di Stefano Nespor
È presto per formulare valutazioni definitive sui risultati, certamente non eclatanti, della COP – 26 di Glasgow appena conclusa. Bisogna però ricordare che anche la COP – 15 di Copenhagen, subissata di critiche dalle organizzazioni ambientaliste e qualificata, proprio come quella ora conclusa, un fallimento, ha posto le basi per l’Accordo di Parigi del 2015. Purtroppo, nonostante la pressione dell’emergenza climatica, la diplomazia del clima ha i suoi tempi, dovendo raccordare esigenze diverse e spesso contrastanti dei paesi della comunità internazionale.
Dibattiti, discussioni e proteste, dentro e fuori il luogo dove la COP si è svolta, hanno però posto ancora una volta davanti agli occhi il tema dal quale stabili accordi per fronteggiare l’emergenza climatica non possono prescindere. È il tema della disuguaglianza che si sdoppia su due fronti: il passato e il futuro.
Il passato
Nel XIV secolo, Ibn Battuta, uno dei più grandi viaggiatori di ogni tempo (si possono leggere i suoi ricordi nel libro pubblicato alcuni anni fa da Einaudi) descriveva un paese “dove il riso è molto abbondante. In nessun’altra parte del mondo ho mai visto tanta disponibilità di cibo”.
Non scriveva di un paese europeo. Scriveva dell’India.
E dell’India scriveva tre secoli dopo, nel 1676. il viaggiatore francese Jean Tavernier osservando che, a differenza dalla Francia, “perfino nel più piccolo villaggio riso, farina, burro, latte, fagioli e altre verdure, zucchero e dolciumi, sono disponibili in abbondanza”.
Risulta quindi chiaro che tra il XIV e il XVII secolo era meno importante di oggi in quale parte del mondo si nascesse (anche se, allora come oggi, c’erano disuguaglianze all’interno dei paesi e il futuro dipendeva dalla posizione sociale ed economica dei genitori e dall’essere maschi o femmine).
Dal XVIII secolo, tutto è cambiato.
Molto è stato scritto sulle ragioni per le quali alcuni paesi hanno avviato un processo di sviluppo, mentre la maggior parte dei paesi si è impoverita: l’affermarsi del mercato e della competitività, la libertà di impresa, la protezione della proprietà privata.
Spesso sono trascurate ragioni altrettanto importanti: le depredazioni del colonialismo, la distruzione delle risorse naturali, l’utilizzo su vasta scala del lavoro schiavistico
Ed è spesso trascurato il fatto che carbone e petrolio sono stati i motori della creazione di ricchezza e di benessere dei paesi industrializzati. La nostra ricchezza e il nostro benessere sono stati costruiti mettendo in moto il cambiamento climatico e quegli effetti che ora tutto il resto del mondo subisce.
Non c’è da stupirsi di queste dimenticanze: come ha osservato Piketty, ogni società tende a giustificare le disuguaglianze che produce creando un insieme di narrative e di ideologie finalizzate a legittimarle.
Così, in poco più di due secoli, il mondo descritto da Ibn Battuta e da Tavernier è scomparso e ha lasciato il posto a un mondo disuguale.
Secondo i dati di The Economy (un innovativo libro di testo di economia consultabile online anche in italiano) gli abitanti del Regno Unito stanno sei volte meglio che in India, un po’ meno di cinque volte gli italiani. Il reddito medio in Norvegia è 19 volte il reddito medio in Nigeria e il 10% più povero in Norvegia ha un reddito che è più del doppio del reddito medio del 10% più ricco in Nigeria.
Quando i paesi poveri e i paesi che da pochi decenni si sono avviati sulla strada dello sviluppo parlano di responsabilità storica fanno, certo, riferimento al cambiamento climatico determinato dall’utilizzazione del carbone e del petrolio come motori dello sviluppo.
Ma, sullo sfondo, sta una responsabilità storica ben più pesante, la consapevole creazione di un mondo basato sulla disuguaglianza e sulla sopraffazione.
Allora, è difficile criticare i paesi, come la Cina, l’India o il Vietnam che oggi pretendono più tempo dei paesi occidentali per portare a zero le emissioni di gas serra e per superare, almeno in parte, le ferite lasciate dallo sviluppo dei paesi occidentali.
Il futuro
Se questo è il punto di partenza, nel futuro può andare peggio. Si prospetta una seconda disuguaglianza assai più grave di quella oggi esistente.
I cambiamenti climatici infatti accentuano le disuguaglianze: non sono democratici perché non colpiscono tutti allo stesso modo e non sono giusti perché colo è stato responsabile della maggior parte delle emissioni è l’ultimo a subirne le conseguenze più gravi. Le vittime dei cambiamenti climatici sono, oltre ai Paesi meno industrializzati, le fasce di popolazione più svantaggiate, le comunità più dipendenti dalle risorse naturali, gli emarginati, i poveri, i migranti, le popolazioni indigene, che sono collocate in zone maggiormente esposte. Tutte queste collettività sono attualmente identificate, indipendentemente dalla concreta collocazione geografica, come Global South, l’espressione sostitutiva di Terzo Mondo coniata dopo la fine della seconda guerra mondiale, che racchiude oggi un Sud nel Nord geografico e un Nord nel Sud geografico (si veda la ricostruzione storica di A. Garland Mahler, Global South, in Oxford Bibliographies www.oxfordbibliographies.com/view/document/obo-9780190221911/obo-9780190221911-0055.xml?rskey=eMzKAW&result=16. L’Autore ricorda che l’idea di un Sud globale scaturisce dalle riflessioni di Antonio Gramsci sulla questione del Sud riferita al rapporto tra Nord e Sud dell’Italia).
È quindi necessario uno sforzo congiunto di tutti i paesi ricchi, soprattutto finanziario e di trasferimento di tecnologie, per evitare che il solco della disuguaglianza diventi ancor più profondo e incida, in modo disuguale, sulle generazioni future, perché saranno quelle del Global South che subiranno l’impatto e i danni del cambiamento.
Su questo punto, non sembra che vi sia stato un vero salto di qualità rispetto alle promesse e agli impegni del passato, spesso solo parzialmente mantenuti.
Ma non basta. Per quanto detto prima, non può essere sufficiente evitare che la disuguaglianza peggiori. Ciò che è necessario e si impone alla comunità internazionale, con modalità e impegni diversi a seconda delle capacità, è cogliere l’occasione per attenuare la disuguaglianze storiche, sfruttando le opportunità che l’emergenza offre mediante le strategie di adattamento al cambiamento.
Su questo punto, il lavoro da compiere è ancora lungo.