Terre e rocce da scavo: impossibile affrancarsi dalla etichetta di “rifiuto”.

20 Mag 2021 | giurisprudenza, penale

di Salvatore Rocco

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 19 gennaio 2020 (dep. 15 marzo 2021), n. 9954 – Pres. Sarno, Est. Ramacci – Ric. PM in proc. Tozzi

La sussistenza dei requisiti di applicabilità della disciplina sulle terre e rocce da scavo di cui all’art. 186 d.lgs. 152/06 deve essere accertata in fatto dal giudice del merito sulla base di dati fattuali oggettivi e non può essere dimostrata da chi ne invoca l’applicazione sulla base dei meri contenuti cartolari di progetti, accordi, dichiarazioni di intenti ed atti similari, mentre, per ciò che concerne titoli abilitativi, non è sottratta al giudice del merito la possibilità di valutarne la validità ed efficacia.

1.      Il “fatto”.

Con ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p., il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze impugnava la sentenza del 30 ottobre 2017 con cui il Tribunale del capoluogo toscano aveva assolto gli imputati − per insussistenza del fatto − dalle quattordici imputazioni formulate a vario titolo per i reati di: (a) attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti; (b) illecita gestione di rifiuti; (c) discarica abusiva.

La vicenda giudiziaria traeva origine da una serie di «interventi effettuati per la Società “Autostrade per l’Italia s.p.a.” in relazione ai lavori denominati lotto 11, 12 e 13 della variante di valico per la realizzazione di tratti autostradali»[1]. Si trattava, come noto, di una parte dei lavori per la complessiva realizzazione del tratto autostradale appenninico classificato “A1 var”, compreso tra le località di Sasso Marconi (BO) e Barberino del Mugello (FI), più comunemente noto come “variante di valico”. In particolare, i lavori contemplavano: (1) l’ammodernamento del tratto appenninico dell’autostrada A1 − rispettivamente − tra le località Sasso Marconi e La Quercia, da un lato, e tra Aglio e Barberino di Mugello, dall’altro, con la costruzione di una terza corsia di marcia; (2) la costruzione di un nuovo tracciato autostradale, appunto l’autostrada “A1 var”, parallelo all’originale tratto dell’autostrada A1 tra le località di La Quercia e Aglio. I lotti 11, 12 e 13 comprendevano la realizzazione del tratto autostradale da Badia Nuova a Barberino.

Focalizzandosi sugli interventi di scavo di gallerie, la Pubblica Accusa aveva ipotizzato una serie di reati in materia ambientale connessi alla gestione, asseritamente erronea e quindi illecita, del materiale di risulta «proveniente dalla escavazione di tunnel»[2], in particolare di «smarino composto da terra e rocce, detriti di demolizione dei diaframmi di cemento, frammenti di barre di VTR e fanghi di perforazione»[3], trattato dalle imprese coinvolte nelle lavorazioni come sottoprodotto ai sensi e per gli effetti degli artt. 184-bis e 186 D. Lgs. n. 152/2006 (di seguito, Testo Unico in materia Ambientale o “T.U.A.”); viceversa, secondo la Procura di Firenze quegli stessi materiali avrebbero dovuto essere gestiti come rifiuti, stante la compresenza di additivi e residui chimici potenzialmente inquinanti nonché frazioni “estranee” alle terre e rocce da scavo[4]. Ebbene, il Tribunale di Firenze, con una motivazione ampia e articolata, aveva assolto tutti gli imputati ritenendone invece regolare la gestione alla luce di una altrettanto corretta qualificazione come sottoprodotti − ex artt. 184-bis e 186 T.U.A. − e non rifiuti.

Avverso tale pronuncia, dunque, la Procura di Firenze proponeva ricorso “per saltum” fondato su undici motivi; per quanto interessa in particolare in questa sede, con i motivi dal quarto al nono il Procuratore della Repubblica di Firenze denunciava una serie di violazioni di legge in relazione alla nozione di rifiuto ed alle disposizioni regolanti i sottoprodotti e le terre e rocce da scavo, richiamati nelle premesse della sentenza in commento[5].

2.      Brevi osservazioni alla decisione della Suprema Corte.

La trattazione del ricorso per saltum era quindi attribuita alla III Sezione Penale della Corte di Cassazione, competente per materia[6]. Ebbene, con una decisione particolarmente elaborata la Suprema Corte affrontava numerose questioni in materia di terre e rocce da scavo, giungendo ad accogliere il ricorso e annullando di conseguenza la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Firenze ai sensi dell’art. 569, comma 4, c.p.p.

