Contaminazioni storiche e responsabilità di gruppo: l’evoluzione giurisprudenziale in relazione alla successione di imprese e agli obblighi di bonifica

04 Apr 2020 | contributi, articoli

di Federico Vanetti e Lorenzo Ugolini

  1. Introduzione

Contaminazioni storiche, trasformazioni societarie e responsabilità ambientali sono oggetto di un dibattito sempre più attuale, con riflessi diretti sull’applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”, di per sé di immediata comprensione, ma invero di difficile applicazione, perlomeno quando si parla di imprese.

Capita sempre più spesso, infatti, che una società si trovi oggi a dover gestire una contaminazione storica causata in passato da un altro soggetto giuridico, a cui è poi succeduto l’attuale operatore.

L’evoluzione del quadro normativo nel corso del tempo, l’assenza di esplicite norme poste a tutela del suolo e delle acque in vigore al momento della contaminazione, unitamente alle complesse operazioni di riorganizzazioni societarie, determinano una serie di domande rispetto alle quali la giurisprudenza amministrativa sta cercando di fornire risposte.

Il dibattito giuridico, tuttavia, pone anche dei temi filosofici e, in particolare, ci si domanda in che misura sia effettivamente corretto applicare il principio di derivazione comunitaria ad operatori privati che si trovano oggi a gestire situazioni storiche (sia come contaminazioni, sia come successione di imprese nel tempo), cercando altresì di non favorire l’elusione degli obblighi di bonifica attraverso operazioni societarie.

In considerazione di un recente proliferare di sentenze, appare quanto mai opportuno cercare di fare il punto della situazione.

  1. Inquadramento normativo degli obblighi di bonifica

La disciplina ambientale è oggi improntata sul principio “chi inquina, paga” di derivazione comunitaria ed espressamente recepito dal d.lgs. n. 152/2006[i].

Tuttavia, per poter correttamente inquadrare le responsabilità in relazione alle contaminazioni storiche, è opportuno ripercorrere sinteticamente l’evoluzione normativa sul punto.

Invero, fin dalla sua origine, lo stesso Codice Civile italiano contiene disposizione indirettamente poste alla tutela dell’ambiente: basti pensare agli artt. 844, 2043 e 2050 c.c. e alle leggi igienico-sanitarie.

Il primo prevedeva e prevede tutt’ora un limite di normale tollerabilità con riguardo alle immissioni «di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino», sancendo così indirettamente un limite alle immissioni dirette o indirette nel fondo altrui.

La tutela per la violazione di tale divieto è quindi ricondotta alla responsabilità extracontrattuale – cd. aquiliana – prevista dall’art. 2043 c.c., secondo cui «qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».

Con riferimento all’attività imprenditoriale, l’art. 2050 c.c. ha esteso poi il livello di diligenza richiesto dalla legge nello svolgere attività potenzialmente pericolose.

Da una sfera inizialmente privatistica, le citate disposizione hanno successivamente trovato applicazione in via estensiva, parallelamente alla formazione di un concetto di ambiente quale bene comune costituzionalmente tutelato[ii].

Nasce così il concetto di ambiente come «complesso dei beni di uso e godimento pubblico, individuabili attraverso la legislazione che li protegge»[iii].

La tutela di questo bene comune, quindi, trova attuazione anche attraverso il danno erariale, cagionato dai dipendenti pubblici che violano i propri obblighi di servizio in materia ambientale[iv].

In parallelo alla evoluzione normativa nazionale (seppur a livello embrionale), il diritto comunitario affronta anch’esso il tema ambientale, introducendo man mano fondamentali principi per la tutela dell’ambiente.

In particolare, nasce il c.d. principio “chi inquina paga” che trae la sua origine nel Trattato CEE[v] del 1958, al comma 2 dell’articolo 174[vi] (oggi trasposto nell’art. 191 TFUE[vii]), inserendolo nel novero dei principi cardine in materia ambientale accanto a quelli di precauzione, prevenzione e correzione del danno ambientale.

Dopo la sua introduzione nel Trattato CE, tale principio viene utilizzato per la prima volta nel 1962 dal comitato ambientale dell’OECD[viii] (organizzazione avente ruolo prevalentemente consultivo) e, successivamente, lo stesso compare all’interno del primo Environment Action Programme[ix], che sancisce come l’addebito dell’inquinamento ad uno o più soggetti debba essere ammesso in misura corrispondente al loro effettivo contributo, al verificarsi dell’inquinamento ed al rischio di inquinamento stesso[x].

Nel 1975 il principio chi inquina paga vede una delle sue prime declinazioni economiche in un documento della Comunità europea, vale a dire la Raccomandazione del Consiglio n. 436, ritenuta ancora oggi da parte della dottrina fonte di primaria importanza quanto a definizione del principio chi inquina paga[xi]; in particolare l’art. 2 del suo Allegato afferma che «sia le Comunità europee a livello comunitario, sia gli Stati membri nelle loro legislazioni nazionali in materia di protezione dell’ambiente devono applicare il principio “chi inquina paga”, secondo il quale le persone fisiche o giuridiche, di diritto pubblico o privato, responsabili di inquinamento debbono sostenere i costi delle misure necessarie per evitare questo inquinamento o per ridurlo, al fine di rispettare le misure e le misure equivalenti che consentono di raggiungere gli obiettivi di qualità o, qualora non esistano i suddetti obiettivi, le norme e le misure equivalenti fissate dai pubblici poteri»[xii].

In ultima battuta, prima di giungere all’evoluzione del principio dei primi decenni del 2000, il suddetto fa il suo ingresso nell’Atto Unico Europeo del 1987, il quale sancisce che «L’azione della Comunità in materia ambientale è fondata sui principi dell’azione preventiva e della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga” […]»[xiii].

La spinta normativa comunitaria spinge, dunque, il legislatore nazionale a concepire una normativa nazionale specifica, con l’istituzione di un Ministero ad hoc dedicato alla tutela dell’ambiente.

Si giunge così alla promulgazione della legge n. 349 del 1986 che sancisce il passaggio da una tutela ambientale di tipo prettamente privatistico (come delineata ut supra dagli artt. 844, 2043 e 2050 c.c.) ad una tutela più marcatamente pubblicistica, cosicché «la collettività, più che titolare di un diritto soggettivo alla stregua del diritto privato, appare come titolare di un diritto diffuso e generalizzato, di carattere eminentemente pubblicistico […]»[xiv].

Nello specifico, l’art. 18 della legge 349/1986 dispone che «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato».

Tale disposizione, dunque, afferma espressamente la rilevanza della tutela ambientale tra i compiti dello Stato e la responsabilità per danno ambientale viene declinata all’interno della responsabilità extra contrattuale ex art. 2043 c.c. e – stando alla prevalente giurisprudenza[xv] – anche all’interno della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c.

La normativa europea e quella nazionale, dunque, si concentrano su vari temi ambientali, tra cui la gestione dei rifiuti e delle emissioni in atmosfera, nonché l’utilizzo delle risorse idriche.

