Riparazione del danno al terreno e bonifica del sito contaminato: differenze e aspetti critici

01 Apr 2022 | articoli, contributi

di Antonio Aruta Improta

Il Decreto Legislativo n. 152/2006, comunemente denominato Codice o Testo Unico Ambientale, non offre una nozione di danno ambientale onnicomprensiva. Difatti, all’articolo 300, rifacendosi espressamente alla Direttiva-quadro 2004/35/CE a cui ha dato attuazione, distingue in modo puntuale le ipotesi di danno alle specie e agli habitat naturali protetti, di danno alle acque e, infine, di danno al terreno.

Per di più, il medesimo testo quando definisce specificatamente il danno al terreno non dà rilevanza alla lesione di questa risorsa naturale in sé considerata, bensì al «rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente» (v. Art. 300, II comma).

Tale singolare visione antropica, poi, si ritrova anche nelle successive norme sulla riparazione dei danni ambientali, la cui attuazione può realizzarsi attraverso due procedimenti di natura amministrativa, alternativi alla possibile via giudiziaria, in apparenza diversi tra loro ma eguali nella sostanza. L’uno, il “ripristino”, di matrice europea, disciplinato agli articoli 305 e seguenti; l’altro, il “risarcimento”, invece, ideato dal legislatore italiano, definito agli articoli 311-316 del Codice Ambientale.

Più nello specifico, nelle ipotesi di danno alle prime tipologie di risorse naturali, si deve effettuare, in primo luogo, la c.d. “riparazione primaria”, ossia l’insieme delle misure di ripristino concreto, volte a riportare le risorse e/o i servizi di esse compromessi alle condizioni originarie, precedenti al danno. Se, poi, la prima riparazione risulta incompleta o impossibile, bisogna dare luogo alla c.d. “riparazione complementare”, finalizzata a compensare il mancato ripristino delle risorse naturali interessate dal danno con risorse e/o servizi equivalenti. Con la c.d. “riparazione compensativa”, infine, si intraprendono azioni il cui unico scopo è compensare, con i medesimi criteri di equivalenza risorsa-risorsa e servizio- servizio, la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali a partire dall’evento dannoso fino al completamento della riparazione primaria.

Diversamente, nel caso di danno al terreno devono essere attuate tutte le misure idonee a rimuovere, circoscrivere o diminuire qualsiasi agente inquinante presente nel terreno che possa compromettere la salute umana, previo azionamento di procedure di valutazione del rischio «che tengono conto della caratteristica e della funzione del suolo, del tipo e della concentrazione delle sostanze, dei preparati, degli organismi o microrganismi nocivi, dei relativi rischi e della possibilità di dispersione degli stessi».

Le misure, in ogni caso, devono vagliare la fattibilità del ripristino effettivo del terreno senza interventi umani diretti (v. Art. 302, IX comma e Allegato 3, I-II comma).

Ancora, le norme sulla riparazione dei danni ambientali, contenute nella Parte Sesta del Codice, non sono retroattive e prevedono un regime di responsabilità ambientale sia oggettiva, basata sul solo nesso di causa-effetto, sia colposa, imputabile unicamente all’“operatore”. Attribuiscono, altresì, allo Stato, nella persona dell’odierno Ministro della Transizione Ecologica, le competenze istruttorie e decisorie nell’ambito dei procedimenti amministrativi per la riparazione dei pregiudizi all’ecosistema, nonché la legittimazione ad agire in giudizio per il risarcimento del danno ecologico, qualora sia ritenuta più opportuna la via giudiziaria (v. Artt. 298-bis, I comma, 303, lett. f), 304, 305, 306, 306-bis e 311).

Tuttavia, le disposizioni sulla riparazione del danno al terreno non sono le uniche ad affrontare questa fattispecie particolare di contaminazione. Infatti, agli articoli 239 e seguenti, Parte Quarta, del Codice Ambientale, viene disciplinata la “bonifica dei siti contaminati”, un ulteriore procedimento di natura amministrativa avente ad oggetto «l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)…». Dove per CSR, in specie, si intendono «i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l’applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell’Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica…» (v. Art. 240, I comma, lett. c) e p)).

Oltretutto, le disposizioni in tema di bonifica, diversamente da quelle sulla riparazione del danno ambientale, hanno efficacia retroattiva, prestabiliscono un regime di responsabilità unicamente colposa, imputabile, tra l’altro, al soggetto ritenuto semplicemente “responsabile”, e attribuiscono le relative competenze istruttorie e decisorie in capo alle Regioni e agli Enti locali. (v. Art. 242).

A ciò si aggiunga il fatto che con la Legge Europea n. 97/2013, è stata abrogata la lettera i), dell’art. 303, del Codice, che escludeva l’applicazione delle disposizioni sul danno ambientale nei casi di contaminazione del terreno per i quali fosse avviata o intervenuta la bonifica del sito, di cui agli artt. 239 e ss. del Codice, salvo la rimanenza di un danno ambientale una volta conclusa la procedura di bonifica.

Tale modifica venne imposta dalla Commissione dell’UE nell’ambito della procedura d’infrazione n. 2007/4679, la quale ritenne che la disposizione abrogata non fosse conforme alle previsioni dell’articolo 4 della Direttiva 2004/35/CE, e che le autorità italiane non avessero chiarito la portata della norma in questione, con particolare riguardo alla finalità di delimitare l’ambito di applicazione delle due diverse discipline. (v. Parere motivato complementare della Commissione europea del 26 gennaio 2012, parte in diritto, lett. C) “L’esclusione prevista dall’art. 303, lettera i), del decreto legislativo 152/2006: violazione degli articoli 3 e 4 della direttiva”).