2.1. Terre e rocce da scavo: rifiuto o sottoprodotto. Onere della prova.

Anzitutto, la Corte ha messo a fuoco l’oggetto di analisi: «il fulcro della questione … era, in buona sostanza, quello di individuare la natura dei materiali risultanti dalle operazioni di costruzione del tratto autostradale e, conseguentemente, la rispondenza a legge della loro gestione», sicché «il giudice era chiamato a stabilire, in primo luogo, se detti materiali fossero rifiuti o altro, poiché il problema della classificazione riguarda esclusivamente i rifiuti»[7]. Pertanto, era determinante stabilire se il materiale di risulta delle citate lavorazioni dovesse qualificarsi come “rifiuto”, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a) T.U.A., oppure se lo stesso non rientrasse in tale nozione poiché «compreso tra quelli esclusi dalla disciplina di settore dall’art. 185 d.lgs. 152/06» o «tra i sottoprodotti o, comunque, nell’ambito di applicazione di disposizioni aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria»[8].

A tal proposito, la Suprema Corte ha ribadito un principio oramai granitico nella giurisprudenza di legittimità: nel momento in cui si afferma una qualificazione diversa da quella (“regolare” e “ordinaria”) di rifiuto, con applicazione di una differente disciplina, «occorre dimostrare che sussistono i presupposti per tale diversa qualificazione e l’onere della prova … grava su ne invoca l’applicazione»[9]. Onere della prova che, peraltro, non potrebbe essere validamente soddisfatto mediante «contratti, dichiarazioni dei soggetti coinvolti, accordi, o altre manifestazioni di volontà o di intenti comunque espressi»[10], specie con riferimento al requisito della “certezza del riutilizzo” (cfr. art. 184-bis, comma 1, lett. b) T.U.A. e art. 186, comma 1, lett. b) T.U.A.).

Ebbene, tale irremovibile presa di posizione sottenderebbe una concezione chiaramente “rifiuto-centrica”, che la dottrina più attenta non ha tardato a definire tolemaica poiché superata dall’evoluzione normativa nel frattempo intervenuta (ad ogni livello)[11], la quale ha nitidamente sovvertito il rapporto, in termini di regola-eccezione, tra rifiuto e ciò che non lo è (sottoprodotto ex art. 184-bis T.U.A., end of waste di cui all’art. 184-ter T.U.A., non-rifiuto ex art. 185 T.U.A.); difatti, senza dubbio il legislatore, tanto nazionale quanto sovranazionale, ha sposato un approccio in materia ambientale che limiti nel maggior grado possibile la produzione di rifiuti, se non altro in considerazione dell’impatto ineludibile sulle matrici ambientali provocato proprio dal rifiuto in quanto tale, al fine di favorire un’economia effettivamente circolare e del “riciclo”. Della rivoluzione copernicana che ha investito la Parte IV del T.U.A. è prova tangibile, tra l’altro, il tenore testuale dell’art. 179 T.U.A., rubricato “Criteri di priorità nella gestione dei rifiuti”, secondo cui la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto di una ben definita gerarchia di “azioni” che vanno dalla prevenzione allo smaltimento, quest’ultimo concepito chiaramente come extrema ratio. L’intero sistema normativo in materia ambientale, dunque, è oggi informato al principio della promozione «in via prioritaria» della «prevenzione della produzione dei rifiuti»[12].

Peraltro, non si comprendono le ragioni per cui l’onere della prova in merito ai requisiti per l’applicazione della disciplina sui sottoprodotti dovrebbe gravare sull’interessato[13], né perché tale prova − rispetto alla certezza del riutilizzo − non possa essere fornita, ad esempio, mediante contratti. La statuizione della Suprema Corte secondo cui «la certezza del riutilizzo … dovrà essere dimostrata sulla base di dati oggettivi e riscontrabili, dovendosi conseguentemente escludere che contratti, dichiarazioni dei soggetti coinvolti, accordi, o altre manifestazioni di volontà o di intenti comunque espressi possano ritenersi idonei allo scopo»[14] desta infatti perplessità, specialmente se letta alla luce del D.M. n. 264/2016 in materia di residui di produzione[15]: l’art. 5 del citato D.M. afferma chiaramente che, ai fini della “certezza dell’utilizzo” del residuo di produzione in altro ciclo produttivo, «costituisce elemento di prova l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori, dai quali si evincano le informazioni relative alle caratteristiche tecniche dei sottoprodotti, alle relative modalità di utilizzo e alle condizioni della cessione che devono risultare vantaggiose e assicurare la produzione di una utilità economica o di altro tipo».

