di Paolo Bertolini
If we open a quarrel between the past and the present, we shall find that we have lost the future. Il discorso di Winston Churchill alla House of Commons del 18 giugno 1940, all’esito della Fall Gelb e a seguito degli effetti devastanti dei blitzkrieg tedeschi nell’Europa occidentale, appare quantomai attuale a fronte dell’emergenza sanitaria che il nostro Paese e il resto del mondo si sono trovati costretti ad affrontare.
Non è il momento di sprecare tempo ad addossare responsabilità.
È tempo dell’azione, e occorre che gli sforzi in questo momento siano focalizzati per la risoluzione della crisi sanitaria in atto.
Ma è anche l’ora della pianificazione per il futuro, è il momento di cambiare definitivamente rotta, di adeguare le politiche nazionali e sovranazionali, nonché le strategie delle imprese, per far fronte ai cambiamenti climatici e accelerare la transizione verso un’economia sostenibile.
Stanno emergendo studi in questi giorni sulla possibile correlazione tra la diffusione del SARS-CoV-2 e l’inquinamento atmosferico. Se pare probabile che la risposta anticorpale al virus possa essere stata in parte compromessa dall’esposizione dell’organismo umano all’inquinamento atmosferico (e ciò sarebbe dimostrato dalla maggiore incidenza del virus in aree più inquinate)[i], ci si spinge a ipotizzare che il particolato tossico abbia potuto fungere da carrier/booster del virus.
Si tratta di studi preliminari e di valutazioni scientifiche che esulano dalle competenze di chi scrive e sulle quali non ho alcuna presunzione di esprimermi, ma che, tuttavia, non possono che far riflettere, per l’ennesima volta, in merito alle perduranti e ingravescenti precarie condizioni in cui sta versando il nostro Pianeta.
Da un punto di vista giuridico, l’approccio metodologico nella lotta ai cambiamenti climatici sembra essere mutato negli ultimi tempi. Non si tratta solo ed esclusivamente di proteggere un bene fondamentale, quale l’ambiente, bensì di salvaguardare l’esistenza stessa del genere umano e di tutelarne il diritto alla vita, così come declinato, ad esempio, agli articoli 2 e 8 della CEDU.
Sul punto, la Corte Suprema olandese ha recentemente sancito (con sentenza del 20 dicembre 2019), nell’ambito della vicenda c.d. Urgenda, nella causa promossa contro lo Stato olandese[ii], come detti articoli, i quali sono appunto posti a tutela del “diritto alla vita” (articolo 2) e del “diritto al rispetto della vita privata e familiare” (articolo 8), trovino applicazione anche in relazione al problema globale relativo ai cambiamenti climatici[iii].
Più precisamente, la Corte Suprema olandese ha ritenuto che nonostante i rischi relativi ai cambiamenti climatici saranno in grado di concretizzarsi solo nel prossimo futuro e non avranno un impatto su uno specifico gruppo di persone ma, al contrario, su gran parte della popolazione, gli articoli 2 e 8 della CEDU possono essere invocati per ottenere protezione anche da questa minaccia. Ciò, secondo i giudici, è coerente con il principio di precauzione.
La Corte Suprema olandese, pertanto, ha confermato la sentenza della Corte d’appello dell’AIA emanata nell’ottobre del 2018, mediante la quale è stato sancito come lo Stato olandese debba procedere ad adottare le misure necessarie a ridurre le emissioni dei Paesi Bassi entro il 2020 di almeno il 25% rispetto ai livelli del 1990; l’obiettivo individuato dal Governo olandese del 17%, invero, è stato considerato insufficiente per la lotta ai cambiamenti climatici.
È inevitabile che la decisione della Corte Suprema olandese, nonché i principi da essa sanciti, si ripercuoteranno sui contenziosi relativi ai cambiamenti climatici attualmente pendenti dinanzi alle corti europee, nonché sulle iniziative che potrebbero essere avanzate nei confronti di soggetti pubblici e privati nel corso del prossimo futuro.
Azioni similari a quella avviata dalla ONG Urgenda sono attualmente pendenti dinanzi ai tribunali di Irlanda e Francia. Più precisamente, in Irlanda l’associazione Friends of the Irish Environment (FIE) ha citato in giudizio il governo irlandese sostenendo come il “National Mitigation Plan”, pensato per ottenere un’economia a basse emissioni entro il 2050, sia incompatibile con gli impegni assunti dall’Irlanda, inter alia, in materia di diritti umani, in quanto le previsioni in esso contenute, ad avviso di FIE, non sarebbero sufficienti a conseguire notevoli riduzioni di emissioni nel breve periodo. Il caso è attualmente pendente dinanzi alla High Court of Ireland e dovrebbe essere definito nel corso del 2020[iv].