Manca, invece, una specifica disciplina sulla contaminazione dei siti industriali, problema sempre più rilevante anche a fronte delle trasformazioni economiche e produttive che hanno interessato il territorio dalla seconda guerra mondiale in poi.

È così che nasce – non senza polemiche e dubbi di legittimità[xvi] – il cd. Decreto Ronchi (d.lgs. n. 22/1997), che all’art. 17 contempla la disciplina della bonifica e del ripristino dei siti inquinati, introducendo sia una specifica definizione di inquinamento, sia la previsione di specifiche procedure e specifici obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a carico del soggetto che cagiona l’inquinamento («Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento. […]»).

Il decreto trova piena attuazione attraverso il D.M. 471/99 che definisce i ruoli della pubblica amministrazione, nonché le procedure amministrative per gestire i fenomeni di contaminazione, che affidano al privato la denuncia degli inquinamenti (anche storici) e lo studio degli interventi da eseguire, riservando a regioni e comuni un ruolo di controllo e approvazione, nonché di azione in via subordinata.

La norma italiana segna, ancora oggi, un deciso passo avanti rispetto alla disciplina comunitaria nella gestione dei siti contaminati.

Solo agli inizi del 2000, il legislatore europeo inizia ad affrontare indirettamente il tema delle contaminazioni delle matrici ambientali, attraverso la disciplina del danno ambientale, confluita nella direttiva 2004/35/CE.

Questa prevedeva inizialmente un modello di responsabilità oggettivo e un modello di responsabilità solidale dei coautori del danno ambientale che, invero, accese numerose discussioni fino alle inevitabili ed ingenti modifiche nel testo finale del 2004. La direttiva oggi definisce come danno ambientale, un danno che incida significativamente sullo stato ambientale delle risorse idriche[xvii], un danno al terreno che crei un rischio significativo per la salute umana e, infine, un danno a specie e habitat naturali protetti che incida in moto negativo sulla conservazione[xviii].

La maggior critica che viene mossa nei confronti del testo della direttiva riguarda la disciplina e il campo di applicazione della stessa. L’applicabilità del regime della responsabilità civile per danno ambientale è subordinata alla conoscenza dei responsabili, alla concretezza del danno e all’esistenza di un nesso causale fra l’azione dei primi e l’evento dannoso. Essa contempla due diversi regimi: quello della responsabilità oggettiva per i soggetti esercenti attività idonee a provocare un rischio per la salute umana o per l’ambiente[xix] e una responsabilità per dolo o colpa per le attività non pericolose.

Nel recepire la direttiva, l’Italia – ancora una volta – intravede l’occasione per riformare e modernizzare ulteriormente la disciplina nazionale sui siti contaminati, che viene riscritta con il d.lgs. n. 152/2006.

La nuova disciplina ricalca sostanzialmente l’impostazione del D.M. 471/99, introducendo importanti novità quali l’analisi di rischio sito specifica applicata come misura ordinaria a tutte le contaminazioni e, quindi, la possibilità di declinare gli interventi di bonifica anche attraverso soluzioni in situ (es. messa in sicurezza operativa o permanente).

Si giunge così al contesto normativo ancora oggi vigente, con il quale gli operatori del diritto sono chiamati quotidianamente a confrontarsi. 

  1. Contaminazioni storiche e successione di imprese a titolo universale

La disciplina nazionale introdotta a cavallo del XXI secolo non solo ha contemplato una nuova definizione di sito contaminato[xx] (ancorandola al rischio, e non più soltanto a valori tabellari), ma ha altresì equiparato le contaminazioni storiche con rischio di aggravamento alle nuove contaminazioni[xxi], ammettendo di contro una gestione meno repentina di quelle contaminazioni storiche in relazione alle quali non sia presente alcun rischio di aggravamento[xxii].

Ad onor del vero tale equiparazione (anche in termini procedimentali) ha positivizzato uno specifico indirizzo giurisprudenziale già sviluppatosi in vigenza del decreto Ronchi[xxiii] il quale, qualificando lo stato di contaminazione come situazione di illecito permanente, aveva riconosciuto l’applicabilità della normativa sopravvenuta a quelle situazioni di contaminazione che, sebbene causate in passato, risultassero ancora in essere dopo l’entrata in vigore del Decreto stesso[xxiv].

Ciò – già al tempo – aveva inevitabilmente aperto un ulteriore dibattito in merito alle responsabilità delle aziende storicamente operanti sui siti e, in particolare, agli effetti delle trasformazioni di tali aziende nel corso del tempo a seguito di successioni a titolo universale.

È bene premette che, con la formula “successione a titolo universale” (fusioni o acquisizioni[xxv]), si intende il subingresso dell’avente causa nella generalità dei rapporti giuridici facenti capo al dante causa. In merito, la Suprema Corte di Cassazione[xxvi] ha affermato che la fusione di società, anche mediante incorporazione, realizza una successione universale corrispondente a quella mortis causa delle persone fisiche, con il che il nuovo soggetto risultante dalla fusione diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti estinti in ragione della fusione o della incorporazione “fra i quali vanno ricompresi anche quelli derivanti da responsabilità di cose in custodia ex art. 2051 c.c. […]”.

Anche in tal caso, la questione circa la sussistenza di eventuali obblighi di bonifica in capo alla società incorporante è stata affrontata dalla giurisprudenza amministrativa (sia nel vigore del Decreto Ronchi sia a seguito dell’emanazione del d.lgs. 152/2006), la quale ha tuttavia offerto diverse interpretazioni della questione fino alle più recenti sentenze pubblicate nel 2019.

In un primo momento, il TAR Lombardia[xxvii] aveva sostenuto che le obbligazioni di bonifica potessero sorgere solo successivamente all’entrata in vigore della normativa di settore (perlomeno della L. 349/1986), propendendo per l’assenza di obblighi di bonifica ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. n. 22/1997 in capo alla società incorporata che aveva esercitato la propria attività (con conseguente contaminazione delle matrici ambientali) negli anni ’60.

I giudici amministrativi, richiamando l’istituto dell’illecito permanente, giungevano dunque ad affermare che la normativa del Decreto Ronchi era certamente destinata ad applicarsi alle situazioni di inquinamento esistenti al momento della sua entrata in vigore (indipendentemente dal periodo storico in cui si fosse scatenato il fattore inquinamento), ma ciò a condizione che il soggetto inquinatore risultasse ancora esistente al momento dell’entrata in vigore della disciplina stessa.

In altre parole, la sentenza citata affermava come gli obblighi derivanti dall’applicazione del Decreto Ronchi non fossero applicabili alle fattispecie in cui il responsabile della contaminazione si fosse estinto prima dell’entrata in vigore della disciplina in questione, atteso che, sostenendo il contrario, si sarebbe integrata una violazione sia del principio di irretroattività delle disposizioni relative al principio “chi inquina paga” della Direttiva 2004/35/CE sia dei principi generali in materia di illecito (“si verrebbe arbitrariamente a scomporre la fattispecie dell’illecito, la cui porzione imputabile consisterebbe nel solo evento, che, isolatamente considerato, non può, invece, dar luogo ad alcuna responsabilità”).