Pertanto, a fronte di un contesto normativo radicalmente mutato, l’assunto giurisprudenziale granitico per cui la disciplina dei rifiuti avrebbe carattere “ordinario”[16] risulterebbe essere non più attuale.

2.2. I requisiti normativi richiesti per l’applicazione della disciplina sui sottoprodotti.

Una volta precisato il tema centrale nella “economia” della decisione, la Suprema Corte ha ritenuto che il Tribunale di Firenze avesse sostanzialmente errato, da un lato, nell’escludere «la natura di rifiuto del materiale escavato» e, dall’altro, nel considerare «osservata la disciplina sulle terre e rocce da scavo» come sottoprodotto[17]. Più in dettaglio, dopo aver ribadito che tale ultima disciplina – più volte modificata nel corso del tempo – subirebbe la ben nota «ripartizione dell’onere probatorio» poiché «rientrante tra quelle aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti», la Corte ha richiamato un ulteriore principio consolidato relativo alla «manifesta necessità, ai fini dell’applicabilità della specifica disciplina, della coesistenza di tutti i requisiti richiesti dalla legge»[18], in difetto della quale l’utilizzazione delle terre e rocce da scavo «ne comporta la sottoposizione alla disciplina generale in materia di rifiuti»[19]. Ebbene, aderendo alla tesi della Procura ricorrente, la Corte ha affermato che la coesistenza dei requisiti dettati dalla normativa per la gestione come sottoprodotti fosse stata indebitamente riconosciuta dal Giudice del merito.

Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che il Tribunale avesse correttamente qualificato i materiali derivanti dalle attività di scavo come appartenenti al genus delle terre e rocce da scavo, in linea con la disciplina legislativa dettata dal D. Lgs. n. 22/1997, prima, e dall’art. 186, comma 7, T.U.A., poi, sebbene i materiali di risulta fossero costituiti da «smarino composto da terra e rocce, detriti di demolizione dei diaframmi di cemento, frammenti di barre di VTR e fanghi di perforazione». Al riguardo, la Corte condivideva anche la considerazione del Tribunale secondo cui «l’attività di frammentazione o macinatura di terre e rocce da scavo non costituisce un’operazione di trasformazione preliminare ai sensi dell’art. 186, d.lgs. 152/06, in quanto non determina, di per sé stessa, alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientale», sicché le operazioni di asciugatura, cernita, vagliatura e separazione − cui veniva sottoposto in particolare lo “smarino” − dovevano ritenersi rientranti nella “normale pratica industriale” ai sensi dell’art. 184-bis T.U.A., non costituendo viceversa una «preventiva attività di trasformazione finalizzata al riutilizzo»[20] che sarebbe risultata ostativa all’applicabilità della disciplina sui sottoprodotti ai sensi degli artt. 184-bis, comma 1, lett. c) e 186, comma 1, lett. c) T.U.A.

Tuttavia, ancorché i predetti materiali fossero stati correttamente qualificati come “terre e rocce da scavo”, il Tribunale di Firenze avrebbe nondimeno errato nel considerarli sottoprodotti, poiché − dalla ricostruzione emersa all’esito del dibattimento − non risultavano sussistenti con certezza gli altri requisiti normativi imposti dagli artt. 184-bis e 186 T.U.A.

2.3. La (piena) compatibilità ambientale.

In particolare, riteneva la Corte che nel caso concreto non ricorresse il requisito della (piena) compatibilità ambientale: rilevava infatti la Corte che il Tribunale, pur avendo riconosciuto «la presenza, nello smarino, di alcune sostanze» potenzialmente inquinanti, avrebbe aprioristicamente escluso un possibile pregiudizio per l’ambiente, con affermazioni «basate non su dati effettivi, bensì su una personale convinzione»; un simile modo di procedere si poneva in contrasto con il dettato normativo dell’art. 186 T.U.A. per cui «l’assenza di pregiudizio ambientale richiesta dalla norma deve essere considerata nel senso che si richiede una verifica in concreto e non anche basata su valutazioni teoriche o principi generali»[21].