In Francia, invece, il comune di Grande-Synthe, particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici (si trova al di sotto del livello del mare), ha avviato nel gennaio del 2019 una controversia, attualmente pendente dinanzi al Conseil d’Etat, al fine di compulsare un intervento legislativo del governo francese finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.
In via generale, negli ultimi quattro anni vi è stato un aumento esponenziale delle cause avviate da cittadini e associazioni nei confronti di governi, nonché nei confronti di società private, aventi ad oggetto domande strettamente connesse ai cambiamenti climatici. Attualmente, si contano più di 1400 casi in tutto il mondo, inclusi più di 250 casi al di fuori del territorio degli Stati Uniti d’America.
È evidente come tale trend sia stato favorito da due fondamentali pietre miliari dell’ultimo decennio. Ci si riferisce, in primo luogo, all’adozione, nel 2011, da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, dei “Principi Guida sulle imprese e i diritti umani” (UN Guiding Principles on business & human rights) con i quali sono stati predisposti degli standard internazionali a cui fare riferimento nella gestione dei rischi connessi alla potenziale violazione di diritti umani nell’ambito delle attività economiche. In secondo luogo, occorre citare altresì l’altrettanto fondamentale Accordo sul Clima di Parigi del dicembre 2015 con il quale è stato predisposto un piano di azione globale finalizzato all’adozione di misure di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici. Ed è proprio in tale accordo che è stato sancito uno stretto rapporto biunivoco tra il rispetto dei diritti umani e i profili connessi ai cambiamenti climatici. Nel preambolo dell’Accordo di Parigi, si legge infatti che i sottoscrittori dell’accordo si impegnano al rispetto dei diritti umani, del diritto alla salute, dei diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei bambini, delle persone con disabilità e, in generale, delle persone in situazioni vulnerabili in relazione all’implementazione di azioni e misure finalizzate ad affrontare le problematiche connesse ai cambiamenti climatici.
I contenziosi che sino a poco tempo fa sono stati promossi solo ed esclusivamente nei confronti di soggetti pubblici vengono ora rivolti anche nei confronti di soggetti privati, soprattutto nel settore dell’oil&gas e del cemento (c.d. “Carbon Majors”), che, secondo alcune tesi, sarebbero maggiormente responsabili per il cambiamento climatico in corso.
Vi sono controversie avviate da associazioni a tutela di specifici interessi, come quella promossa nel 2018 dalla Pacific Coast Federation of Fishermen’s Associations contro Chevron Corp. e altri, pendente dinanzi alla US District Court – Northern District of California[v] in cui un’associazione di categoria di pescatori ha citato in giudizio alcune delle principali società attive nel settore oil&gas ritenendole responsabili per i danni subiti dall’industria ittica in California a seguito di una proliferazione di alghe asseritamente attribuibile al cambiamento climatico in corso.
Vi sono cause, poi, avviate da investitori a fronte dell’asserita mancanza di adeguata informativa in merito ai rischi climatici da parte delle società emittenti di strumenti finanziari. Si segnala, a tal proposito, la controversia promossa dinanzi alla Federal Court of Australia, sempre nel 2018, da un beneficiario di un fondo pensione contro il fondo REST (Retail Employees Superannuation Trust)[vi], ove l’attore lamenta la mancata disclosure dei profili connessi all’esposizione del fondo medesimo ai rischi connessi ai cambiamenti climatici.
Sussistono, inoltre, casi nei quali le controversie sono state promosse dai soci della società ritenuta responsabile di cambiamenti climatici. La prima causa di questo genere è stata una class-action promossa da un gruppo di investitori statunitensi contro Exxon Mobil Corporation nel 2016[vii] a seguito di un crollo del valore delle azioni di Exxon del 13%. Più precisamente, in tale contesto è stato sostenuto dagli attori che Exxon avrebbe comunicato al mercato informazioni ingannevoli con riferimento alla valorizzazione di alcuni asset che, invece, alla luce di nuove disposizioni in materia di protezione dai gas a effetto serra, avrebbero dovuto essere parzialmente dismessi.
In Europa, Client Earth, un’associazione non-profit, socia di Enea SA, una società energetica polacca, ha promosso nell’ottobre del 2018 una causa contro quest’ultima presso il Tribunale Regionale di Poznan in Polonia[viii], sostenendo come la scelta della medesima società di costruire una centrale a carbone potesse compromettere gli interessi dei soci, alla luce di una strategia ancora fondata sulle fonti fossili e non più in linea con l’esigenza di contenere le emissioni di gas a effetto serra per contrastare i cambiamenti climatici in atto.