A distanza di poco più di un anno, il Consiglio di Stato[xxviii] tornava sull’argomento pronunciandosi sull’impugnazione della summenzionata sentenza del TAR Lombardia. In particolare Palazzo Spada, pur confermando la decisione di primo grado volta ad annullare le ordinanze di bonifica, forniva diverse interessanti deduzioni volte a sorreggere l’impianto motivazionale.

In merito, il Collegio sanciva la possibilità che un obbligo risarcitorio derivante da contaminazione ambientale potesse sorgere anche anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Ronchi, integrando infatti l’inquinamento gli estremi della condotta illecita di natura civilistica ai sensi dell’art. 2043 c.c. (con obbligo a risarcire il danno arrecato, anche in forma specifica), già in vigore al tempo della condotta tenuta dalla società incorporata.

Tuttavia, come anticipato, il Consiglio di Stato concludeva per confermare la decisione di primo grado, sottolineando[xxix] – per quanto rileva in tale sede – come la base giuridica sulla quale si fondava l’emissione delle ordinanze di bonifica ivi impugnate (cioè le disposizioni di cui all’art. 17 del Decreto Ronchi) presentasse sostanziali differenze rispetto alla responsabilità aquiliana. Sul punto, il Consiglio osservava infatti che, “anche ponendo a confronto l’art. 17 con il plesso normativo composto dagli artt. 2043, 2050 (considerata l’obiettiva pericolosità dell’attività industriale di produzione di coloranti) e 2058 (sul risarcimento in forma specifica), le differenze tra gli istituti rispettivamente disciplinati sono talmente numerose e tanto profonde, da non consentire la formulazione di alcun giudizio di continuità tra le stesse”.

Il Consiglio di Stato sembrava dunque intendere che sarebbe stata configurabile nel caso concreto una generica responsabilità per danno ingiusto; tuttavia, la conseguente azione di risarcimento esulava dalle competenze del giudice amministrativo e non coincideva con il presupposto giuridico sulla base del quale erano state emanate le ordinanze di bonifica oggetto di ricorso.

Ed è proprio all’interno di tale quadro giurisprudenziale che si inserisce la recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10/2019, la quale – in una fattispecie del tutto paragonabile a quella oggetto della pronuncia del TAR Lombardia n. 1913/2017 e successivo grado di giudizio[xxx] – dovrebbe porre definitivamente fine alle dibattute questioni.

In particolare, l’ordinanza di remissione all’Adunanza Plenaria stessa[xxxi] si colloca nel solco degli interrogativi aperti dal Consiglio di Stato nel 2008 e vertenti sulla potenziale qualificazione delle condotte di compromissione ambientale poste in essere antecedentemente all’entrata in vigore del Decreto Ronchi alla stregua di illecito civile di natura extra-contrattuale, con conseguente trasmissione di tale responsabilità civilistica alla società incorporante in virtù del “principio della conservazione dei valori giuridici” a prescindere dalla data di perfezionamento dell’operazione societaria.

In altre parole, i punti che la quarta sezione del Consiglio di Stato rimette alla Plenaria possono essere sintetizzati in due semplici questioni: possono sussistere responsabilità ambientali a carico di una società oggi estinta (all’esito di operazioni societarie di fusione o incorporazione, a prescindere dal periodo storico in cui queste ultime si siano perfezionate) per fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore del Decreto Ronchi? In caso di risposta affermativa, su quale base giuridica[xxxii]?

In merito l’Adunanza Plenaria, dopo aver affermato – in linea con la giurisprudenza costituzionale – che l’inquinamento ambientale, già prima dell’entrata in vigore del Decreto Ronchi, era configurato alla stregua di un illecito civile ai sensi dell’art. 2043 (principio generale del neminem ladere) e che la bonifica rappresenta di fatto una forma di reintegrazione in forma specifica ex 2058 c.c., ha statuito il principio di diritto secondo cui “la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”. E ciò anche in virtù del fatto che:

  1. il danno ambientale – in linea con quanto già statuito in passato dai giudici amministrativi – presenta un carattere permanente, indi per cui l’esistenza attuale di una situazione di inquinamento legittima l’imposizione sul responsabile della contaminazione degli obblighi previsti dalla disciplina vigente al momento dell’accertamento della passività ambientale;
  2. in termini di diritto societario, la società incorporante (ancorché non responsabile della contaminazione) subentra negli obblighi della società responsabile incorporata, attesa l’applicazione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda cui è improntata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione. A detta conclusione si perveniva peraltro “anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale”.

Nonostante, per esigenze di economia espositiva, non sia consentito dilungarsi eccessivamente in tale sede circa la bontà del principio espresso dall’Adunanza Plenaria, si ritiene opportuno effettuare talune considerazioni.

Nel declinare il menzionato principio, come anticipato, la Plenaria parte dall’assunto che i meccanismi sottostanti gli obblighi di bonifica in capo al soggetto responsabile della contaminazione ai sensi dell’art. 17 del Decreto Ronchi e, successivamente, dell’art. 242 del T.U. Ambientale svolgano la medesima funzione (“ripristinatoria-reintegratoria”) di protezione ambientale che la giurisprudenza aveva già riconosciuto in precedenza al risarcimento del danno ambientale ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Tale considerazione, per quanto corretta, richiede tuttavia una precisazione di merito, anche al fine di evitare un fenomeno di “commistione tra diritto ambientale e civile”, ormai (purtroppo) frequentemente operato dai giudici amministrativi[xxxiii]. Se da un lato è infatti innegabile che anche la responsabilità aquiliana estesa al danno ambientale abbia la funzione intrinseca di rafforzare la protezione del bene ambiente (contemplando una tutela consistente nel risarcimento per equivalente monetario dei danni prodotti a carico del soggetto responsabile della contaminazione), è altrettanto vero che sussistono sostanziali differenze tra la portata di tale responsabilità ex 2043 c.c. e le norme contenute nel d.lgs.152/2006.

Queste ultime, anzitutto, prescindono dall’esistenza di una condotta dolosa o colposa del responsabile dell’inquinamento e di un illecito ambientale strictu sensu inteso, imponendo l’esecuzione degli interventi di risanamento ambientale in capo all’inquinatore anche laddove l’evento dal quale è scaturita la contaminazione risulti essere accidentale (a titolo esemplificativo, sversamento di liquidi da un automezzo) ovvero laddove la contaminazione sia derivata dall’esercizio di attività industriali perfettamente autorizzate in un periodo storico in cui la sensibilità ambientale era minore rispetto ad oggi (si pensi alle autorizzazioni rilasciate negli anni’ 60-70 all’esercizio di attività industriali, autorizzazioni che frequentemente consentivano il versamento di sostanze nel sottosuolo).