Peraltro, sempre con riferimento al requisito della compatibilità ambientale, la Suprema Corte denunciava un ulteriore errore del Tribunale, il quale avrebbe adottato una lettura dell’art. 186 T.U.A. per cui «le terre e rocce da scavo non devono incidere negativamente [soltanto] sul sito di destinazione», mentre «ogni altro effetto inquinante, per così dire “collaterale”, non escluderebbe la possibilità di applicare il regime di favore stabilito dall’art. 186»[22]. Ebbene, a giudizio della Corte una simile interpretazione «non trova riscontro nel tenore stesso della disposizione in esame, la quale pone espressamente specifiche condizioni per l’eccezionale utilizzazione delle terre e rocce da scavo ottenute quali sottoprodotti, volte alla massima cautela sotto il profilo della tutela ambientale non soltanto perché finalizzate ad evitare che tale attività si risolva in una surrettizia gestione di rifiuti, ma anche per evitare ogni rischio conseguente al reimpiego dei materiali escavati»; al contrario, le esigenze di tutela ambientale imposte dalla normativa sui sottoprodotti (art. 184-bis T.U.A.) «vanno assicurate costantemente nel corso dell’intera attività», poiché il reimpiego di terre e rocce da scavo «sarebbe illegale … se non venissero soddisfatti, per il loro utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente senza impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana»[23]. Pertanto, ritiene la Corte che «l’art. 186 abbia inteso assicurare la massima tutela ambientale in tutte le fasi di riutilizzo dei materiali escavati, il che non consente di circoscrivere gli effetti di quanto in tal senso stabilito e deve inoltre ritenersi che il tenore stesso della lett. f) nella prima parte esclude, in maniera ampia, ogni possibilità di negativo impatto ambientale, mentre la seconda parte puntualizza il senso di quanto stabilito in precedenza (“in particolare deve essere dimostrato che…”), sicché ogni conseguenza negativa deve essere comunque evitata (si pensi al caso in cui la composizione chimica o fisica del materiale determini, durante l’intero processo, negative interazioni con gli agenti atmosferici, oppure rilasci sostanze inquinanti nelle falde sottostanti, etc.)»[24].

Sul punto, la posizione assunta dalla Suprema Corte sembrerebbe improntata ad eccessiva severità: la normativa in materia di terre e rocce da scavo non impone di «evitare ogni rischio conseguente al reimpiego dei materiali escavati»[25], né richiede l’assenza – nel riutilizzo dei medesimi – di qualsiasi impatto negativo sulle matrici ambientali. Al contrario, l’art. 186 T.U.A. al comma 1 prevedeva che il riutilizzo delle terre e rocce da scavo:

  • dovesse garantire un elevato (e non il “massimo”) livello di tutela ambientale[26];
  • non dovesse dare luogo ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate, confermando, quindi, che alcuni impatti ambientali sono ampiamente ammissibili[27].

Del resto, nel momento in cui il Tribunale ha focalizzato la valutazione dell’impatto ambientale delle terre e rocce da scavo nel sito prescelto per il riutilizzo, a ben vedere non ha fatto altro che applicare − ad avviso di scrive, correttamente − il dettato normativo dell’art. 186 T.U.A., il quale prevedeva che:

  1. l’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo sia tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate[28];
  2. il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonché la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione[29].

Era stesso il testo normativo, quindi, a legare a doppio filo la compatibilità ambientale delle terre e rocce da scavo alle matrici proprie del sito di destinazione, se non altro perché la valutazione dell’impatto varia in modo significativo al mutare delle stesse. Pertanto, risulta condivisibile l’assunto del Tribunale per cui esisterebbe «una stretta relazione causale tra le caratteristiche fisico-chimiche delle TRS ed il pericolo di inquinamento delle matrici ambientali del sito di abbancamento, sicché qualsiasi altra causa di inquinamento che non derivi dall’utilizzo delle TRS è estranea alla focale»[30] della normativa.