Un altro interessante contenzioso attualmente pendente in Europa è stato avviato nel novembre 2015 dal signor Saàl Lliuya, un agricoltore che vive a Huaraz, in Perù, dinanzi al tribunale regionale di Essen[ix], per richiedere un risarcimento dei danni contro RWE, il più grande produttore di energia elettrica in Germania. La tesi del sig. Lliuya si fonda sull’assunto che RWE, emettendo notevoli volumi di gas a effetto serra, avrebbe consapevolmente contribuito al cambiamento climatico e, pertanto, sarebbe responsabile per lo scioglimento dei ghiacciai montani vicino a Huaraz al quale è conseguito un notevole aumento volumetrico del lago glaciale Palcacocha. Secondo la tesi dell’attore, l’innalzamento del lago glaciale avrebbe causato danni per il sig. Lliuya e per le comunità residenti presso Huaraz e, pertanto, avrebbe costretto i medesimi ad adottare misure di mitigazione per contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Il sig. Lliuya ha chiesto alla corte di ordinare a RWE di rimborsarlo per una parte dei costi sostenuti per l’adozione delle misure di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e, precisamente, per una percentuale dello 0,47%, pari al contributo di RWE alle emissioni globali asseritamente responsabili del cambiamento climatico nel periodo compreso tra il 1751 e il 2010.
Mentre il tribunale di prime cure ha respinto le domande proposte dal sig. Lliuya ritenendole inammissibili, la Corte Regionale di Hamm[x], con decisione del 30 novembre 2017, ha riconosciuto la domanda ammissibile e il procedimento è ora in fase istruttoria al fine di determinare se (i) la casa del sig. Lliuya sia stata minacciata da inondazioni o frane a causa del recente aumento del volume del lago glaciale situato nelle vicinanze e (ii) le emissioni di gas serra della RWE abbiano contribuito a tale rischio.
Sebbene le circostanze fattuali alla base di questa controversia siano ancora in fase di accertamento, l’ammissibilità stessa della domanda giudiziale formulata da un cittadino nei confronti di una società privata potenzialmente responsabile per i danni legati ai cambiamenti climatici segna uno sviluppo significativo nel relativo contenzioso.
Soci e investitori, ONG e cittadini, pertanto, stanno giocando un ruolo sempre più fondamentale nella partita sui cambiamenti climatici, e le doglianze contro le società nelle quali hanno investito si concentrano principalmente su due aspetti: (i) l’impossibilità di esercitare consapevolmente e pienamente i loro diritti in assenza di una adeguata disclosure in merito ai rischi connessi ai cambiamenti climatici e alla tutela dei diritti umani, nonché (ii) il pregiudizio subito ai loro interessi a fronte dell’utilizzo non trasparente delle informazioni e conoscenze su tali tematiche.
Il crescente interesse per tali problematiche ha condotto le istituzioni a valutare l’avvio di iniziative finalizzate a stabilire un quadro regolatorio in cui una chiara e trasparente disclosure di tali rischi dovrà divenire un principio cardine. Ci si riferisce, in particolare, al piano di azione sulla finanza sostenibile adottato dall’Unione Europea che si è posto tre obiettivi principali: (i) riorientare i flussi finanziari verso investimenti sostenibili, al fine di raggiungere una crescita inclusiva e sostenibile; (ii) gestire i rischi finanziari che derivano dai cambiamenti climatici, dal deterioramento dell’ambiente, nonché dai problemi sociali; nonché (iii) favorire la trasparenza a lungo termine nelle attività economiche e finanziarie. Le iniziative legislative attualmente in corso (c.d. EU Sustainable Finance Package) includono, inter alia, l’individuazione di un chiaro quadro regolatorio al fine di consentire alle società regolamentate di includere una valutazione dei profili di c.d. ESG (Environmental Social and Governance) nei processi decisionali, nonché l’individuazione di una tassonomia condivisa che possa essere una guida per l’individuazione degli investimenti che siano effettivamente da considerarsi sostenibili.
Ad esclusione della Direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 254 del 30 dicembre 2016, relativa alla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni, non sussistono, attualmente, fonti normative nazionali o europee che stabiliscono dei criteri vincolanti per la valutazione dei rischi connessi alla violazione dei diritti umani, anche con riferimento ai cambiamenti climatici. Anche il c.d. EU Sustainable Finance Package, che potrebbe fornire degli spunti in tal senso, è ancora lontano dalla sua definitiva e complessiva approvazione che è ragionevolmente prevista per il 2021[xi].