In secondo luogo, il nostro ordinamento prevede altresì un differente regime di onere della prova in capo all’attore (spesso il soggetto proprietario non responsabile) nell’azione di natura extracontrattuale per illecito ambientale ai sensi dell’art. 2043 c.c. rispetto all’azione di rivalsa di cui all’art. 253, c. 4 d.lgs.152/2006. Nel primo caso, infatti, la fondatezza dell’azione si rivelerà intrinsecamente connessa alla capacità dell’attore di dimostrare il dolo o la colpa (frequentemente la negligenza) del soggetto responsabile della contaminazione; la rivalsa, al contrario, prescinde totalmente dall’elemento soggettivo, essendo invero richiesta la previa esecuzione degli interventi di bonifica da parte dell’attore e la dimostrazione che la responsabilità (eventualmente già accertata in sede amministrativa da parte di Provincia-Città Metropolitana) sia imputabile al convenuto.

Sempre in sede di commento alle affermazioni della Plenaria, si pone una ulteriore considerazione di natura filosofico-interpretativa (non affrontata dalla sentenza) circa la “conoscibilità” della contaminazione da parte del successore a titolo universale[xxxiv].

Se infatti è indubbio che oggi, a fronte dell’acquisto di una società per fusione e incorporazione, i normali canoni di diligenza impongano – per mezzo della fase di due diligence – anche una analisi del c.d. pregresso storico della società (includente anche le attività e siti storicamente operati dalla stessa) al fine di comprendere le potenziali problematiche di natura ambientale “ereditabili” dal successore, è altrettanto vero che quelle operazioni societarie perfezionatosi antecedentemente al 1997 (o, ancor prima, al 1986) sono avvenute in vigenza di un quadro normativo inidoneo a diffondere una specifica sensibilità alle tematiche ambientali, con il che è evidente che il livello di diligenza al tempo richiesto non possa essere in alcun modo equiparato ai canoni odierni.

Occorrerebbe dunque domandarsi (aspetto questo non preso in considerazione dalla Plenaria) se una società risultante da una operazione di fusione o incorporazione perfezionatosi in un periodo storico antecedente l’emanazione della normativa ambientale (cioè prima della L. 349 del 1986 sul danno ambientale) potesse, a fronte di una contaminazione storica palesatasi solo in tempo recenti ed alla luce dei canoni di diligenza a quel tempo richiesti, essere consapevole o meno della potenziale sussistenza contaminazione.

Tale valutazione richiederebbe una analisi in concreto da parte dei giudici amministrativi, i quali sarebbero tenuti, caso per caso, ad effettuare un giudizio prognostico ex ante circa la potenziale conoscibilità, da parte del privato “incorporante”, di eventuali contaminazioni causate dalla società incorporata, anche alla luce delle attività esercitate da quest’ultima. Infatti, a parere di chi scrive, andrebbero tenute del tutto distinte – anche ai fini dell’imposizione degli obblighi di bonifica – le circostanze in cui la sussistenza di una contaminazione non potesse in alcun modo essere conoscibile o ipotizzabile al tempo dell’operazione societaria (si pensi, a titolo esemplificativo, all’acquisizione di una società esercente esclusivamente servizi, la quale risultava proprietaria di un immobile il cui terreno, solo in tempi recenti, si è rivelato essere contaminato da perdite di serbatoi interrati avvenute negli anni’70-80) dai casi in cui, al contrario, l’attività esercitata dall’incorporata potesse quantomeno far presumere la potenziale sussistenza di contaminazioni ambientali (a titolo esemplificativo, attività metallurgica).

3.1 Successioni a titolo particolare

Dai fenomeni di successione a titolo universale si differenziano le fattispecie di “successione a titolo particolare”, formula con la quale si intendono le vicende traslative che vedono il subingresso dell’avente causa solo in alcuni rapporti giuridici facenti capo al dante causa.

Sul tema del trasferimento degli obblighi di bonifica, la giurisprudenza amministrativa, se da un lato è costante nel sancire – come anticipato – la trasferibilità ex lege di tali obblighi in caso di successione a titolo universale[xxxv], dall’altro lato tende a negare detta trasferibilità laddove si verifichi una mera successione a titolo particolare.

Proprio la tematica del (mancato) trasferimento di obblighi di bonifica nel contesto di successioni a titolo particolare è stata oggetto di due recenti pronunce emesse dalla IV sezione del Consiglio di Stato[xxxvi], con la quale il Supremo Collegio ha ribadito che:

  1. in punto di mero diritto il conferimento di un’azienda – integrando sostanzialmente un’alienazione soggetta alle disposizioni degli art. 2558 ss. c.c. – notoriamente non comporta una successione a titolo universale (ma a titolo particolare), né da esso discende l’estinzione né l’incorporazione della conferente”; conseguentemente, “poiché la successione a titolo particolare non determina la liberazione del cedente dai debiti aziendali (art. 2560 c.c.)”, ne deriva che il dante causa rimane titolare, anche a seguito del conferimento del ramo di azienda, “dei debiti, degli obblighi e, in generale, delle situazioni giuridiche conseguenti alla sua pregressa attività nel sito”;
  2. ed, ancora più chiaramente, “nelle ipotesi di operazioni che determinano una successione a titolo particolare – com’è il caso del trasferimento dell’azienda o di un ramo d’azienda – non vi è trasferimento dello status di inquinatore. Ai fini della responsabilità amministrativa in esame, sono infatti irrilevanti tutti i negozi di natura privatistica relativi al conferimento di singoli beni inquinati, ancorché organizzati in aziende, che non comportino la successione nella persona del cedente ma solo nella titolarità del singolo bene o compendio”.

Quanto sopra esposto impone tuttavia talune precisazioni.

In primo luogo, il fatto che le successioni a titolo particolare non implichino il trasferimento ex lege degli obblighi di bonifica in capo all’acquirente non significa che quest’ultimo non possa essere mai considerato soggetto obbligato ad eseguire gli interventi di risanamento ambientale.

La suddetta circostanza si verifica in particolar modo laddove il cessionario di un ramo di azienda (ovvero anche al mero acquirente di un sito contaminato, c.d. “proprietario incolpevole”), ancorché soggetto non responsabile della contaminazione, si sia impegnato in via convenzionale direttamente con la Pubblica Amministrazione ad eseguire gli interventi di bonifica (si pensi, a titolo esemplificativo, nel contesto della riqualificazione urbanistica di un comparto)[xxxvii]. In tali casi la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto pienamente legittime le ordinanze di bonifica emesse dagli enti pubblici nei confronti dell’acquirente, prescindendo dall’assenza di responsabilità ambientali in capo a quest’ultimo.

In secondo luogo, si dà atto in questa sede di una recente pronuncia emessa dal TAR Lombardia-Brescia[xxxviii], la quale, sebbene non contesti apertamente il tradizionale indirizzo volto a sancire l’intrasferibilità dello status di inquinatore (e conseguenti obblighi di bonifica), parrebbe comunque aprire ad una possibile responsabilità solidale del successore a titolo particolare laddove il danno ambientale provocato dalla gestione pregressa risulti “già accertato in un provvedimento amministrativo divenuto pubblico, oppure se vi era conoscenza diretta della situazione per effetto di accordi con il cliente”.

Tale tesi, facente leva su una peculiare operazione interpretativa dell’art. 2560, c. 2 c.c. (ai sensi del quale “nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”), è chiaramente volta a contrastare quelle operazioni societarie strutturate ad hoc al fine di eludere la normativa ambientale, con particolare riferimento all’applicazione del principio “chi inquina paga”.