2.4. La certezza del (tempestivo) riutilizzo.

Ancora: ad avviso della Suprema Corte nella ricostruzione fornita dal Tribunale di Firenze difetterebbe pure «il requisito della certezza dell’integrale utilizzo di cui all’art. 186, lett. b) d. lgs. 152/2006»[31], che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale deve pur sempre «essere dimostrata sulla base di dati oggettivi e riscontrabili, dovendosi conseguentemente escludere che contratti, dichiarazioni dei soggetti coinvolti, accordi, o altre manifestazioni di volontà o di intenti comunque espressi possano ritenersi idonei allo scopo»[32]. Al requisito del sicuro riutilizzo si aggiungerebbe altresì «il dato temporale, attraverso il quale viene stabilito un limite entro il quale deve avvenire il reimpiego», desumibile dai commi 2 e 7 dell’art. 186 T.U.A.[33]. Sul punto, il Tribunale aveva ritenuto rispettato il requisito della certezza (tempestiva) del riutilizzo una volta «depositate le terre nel sito» di destinazione, sebbene «l’opera sarà realizzata in altro tempo»[34]; il Tribunale negava, invece, che «la mancata ultimazione delle opere finali determini per questo la riconduzione delle TRS alla categoria dei rifiuti speciali»[35]. Al riguardo, il Tribunale precisava che non si dovrebbe confondere, infatti, «l’utilizzo del sottoprodotto con la realizzazione dell’opera, che invece vanno mantenuti distinti», sicché la sussistenza della certezza del riutilizzo entro i limiti temporali previsti dalla normativa devono «essere valutati con riferimento alla collocazione del materiale nel luogo del reimpiego entro il termine stabilito, non assumendo alcun rilievo il destino successivo, con la conseguenza che, se anche l’opera da realizzare con tale materiale non venisse completata, ciò sarebbe irrilevante»[36].

Nondimeno, ad avviso della Suprema Corte si tratterebbe di una lettura dell’art. 186 T.U.A. «non condivisibile, che risulta contraria alle finalità che la disposizione chiaramente persegue e che renderebbe fin troppo agevole porre in essere condotte elusive della disciplina dei rifiuti», poiché anticiperebbe modo ingiustificato «il momento in cui si verifica il riutilizzo delle terre e rocce, conseguentemente sollevando il detentore da ogni successiva responsabilità circa la sorte del materiale, preclude la possibilità di una verifica sulla oggettiva e riscontrabile sussistenza del requisito ed, inoltre, consentirebbe, teoricamente, anche il mantenimento a tempo indeterminato di tali materiali sul luogo di destinazione per il solo fatto di essere stati collocati in cantiere secondo quanto indicato in progetto»[37].

Al riguardo, non vi è dubbio che lo stoccaggio delle terre e rocce da scavo protrattosi notevolmente nel tempo possa essere indice sintomatico della volontà di disfarsi delle stesse[38], e quindi dissimulare un deposito (incontrollato) di rifiuti[39]; nondimeno, si tratta di un assunto che dovrebbe essere provato in concreto e − secondo i principi generali del diritto penale − dalla Pubblica Accusa. Una prova che dovrebbe essere ancora più stringente quando l’effettivo riutilizzo del materiale dipenda da numerosi fattori sottratti alla facoltà di intervento dell’interessato e da variabili caratterizzate da un alto tasso di incertezza, circostanze senza dubbio presenti nella realizzazione di una grande opera di ingegneria civile di interesse pubblico. D’altronde, una (eccessiva) responsabilizzazione del produttore sulla “sorte” delle terre e rocce da scavo rischierebbe di generare un cortocircuito in termini di surrettizia responsabilità per fatto altrui laddove, ad esempio, le stesse siano cedute a terzi per essere poi − appunto − da costoro riutilizzate.

2.5. L’applicazione retroattiva della disciplina extra-penale.

Infine, a fronte del settimo motivo di doglianza della Procura di Firenze, tale per cui il Tribunale avrebbe attribuito alla disciplina delle terre e rocce da scavo contenuta – in particolare – nel D. M. n. 161 del 2012 una «valenza integratrice del precetto penale, applicando retroattivamente norme tecniche extra-penali non integratrici del precetto, successive rispetto alle condotte contestate e qualificative di taluni dei requisiti del sottoprodotto ora per allora»[40], la Corte di Cassazione coglieva l’occasione per ribadire un ulteriore principio: non è ammissibile un’applicazione retroattiva della disciplina di “rango” normativo secondario succedutasi nel regolamentare la materia delle terre e rocce da scavo[41].