Dunque, ci si muove attualmente in un quadro di “soft law” che, tuttavia, non deve far sottovalutare agli operatori l’assenza di un’adeguata ponderazione del rischio connesso a tali tematiche. I rischi climatici, la protezione delle risorse naturali, gli impatti sulle comunità locali, per citarne alcuni, rappresentano dei driver che devono orientare sempre di più le scelte di qualsiasi impresa e che devono essere tenuti in considerazione da qualsiasi operatore, non solamente da quelle società con business maggiormente impattanti, in via diretta, in termini di emissioni di gas a effetto serra. L’adozione di un codice etico per i fornitori, lo svolgimento di un’attenta due diligence e la predisposizione di una vera e propria policy in materia di tutela dei diritti umani, nonché la nomina di uno specifico comitato endoconsiliare, rappresentano solo alcuni degli strumenti che le imprese dovrebbero valutare di adottare per non farsi trovare impreparate da un inevitabile impatto che i cambiamenti climatici avranno sulla valutazione dei rischi connessi alla governance e alla compliance.
Governi e imprese non possono più considerare il cambiamento climatico come un fattore al di fuori del loro controllo, poiché esso sarebbe un fenomeno di natura “sovranazionale”, o di cui valutarne solamente gli impatti diretti. Occorre considerare come il cambiamento climatico rappresenti sì un problema al quale occorre una risposta globale comune, ma che non può prescindere dall’impegno di ciascun individuo e da ciascuna organizzazione poiché esso incide direttamente sul diritto alla vita, sancito dall’Articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nonché dagli articoli 2 e 8 della CEDU i quali, come stabilito dalla Suprema Corte olandese, ben potrebbero essere invocati, anche sulla base del diritto interno degli stati aderenti alla convenzione medesima, per fondare una domanda finalizzata a ottenere interventi concreti per mitigare rischi e/o impedire le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Il SARS-CoV-2 sta ahimè insegnando in questi giorni a non dare nulla per scontato, a spingere la valutazione dei rischi su scenari sino ad ora inimmaginabili.
Mi auguro che lo sforzo che stiamo compiendo in queste settimane non sia vano, ma che aiuti a far riflettere tutti. Una non corretta pianificazione e la continua sottovalutazione di problemi (ancorché remoti) potrebbero condurre, invero, a conseguenze gravissime e, come abbiamo potuto vedere, all’adozione di misure restrittive di diritti fondamentali, quali la libertà di movimento e il diritto alla privacy. Siamo ancora in tempo, forse, per abbracciare il futuro.
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[i] Sul punto, si veda il contributo di E. Maschietto, Virus e cambiamento climatico: una relazione pericolosa, in questa Rivista, Numero Speciale (#stiamoacasa), Aprile 2020.
[ii] De Staat Der Nederlanden v. Stichting Urgenda 20 Dicembre 2019.
[iii] In merito alla sentenza della Corte Suprema olandese si veda il contributo di N. de Sadeleer, Une politique trop frileuse de réduction des émissions de gaz à effet de serre viole les articles 2 et 8 la Convention Européenne des Droits de l’Homme, in questa Rivista, Numero Speciale (#stiamoacasa), Aprile 2020.
[iv] The Supreme Court of Ireland – Case No. S:AP:IE:2019:000205 – Friends of the Environment CLG v. The Government of Ireland.
[v] United States District Court, Northern District of California, San Francisco Division – Case No. 3:18-cv-7477 – Pacific Coast Federation of Fishermen’s Associations INC. v. Chevron Corp and others.
[vi] Federal Court of Australia, McVeigh v. Retail Employees Superannuation Pty Ltd – Case No. NSD 1333 of 2018.
[vii] United States District Court, Northern District of Texas, Dallas Division – Civil Action No. 3:16-CV-3111-K – Pedro Ramirez Jr. v. Exxon Mobil Corporation.
[viii] Sąd Okręgowy w Poznaniu IX Wydział Gospodarczy – Fundacji CLIENTEARTH Prawnicy dla Ziemi w Warszawie v. ENEA SA w Poznaniu.
[ix] Essen Regional Court, Case No. 2 O 285/15.
[x] Higher Regional Court of Hamm, Case No. 5 U 15/17.
[xi] Un’importante iniziativa sul tema è costituita dalla c.d. EU Conflict Mineral Regulation che entrerà in vigore a far data dal 1° gennaio 2021 (Regolamento (UE) 2017/821 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017). Si tratta, tuttavia, di una normativa specifica che trova applicazione solo ed esclusivamente alle imprese attive nel settore dell’estrazione, commercio e utilizzo dei c.d. “minerali provenienti da zone di conflitto”, ovvero lo stagno, il tungsteno, il tantalio e l’oro. Le imprese alle quali troverà applicazione tale normativa dovranno, inter alia, (i) stabilire solidi sistemi di gestione aziendale, (ii) individuare e valutare i rischi nella catena di approvvigionamento, (iii) progettare e attuare una strategia volta ad affrontare i rischi individuati, (iv) far eseguire un audit indipendente e una due diligence nella catena di approvvigionamento; (v) elaborare una relazione annuale sull’attività di due diligence nella catena di approvvigionamento.