In proposito, l’articolo 298-bis, introdotto con la Legge Europea, al III comma stabilisce quanto segue: «Restano disciplinati dal titolo V della parte quarta del presente decreto legislativo gli interventi di ripristino del suolo e del sottosuolo progettati ed attuati in conformità ai principi ed ai criteri stabiliti al punto 2 dell’allegato 3 alla parte sesta nonché gli interventi di riparazione delle acque sotterranee progettati ed attuati in conformità al punto 1 del medesimo allegato 3, o, per le contaminazioni antecedenti alla data del 29 aprile 2006, gli interventi di riparazione delle acque sotterranee che conseguono gli obiettivi di qualità nei tempi stabiliti dalla parte terza del presente decreto».

Ma per quanto riguarda le contaminazioni al terreno successive, la nuova norma non stabilisce nulla circa l’ordine di applicazione delle diverse discipline sulla bonifica e sulla riparazione del danno ambientale.

In dottrina, già prima della Legge Europea vi era chi sosteneva il carattere residuale della disciplina sulla riparazione del danno ambientale rispetto a quella sulla bonifica, nelle ipotesi in cui gli Enti locali, quali primi legittimati ad agire con la procedura della bonifica, non fossero stati in grado di ripristinare in tutto o in parte il sito contaminato. Tale residualità, si poteva ricavare dalla vecchia disposizione dell’art. 303, lett. i), del Codice, che, come analizzato, posponeva l’applicazione della Parte Sesta rispetto alla Parte Quarta sulla bonifica, e dalle disposizioni dell’art. 311 del Codice. Queste ultime, in specie, tutt’ora prevedono, nonostante la procedura d’infrazione n. 2007/4679, la residualità del risarcimento del danno ambientale per equivalente patrimoniale rispetto al risarcimento dello stesso danno in forma specifica. Da qui, l’interpretazione secondo cui la bonifica consisteva nella riparazione delle componenti ambientali lesionate in forma specifica, qualora vi fosse un rischio di effetti nocivi per la salute umana; mentre in assenza di detto rischio, trovavano applicazione le norme della Parte Sesta per la riparazione delle sole risorse naturali in sé considerate (v. G. Taddei, Il rapporto tra bonifica e risarcimento del danno ambientale, in Ambiente&Sviluppo, 5/2009).

Un’interpretazione, quest’ultima, non convincente, soprattutto perché l’art. 300 del Codice, già esistente, definisce a tutt’oggi in modo specifico anche l’ipotesi del danno al terreno, che si distingue dalle altre ipotesi di danno alle specie e agli habitat naturali protetti, nonché alle acque, proprio perché considera primariamente l’eventuale rischio per la salute umana. E ciò trova conferma anche nelle menzionate disposizioni sulla riparazione di tale danno, finalizzata, per l’appunto, a rimuovere in primo luogo detto rischio. Oltremodo, l’articolo 117 della Costituzione, non a caso, attribuisce espressamente allo Stato anche la competenza legislativa in merito alla tutela dell’ambiente.

Altri autori, invece, hanno intravisto nella disciplina sulla bonifica dei siti contaminati “un vero e proprio modello alternativo di responsabilità ambientale” (v. L. Prati, Responsabilità per danno all’ambiente e bonifica dei siti contaminati, IPSOA – Gruppo Wolters Kluwer, 2011, p. 119), o, più semplicemente, una disciplina distinta e contrapposta a quella sulla riparazione del danno ambientale (v.

  1. Gianpietro, Bonifica e danno ambientale: due discipline a confronto, in Ambiente&Sviluppo, 1/2012).

Sul tema, la Corte Costituzionale si è espressa chiaramente. Difatti, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 della Costituzione, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 311, I comma, del Codice Ambientale, nella parte in cui viene attribuita unicamente allo Stato, nella persona dell’odierno Ministro della Transizione Ecologica, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale. Così come ha escluso, categoricamente, la legittimazione concorrente o sostitutiva delle Regioni e degli Enti locali sul cui territorio si è verificato il danno ambientale (v. Corte Costituzionale, sentenza n. 126/2016).

In seguito, anche la Corte di Cassazione ha deposto in tal senso, ribadendo, altresì, che gli altri soggetti interessati dal danno ambientale, persone fisiche o giuridiche, incluso le Regioni e gli Enti locali, possono sempre agire in giudizio – ex art. 2043 c.c. – per il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, subìto a causa del danno ecologico verificatosi (v. Corte di Cassazione penale, sentenza n. 35610/2016).

Pertanto, alla luce delle suddette considerazioni giurisprudenziali e della persistente contrapposizione delle due discipline sulla bonifica dei siti contaminati e sulla riparazione dei danni ambientali, appare doveroso riportare la questione all’attenzione della Commissione Europea e provvedere quanto prima sul piano legislativo: eliminare, preferibilmente, la concorrente Parte Quarta sulla bonifica, oppure, in subordine, introdurre una nuova disposizione che faccia almeno chiarezza circa l’applicazione delle due discipline, evitando, in tal modo, ulteriori “impantanamenti” delle Pubbliche Amministrazioni interessate alla riparazione dei siti compromessi.

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Bonifica e riparazione danno ambientale

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