utile da reimpiegare nei vari progetti di tutela delle specie protette.

L’incremento del numero di elefanti preoccupa anche altri paesi, tra cui Kenya e Tanzania.

Le reazioni del Presidente e del Ministro dell’ambiente del Botswana riflettono il difficile compito di molti paesi africani di conciliare le esigenze e la protezione delle popolazioni interessate con la tutela delle specie protette, spesso in aumento per la riuscita delle politiche di conservazione adottate.

Sembrano problemi lontani che non ci riguardano, ma non è così.

È infatti dell’aprile dello scorso anno il conflitto insorto tra il Governatore del Trentino e le organizzazioni ambientaliste a seguito dell’uccisione di un escursionista da parte di un orso nella Val di Sole (preceduta da due altre aggressioni, sempre di orsi, fortunatamente senza esiti fatali). Dell’argomento ci siamo già occupati in un precedente editoriale (Su un recente tragico episodio: il progetto Life Ursus, maggio 2023). Nel 1992 il Parco Adamello Brenta e la Provincia autonoma di Trento, usufruendo di un finanziamento dell’Unione europea, hanno avviato un progetto per reintrodurre 40\50 orsi nel Parco con il consenso delle comunità locali. Nel 2004 erano presenti 49 orsi, il numero massimo previsto dal progetto. Oggi sono oltre cento e pongono problemi di coesistenza e di conflitto simili a quelli creati dagli elefanti in Botswana.

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