Difatti nella prassi non sono indubbiamente mancati casi in cui, a titolo esemplificativo, trasferimenti di rami d’azienda venissero posti in essere da due società con il preciso intento di rendere il dante causa una “scatola vuota” (privo di fondi propri idonei a far fronte agli obblighi di bonifica). Tale operazione avrebbe consentito di evitare che l’avente causa fosse soggetto alle conseguenze proprie di una successione a titolo universale (i.e. trasferimento della qualifica di “inquinatore” in capo all’incorporante, con obbligo di esecuzione dei relativi interventi di bonifica), facendo sì che i costi della bonifica del comparto venissero dunque sobbarcati dalle autorità pubbliche ai sensi dell’art. 250 del d.lgs.152/2006 (“Bonifica da parte dell’amministrazione”)[xxxix] attesa l’impossibilità economica per il soggetto responsabile di provvedere.

La bontà delle affermazioni del TAR dovrà comunque essere valutata dal Consiglio di Stato in quanto oggetto di appello.

  1. Responsabilità di gruppo

Il sopra richiamato orientamento giurisprudenziale diretto a contrastare fenomeni elusivi dell’applicazione della normativa in tema di bonifica dei siti contaminati risulta ancor più consolidato laddove vengano in rilievo le c.d. “operazioni infragruppo”, formula con la quale si riferisce alle operazioni societarie (generalmente strutturate in forma particolare) realizzate all’interno di un medesimo gruppo societario.

A testimonianza dell’attenzione riservata dai giudici amministrativi alla tematica in questione, anche recentemente il TAR Lombardia e il TAR Abruzzo[xl] hanno negato l’opponibilità alla Pubblica Amministrazioni di riorganizzazioni societarie infragruppo “quando abbiano lo scopo, o il risultato, di rendere più difficile la tutela degli interessi pubblici, nello specifico il conseguimento degli obiettivi di bonifica delle aree inquinate”.

In tale contesto risulta particolarmente discussa la posizione delle società controllate in quanto, con riferimento a queste ultime, possono naturalmente sorgere interrogativi circa l’effettivo esercizio di poteri di direzione e coordinamento da parte della società capogruppo volti in qualche modo ad “influenzare” la condotta inquinante della controllata. In altre parole, occorre domandarsi se, in caso di contaminazione formalmente addebitabile ad una società controllata, gli obblighi di bonifica sorgano limitatamente in capo a quest’ultima ovvero se ed in che termini, le responsabilità ambientali possano interessare anche la società controllante o l’intero gruppo.

La trattazione di detta problematica richiede necessariamente un previo coordinamento con le disposizioni civilistiche le quali, tuttavia, da un punto di vista letterale non forniscono aiuti significativi.

In particolare, alla “Direzione e coordinamento” è dedicato il Capo IX, Titolo V, Libro V del Codice Civile (artt. 2497 e ss) profondamente riformato ad inizio degli anni’2000 per far fronte al rischio di abusi da parte della società capogruppo.

Ai sensi della predetta disciplina, la società che esercita direzione e coordinamento può indicarsi come “dominante”, “controllante” o “capogruppo” ma, stando ad litteram degli stessi, non viene fornita una definizione esplicita di “direzione e coordinamento”, limitandosi ad indicare agli artt. 2497 sexies e septies, rispettivamente, presunzioni relative [xli] e la possibilità di apposite clausole statutarie[xlii].

Anche l’art. 2497 c.c., introduttivo della relativa disciplina e volto a disaminare l’ipotesi in cui la società capogruppo violi i «principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società […]» controllate, finisce per non delineare alcun criterio soddisfacente per identificare quando, in concreto, possa parlarsi di direzione/coordinamento da parte della società controllante, lasciando dunque a giurisprudenza e dottrina l’arduo compito della loro individuazione.

In materia amministrativa, la tematica qui in rilievo circa eventuali responsabilità ambientali della controllante, ovvero dell’intero gruppo, ha subito notevoli influssi ed interpretazioni all’interno della giurisprudenza, la quale tuttavia parrebbe oggi essere costante nell’accogliere – anche in materia ambientale – la concezione sostanzialistica di impresa (elaborata originariamente dalla giurisprudenza comunitaria in riferimento agli illeciti concorrenziali[xliii]) secondo cui vi è prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate. Di talché, come affermato all’interno della recente pronuncia del TAR Lombardia precedentemente menzionata[xliv], “l’attività delle società controllate deve essere vista in una logica di gruppo. Queste società sono vettori delle decisioni imprenditoriali del gruppo, e quindi operano sostanzialmente come organi del gruppo”.

La sussistenza di una eventuale responsabilità ambientale del gruppo per fatti della controllata è stata ad oggi principalmente affrontata dal TAR Abruzzo che, per la prima volta nel 2014 (sentenza 204/2014, riformata dal Consiglio di Stato, senza tuttavia entrare nel merito della questione), chiariva che la responsabilità per gli illeciti ambientali commessi dalle società controllate si sarebbe dovuta estendere alle società cd. madri «che ne detengono le quote di partecipazione in misura tale da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse (nel caso di controllo totalitario […] poi, l’assenza di autonomia decisionale è presunta)”[xlv]. In presenza di quanto appena esposto, ne derivava dunque la responsabilità della società madre a prescindere dall’applicabilità degli articoli 2497 e ss. c.c[xlvi] [xlvii].

Più recentemente, la tematica qui in rilievo è stata nuovamente affrontata dal TAR Abruzzo (sentenza n. 86/2019), il quale, confermando in buona sostanza l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato nel 2014, ha altresì espressamente statuito la legittimità di un ordine di bonifica impartito nei confronti della società controllante, ovvero “nei confronti di chi, come nel caso di specie, ha detenuto il 100% delle azioni della società operativa si è ovviamente giovato economicamente del prodotto di tali attività e inoltre ne ha influenzato in maniera determinante le scelte anche in tale campo (del resto, come noto, una simile partecipazione societaria costituisce quantomeno un elemento di prova in ordine alla imputabilità delle scelte a unico centro decisionale)”.

Sebbene considerazioni maggiormente precise debbano essere necessariamente rinviate in seguito (la pronuncia del TAR è stata appellata di fronte al Consiglio di Stato), sia comunque consentito in questa sede interrogarsi brevemente su taluni aspetti emersi alla luce di tale indirizzo giurisprudenziale.

In primo luogo, a parere di chi scrive, non può passare inosservata la particolare tecnica giuridica, utilizzata dai giudici amministrativi, diretta ad estendere le implicazioni sottostanti la “concezione sostanziale di impresa” ben oltre il settore anticoncorrenziale.

Sul punto occorrerebbe dunque domandarsi se il principio elaborato originariamente dalla giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza, proprio in ragione di ciò, debba essere di stretta interpretazione[xlviii] (e dunque non suscettibile di applicazione ad altri settori del diritto), ovvero se detto principio, al contrario, possa essere mutuato anche nella materia ambientale senza alcuna limitazione interpretativa.

Chiaramente risulta difficile rispondere in maniera definitiva a tale questione, considerando altresì che detto interrogativo finisce per coinvolgere – come correttamente evidenziato dallo stesso TAR Abruzzo – l’intera tematica del c.d. “spill over” dei principi comunitari (di cui all’art. 1 L. 241/1990), con il che poi ci si dovrebbe ulteriormente interrogare se la concezione sostanziale di impresa possa integrare la definizione di “principio comunitario” o meno.

In tale sede ci si limita ad evidenziare che lo stesso TAR, nel 2019, ha risposto positivamente alla posta questione, facendo sostanzialmente leva (in linea con giurisprudenza precedente[xlix]) sulla circostanza che una applicazione sostanzialistica del concetto di impresa finisce per “favorisce l’effetto utile dell’applicazione di principi fondamentali della materia comunitaria in questione, quale quello secondo cui “chi inquina paga”.

L’affermazione del TAR parrebbe sostenibile, atteso che la concezione sostanzialistica di impresa (formulata originariamente dalla Corte di Giustizia proprio al fine di infliggere le c.d. sanzioni antitrust anche ai soggetti che, pur non intervenendo direttamente sul mercato, indirizzavano le condotte delle relative controllate), sebbene non espressamente codificata né a livello europeo né a livello nazionale, è stata ormai implementata dalla giurisprudenza in ogni settore del diritto; dapprima, come correttamente sottolineato da attenta dottrina[l], nel settore dei conti annuali e del diritto tributario, successivamente nel diritto commerciale e, ancor più recentemente, nel contesto degli appalti pubblici[li].

Tale applicazione estensiva, dunque, potrebbe estendersi anche al settore delle contaminazioni ambientali (caratterizzato peraltro dall’esistenza di un interesse pubblico diffuso), il cui quadro legislativo fa ricadere i costi della eventuale mancata bonifica di un sito contaminato da parte del soggetto responsabile sulla intera collettività[lii].

Infine, un’ultima considerazione concerne l’onere della prova circa l’effettivo esercizio dei poteri di direzione e coordinamento da parte della società controllante nei confronti della controllata, atteso che, a parere di chi scrive, le due pronunce del TAR Abruzzo (2014 e 2019) non forniscono chiarimenti significativi in merito.

Partendo dal presupposto che nella prassi risulta molto complesso produrre in giudizio la prova dell’effettivo esercizio dei poteri di direzione e coordinamento della capogruppo (essendo pressoché impossibile accedere ad eventuali comunicazioni e/o delibere interne al gruppo societario), tale onere per la Pubblica Amministrazione potrebbe risultare ben minore.

Innanzitutto, le poche pronunce dei giudici amministrativi consentono comunque di tracciare una linea di distinzione tra le fattispecie nelle quali la società operativa (formalmente responsabile della contaminazione) risulti totalmente controllata dalla capogruppo (100% delle quote) ed i casi di mera partecipazione azionaria di minoranza in un organismo societario.

In quest’ultimo caso (i.e. società partecipata solo in via minoritaria), chiaramente l’onere della prova in capo alla Pubblica Amministrazione risulterà maggiormente stringente, atteso che una mera partecipazione azionaria di minoranza certamente non conferisce ex se la facoltà di intera gestione di una società.

Pertanto, in linea con quanto recentemente affermato dal Consiglio di Stato[liii], la PA, al fine di dimostrare la intensità ed incisività della partecipazione azionaria (tale da “determinare l’ascrizione di una diretta responsabilità per danno ambientale, che, di contro, presuppone il carattere materiale o, comunque, spiccatamente operativo dell’attività svolta dal soggetto ritenuto responsabile”), dovrà basare il proprio provvedimento di bonifica su “specifiche delibere”, “puntuali indirizzi vincolanti” e “ben individuate scelte di strategia gestionale formulate” dalla società titolare delle azioni nell’ambito della “vita sociale” della società operativa.

Al contrario, laddove la società operativa sia controllata al 100% da una capogruppo, è ragionevole ritenere (come fatto intendere dalle pronunce del TAR Abruzzo) che la P.A. possa considerarsi legittimata a ricorrere al meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., ormai pacificamente ammesso dalla giurisprudenza amministrativa in materia ambientale[liv] (sebbene non manchino ultimamente decisioni di segno opposto[lv]). Dunque l’Amministrazione procedente, in presenza di un soggetto responsabile dell’inquinamento sottoposto ad un pieno controllo da parte della società “madre”, potrà meramente presumere la sussistenza della direzione e coordinamento di quest’ultima, facendo in tal modo ricadere l’onere della prova proprio sulla capogruppo, che sarà a sua volta tenuta a provare l’effettiva dissociazione dalla condotta della controllata.

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Vanetti e Ugolini

NOTE:

[i] In particolare, i principi comunitari sono espressamente richiamati dall’art. 3 ter del d.lgs. n. 152/2006 e, con riferimento alle bonifiche, dall’art. 239, comma 1, del medesimo decreto.

[ii] Prima di un intervento sul diritto positivo (legge n. 349 del 1986), la tutela dell’ambiente era mediata dalla tutela di altri beni costituzionalmente protetti: salute (art. 32 Cost.) e paesaggio (art. 9 Cost.), che già aveva rappresentato il frutto di un’interpretazione giurisprudenziale “adeguatrice” della disciplina civilistica rispetto alla Carta fondamentale: sentenze della Corte Costituzionale numeri 151 e 153 del 1986.

[iii] P. MADDALENA, Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela dell’ambiente, in Cons. Stato, 1982, 13.

[iv] Con ciò la dottrina intende tutte quelle ipotesi in cui, per dolo o colpa, in violazione degli obblighi di servizio, abbiano autorizzato illegittimamente attività inquinanti e di degradazione del territorio.

[v] Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, firmato il 25 marzo 1957 ed entrato in vigore il 1 gennaio 1958.

[vi] «2. La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”».

[vii] Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

[viii] Organization for Economic Co-operation and Development, in italiano Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

[ix] Ossia il Programma di azione comunitario in materia ambientale.

[x] Non esistendo dunque presunzione assolute per di causalità evento – danno.

[xi] E. LECCESE, Danno all’ambiente e alla persona, Milano, Franco Angeli, 2011.

[xii] «Fintantoché tale livello non sarà stato determinato dai pubblici poteri, anche l’onere dei provvedimenti adottati da questi ultimi per evitare l ‘ inquinamento deve essere sostenuto dagli inquinatori, in applicazione del principio “chi inquina paga”».

[xiii] Art. 25 co. 2 dell’Atto Unico Europeo del 1987.

[xiv] P. MADDALENA, Nuovi indirizzi della Corte dei Conti, Diritto e Ambiente, 1984.

[xv] Corte Cost., Sent. n. 641 del 30 dicembre 1987; Corte Cass. Sent. n. 9211 del 1995.

[xvi] P. DELL’ANNO, Il danno ambientale ed i criteri di imputazione della responsabilità, in Riv. Giur. Ambiente, fasc. 1, 2000, pag. 1 (Relazione presentata alla Prima Conferenza Nazionale sulla tutela delle acque, organizzata dal Ministero dell’ambiente sull’attuazione del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, in Roma 28/30 settembre 1999).

[xvii] Come definite nella Direttiva 2000/60/CE – Direttiva europea sulle acque e nella Direttiva 2008/56/CE – Direttiva sulla strategia per l’ambiente marino.

[xviii] Come definita nella Direttiva 2009/147/CE – Direttiva sulla conservazione degli uccelli selvatici e nella Direttiva 92/43/CEE – Direttiva sugli habitat.

[xix] Attività elencate nell’All. III (es. raffinerie, attività chimico – estrattive, settori dell’energia ecc.).

[xx] Il D.M. 471/99 definiva “sito inquinato” quel sito che “presenta livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente naturale o costruito. Ai fini del presente decreto è inquinato il sito nel quale anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque sotterranee o nelle acque superficiali risulta superiore ai valori di concentrazione limite accettabili stabiliti dal presente regolamento”. Il d.lgs.152/2006 invero definisce oggi sito contaminato (art. 240) “un sito nel quale i valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR), determinati con l’applicazione della procedura di analisi di rischio di cui all’Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultano superati”.

[xxi] Si fa riferimento, in particolare, alla disposizione di cui all’art. 242, comma 1, ai sensi della quale:“Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione”.

[xxii] Art. 242, c. 11: “Nel caso di eventi avvenuti anteriormente all’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto che si manifestino successivamente a tale data in assenza di rischio immediato per l’ambiente e per la salute pubblica, il soggetto interessato comunica alla regione, alla provincia e al comune competenti l’esistenza di una potenziale contaminazione unitamente al piano di caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l’entità e l’estensione con riferimento ai parametri indicati nelle CSC…

[xxiii] Ex multis, TAR Lombardia, Milano, 987/2001 e, più recentemente, n. 1913/2007: “la normativa di cui al c.d. decreto Ronchi si applica a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica, dando luogo l’inquinamento ad una situazione di illecito a carattere permanente formata sia dalla condotta che dall’evento che perdura fino a che non ne vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente ritenuti accettabili”.

[xxiv] In merito risulta opportuno citare una recente decisione del TAR Lombardia – Brescia, 9 agosto 2018, n. 802, nella quale si afferma quanto segue: “Occorre quindi prendere in esame le contaminazioni storiche distinguendo i problemi che devono rimanere assoggettati a discipline diverse. Il punto di partenza è la considerazione che l’inquinamento ambientale è una condizione permanente, risolta solo con la bonifica o con il ripristino di stabili condizioni di sicurezza. Sul piano privatistico questo comporta il mancato decorso della prescrizione… Sul piano amministrativo significa che la qualificazione di una situazione come inquinamento deve essere effettuata sulla base della normativa attuale, in quanto la valutazione degli interessi pubblici, in questo caso ambientali, deve sempre avere il massimo grado di aggiornamento possibile. La responsabilità viene invece valutata in base a quanto in concreto si poteva storicamente esigere dagli autori dell’inquinamento, nel rispetto del principio di certezza del diritto. Più in dettaglio, è possibile individuare tre profili di analisi: (a) la qualificazione della situazione come inquinamento, attualmente da collegare ai valori delle CSC; (b) la definizione del contenuto degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica; (c) l’individuazione del responsabile, tenuto a eseguire i predetti interventi o a subirne il costo. Per i primi due profili trovano necessaria applicazione le norme comunitarie e nazionali attualmente in vigore, come del resto è espressamente stabilito dall’art. 242 comma 1 del Dlgs. 152/2006, che dichiara applicabile la stessa disciplina alle contaminazioni nuove e a quelle storiche (v. anche C.Giust. Sez. III 4 marzo 2015 C534/13, Ministero dell’Ambiente, punto 19). Per quanto riguarda la responsabilità, nel caso in esame, trattandosi di contaminazione storica, occorre applicare i principi generali in vigore all’epoca dei fatti, che possono essere individuati nella fattispecie ex art. 2050 c.c. (esercizio di attività pericolose). Sono da considerare pericolose non solo le attività già qualificate come tali da una norma, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno, avendo una spiccata potenzialità offensiva…Una volta accertata la pericolosità e ricostruito il nesso causale, la responsabilità ex art. 2050 c.c. è presunta, con onere per il soggetto che ha svolto l’attività pericolosa di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

[xxv] Fenomeno riconducibile alla successione a titolo universale è individuabile nella fusione tra società, di cui agli artt. 2501 e ss. del Codice Civile. L’art. 2504bis infatti prevede che la società incorporante subentri nella totalità dei rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata: in particolare, al momento dell’estinzione della società incorporata si determina la successione nei rapporti attivi e passivi e l’estinzione a sua volta è determinata dalla produzione degli effetti della fusione con la società incorporante.

[xxvi] Cassazione civile, Sez. III, 11 novembre 2015, n. 22998.

[xxvii] Tar Lombardia – Milano, Sez. I, Sent. 19 aprile 2007, n. 1913. Per un commento alla sentenza F. VANETTI, Bonifiche: successione tra imprese e inquinamenti storici, in Ambiente&Sviluppo, 12, dicembre 2007.

[xxviii] Consiglio di Stato, Sez. V, 05 dicembre 2008, n. 6055.

[xxix] Oltre all’impossibilità di applicare retroattivamente l’art. 17 del Decreto Ronchi ad una società estinta prima della sua entrata in vigore, in linea con quanto già affermato dal TAR Lombardia.

[xxx] Nella fattispecie, a seguito di attività inquinanti (derivanti dalla produzione di ammortizzatori per automobili) poste in essere, in particolar modo, negli anni 60’ e 70’ del secolo scorso, si erano succedute diverse operazioni societarie di fusione per incorporazione. Di talché, l’ordinanza provinciale volta ad imporre la bonifica di talune aree risultate inquinate da cromo esavalente e da solventi clorurati era stata emessa nei confronti della società “incorporante”.

[xxxi] Consiglio di Stato, sez. IV, 7 maggio 2019, n.2928, ord. Per un commento all’ordinanza in questione, S. ROVETA, La società incorporante risponde per l’inquinamento dell’incorporata? Osservazioni a margine della rimessione all’Ad.Plen. (nota a CDS ord. n. 2928/2019), in Ambiente&Sviluppo n. 7/2019.

[xxxii] A fini di completezza occorre rilevare che tali questioni di natura amministrativa-civilistica si intrecciavano altresì con aspetti attinenti propriamente il diritto societario. La riforma del diritto societario attuata nel 2003 ha infatti profondamente modificato l’art. 2504-bis, il quale – nella formulazione oggi vigente –dispone che “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”. Dunque, a seguito della novella apportata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la fusione fra società non comporta l’estinzione di un soggetto e correlativa creazione di un diverso soggetto, ma si determina una vicenda evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, in virtù del principio della continuità dei rapporti giuridici, anche processuali.

[xxxiii] A. QUARANTA, Per imporre le Mise al proprietario incolpevole è sufficiente che sia consapevole della contaminazione?, in Ambiente&Sviluppo, 2020, 2.

[xxxiv] Sul punto risulta opportuno richiamare l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato da TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 9 agosto 2018, n. 802 il quale (sebbene nel caso specifico si riferisse a successioni a titolo particolare) fornisce rilevanza – ai fini di una eventuale responsabilità solidale dell’acquirente per danni ambientali causati dal cedente – alla conoscenza (emersa nel corso delle trattative) o conoscibilità (esistenza di un provvedimento amministrativo pubblico) della passività ambientale.

[xxxv] Ex multis, TAR Veneto, Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 255: “Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente, essendo succeduta a titolo universale…a seguito della sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non si fosse estinta”.

[xxxvi] Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 maggio 2019, n. 2926 e 18 dicembre 2018, n. 7121.

[xxxvii] A titolo esemplificativo, per mezzo di stipula di convenzione urbanistica o di protocollo di intesa con gli enti pubblici competenti. Sul punto si veda F. VANETTI, L. UGOLINI, Gli obblighi convenzionali con la P.A. superano il principio “chi inquina paga”, in Rivista giuridica dell’ambiente, fasc. 1, 2017. Nel gennaio dell’anno in corso, il Consiglio di Stato (Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 567) ha confermato i principi affermati da TAR Veneto, Sez. III, 23 gennaio 2017 volti a fornire rilevanza – ai fini della legittimità dell’ordine di bonifica impartito dalla PA – all’esistenza di accordi convenzionali per mezzo dei quali il soggetto privato non responsabile della contaminazione si è obbligato nei confronti degli enti pubblici ad eseguire gli interventi di bonifica.

[xxxviii] TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 9 agosto 2018, n. 802.

[xxxix] Ai sensi del quale “Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.

[xl] TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 9 agosto 2018, n. 802. T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, 30 aprile 2014, n. 204.

[xli] Ai sensi dell’art. 2497 sexies: «Ai fini di quanto previsto nel presente capo, si presume salvo prova contraria che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’articolo 2359».

[xlii] Ai sensi dell’art. 2497 septies: «Le disposizioni del presente capo si applicano altresì alla società o all’ente che, fuori dalle ipotesi di cui all’articolo 2497-sexies, esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto con le società medesime o di clausole dei loro statuti».

[xliii] Corte di Giustizia CE, 25 ottobre 1983, causa 107/82.

[xliv] Inoltre, cancellazioni e trasformazioni operate dalla società controllata non liberano il gruppo o la capogruppo, e ciò “anche qualora l’attività imprenditoriale inquinante sia stata nel frattempo dismessa con successiva liquidazione della società controllata”. Ex multis, Consiglio di Stato sez. V, 05 dicembre 2008, n. 6055; Cfr. T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, 20 marzo 2019, n. 86 e TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 9 agosto 2018, n. 802.

[xlv] In linea con i dettami della giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, sentenze 48 e 57/1969), ai fini di un’imputazione unica della responsabilità per i gruppi di società, è necessaria la presenza di alcuni fattori che ne evidenzino la soggezione al controllo e alla direzione diretta della società cd. “madre”. Si può dunque affermare che non esista una presunzione assoluta di responsabilità unica, fatta eccezione per i casi in cui la partecipazione sia totale o quasi totale.

[xlvi] Ed è invero necessario puntualizzare che nel diritto processuale amministrativo e civile, quanto all’onere della prova, vige il principio del più probabile che non, e non quello penalistico più restrittivo che richiede la certezza della prova al di là di ogni ragionevole dubbio. Anche se, come si dirà in seguito, non sono mancate recentemente pronunce (minoritarie) di segno contrario.

[xlvii] Come correttamente rilevato da attenta dottrina (V. VITIELLO, La responsabilità ambientale della capogruppo, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, fasc.5, 2014) già in sede di commento alla menzionata pronuncia del TAR Abruzzo, quest’ultima ha lanciato “un messaggio molto chiaro ai gruppi societari molto strutturati e alle multinazionali che operano in Italia invitando questi soggetti a sentirsi sempre più responsabilizzati per le attività svolte sul territorio direttamente o tramite le loro società controllate”.

[xlviii] Considerando altresì che la disciplina di diritto interno, specie prima della riforma del 2003, non contemplava alcuna responsabilità del gruppo per le condotte poste in essere dalle società figlie

[xlix] Cons.Stato 6055/2008.

[l] U. PATRONI GRIFFI, Governo e responsabilità nei gruppi di imprese. Corporate groups governance. Vol. 42 / 2000.

[li] Si ricorda sul punto un recente orientamento giurisprudenziale in materia di appalti pubblici volto a fornire rilevanza alla continuità economica sussistente tra società cedente di un ramo di azienda e società cessionaria al fine di una possibile trasmissione dei gravi illeciti professionali sussistenti in capo alla prima e di un obbligo dichiarativo degli stessi in capo alla seconda (cfr. Cons.Stato n. 3331/2019: “Per quanto qui interessa, con il trasferimento del ramo d’azienda, così come sono stati trasferiti… i requisiti in base a quali la stessa ha potuto qualificarsi, con la medesima operazione societaria si sono trasferiti alla stessa gli illeciti professionali relativi al medesimo complesso aziendale – la risoluzione subita – e il relativo obbligo dichiarativo”).

[lii] Infatti, soggetto competente ad eseguire la bonifica in via residuale (i.e. laddove responsabile non provveda ovvero non sia individuabile e nel caso in cui non vi sia esecuzione spontanea da parte del proprietario) è la Pubblica Amministrazione.

[liii] Cons.Stato n.5027/2018.

[liv] Ex multis, Cons.Stato n. 2569/2015: ““Se è vero, infatti, che in applicazione degli invocati principi comunitari la responsabilità in materia ambientale non può essere di natura oggettiva, non potendo prescindersi dal fatto che la contaminazione o l’inquinamento debbano essere ricollegabili ad un comportamento (commissivo od omissivo) di un soggetto e a questi imputabile sotto il profilo psicologico, quanto meno a livello di colpa, deve sottolinearsi che l’imputazione dell’inquinamento ad un determinato soggetto può avvenire sia per condotte attive che per condotte omissive e la relativa prova può essere data in forma diretta o indiretta, potendo in quest’ultimo caso la pubblica amministrazione avvalersi anche di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., prendendo in considerazione elementi di fatto da cui si traggano indizi gravi, precisi e concordanti: sulla base di tali indizi deve risultare verosimile che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori”.

[lv] TAR Bolzano n. 284/2018: “Al riguardo, si rimanda al condiviso orientamento della giurisprudenza che esige -anche in tema di responsabilità ambientale – un rigoroso accertamento del nesso di causalità che lega il comportamento dell’autore all’effetto di contaminazione; il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni (cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 5076/2018; idem, sent. n. 3756/2015; idem, sent. n. 56/2013). Il citato approdo giurisprudenziale porta altresì ad escludere l’operatività in materia del criterio di imputazione “del più probabile che non”, essendo richiesta la prova certa che i fattori di inquinamento del sottosuolo abbiano avuto causa proprio nelle attività lavorative del soggetto ritenuto responsabile”.

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