Anche sotto quest’ultimo profilo la posizione di chiusura della Suprema Corte rischia, ad avviso di chi scrive, di rivelarsi eccessivamente tranchant: posto che la disciplina − anche di grado secondario − contribuisce a delineare le condizioni, tecniche e formali, in presenza delle quali le terre e rocce da scavo debbano considerarsi rifiuto oppure sottoprodotto, non si comprende il diniego della funzione integratrice del precetto. è noto, infatti, che nel novero delle norme integratrici della legge penale «debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola», nonché quelle comunque incidenti «nella struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso»[42]; di conseguenza, considerato che i rifiuti sono l’oggetto delle fattispecie incriminatrici declinate al Capo I del Titolo VI del T.U.A., e che la disciplina anche secondaria concorra pacificamente alla definizione di ciò che “rifiuto” non è, allora non vi è dubbio che la stessa integri − sebbene in negativo − il precetto penale[43]. D’altronde, stesso nella giurisprudenza della Corte di Cassazione è pacifico che la «natura di rifiuto» sia «acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo della produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis … )»[44].

3.      Conclusioni

Alla luce di quanto detto sinora, la consolidata tendenza della Corte di Cassazione a rileggere come una «surrettizia gestione di rifiuti»[45] ogni caso pratico in cui ci si discosti dalla relativa disciplina rischia di rivelarsi una forzatura in punto di diritto: le più lodevoli ragioni di realpolitik e di contrasto della criminalità organizzata (le “ecomafie”) non possono portare a ritenere sempre fraudolentemente elusa la disciplina sui rifiuti. Per quanto riguarda, in particolare, le terre e rocce da scavo, l’esegesi normativa fornita dalla giurisprudenza di legittimità è a tal punto draconiana, da renderne di fatto impossibile il rispetto. In altri termini, ad un esame delle pronunce della Suprema Corte ci si avvede l’applicazione alle stesse della disciplina sui sottoprodotti sia un po’ come lo “zero kelvin”: immaginabile in teoria, irrealizzabile nella pratica.

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Cass. III_9954_2021

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RGA Online – Salvatore Rocco – maggio 2021 (def)

Note

[1] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 1.

[2] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 26.

[3] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 26.

[4] In particolare, secondo la prospettazione accusatoria soltanto con il D.M. n. 161/2012 − e poi con il d.P.R. n. 120/2017 − tali “frazioni estranee” quali (tra l’altro) vetroresina e miscele cementizie avrebbe potuto essere ricompresi nella più ampia nozione di “materiali da scavo” ex art. 1 comma 1 lett. b) D.M. n. 161/2012 e poi di “terre e rocce da scavo” ex art. 2, comma 1, lett. c) d.P.R. 120/2017 senza pregiudicarne la qualificazione come sottoprodotti.

[5] Cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, parr. da 6 a 11.

[6] L’estensione della motivazione era affidata al Dott. Luca Ramacci, autorevole Consigliere della Corte dalla significativa competenza ed esperienza in materia ambientale.

[7] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 27 e par. 28.

[8] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 28.

[9] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 28.

[10] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[11] Cfr. A. Muratori, Sottoprodotti: la Suprema Corte in difesa del sistema tolemaico? (in) Ambiente&Sviluppo, 2012, VII.

[12] Così, art. 180 T.U.A.

[13] D’altronde, una simile inversione dell’onere della prova non sembra potersi desumere dalla lettura dell’art. 186, comma 5, T.U.A., il quale disponeva che «le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti», ancorché l’art. 186 prevedesse – alla lettera g) del comma 1 – la necessità di dimostrare la certezza dell’utilizzo integrale.

[14] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[15]Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”. Tale disciplina, pur non trovando applicazione, ai sensi dell’art. 3, rispetto alle terre e rocce da scavo, rappresenta senz’altro un valido punto di riferimento esegetico anche rispetto a queste ultime.

[16] Tale da meritare regolare applicazione salvo eccezioni debitamente provate (con le note limitazioni che, a rigore, non risulterebbero contemplate dalla disciplina di riferimento) da chi invochi un regime normativo differente.

[17] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 28.

[18] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 30.

[19] Cfr. art. 186, comma 5, T.U.A.

[20] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 34.

[21] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 39.

[22] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 41.

[23] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, part. 40

[24] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[25] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 40.

[26] Art. 186, comma 1, lett. d) T.U.A.

[27] Art. 186, comma 1, lett. c) T.U.A.

[28] Art. 186, comma 1, lett. c) T.U.A.

[29] Art. 186, comma 1, lett. f) T.U.A.

[30] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 40.

[31] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[32] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[33] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 42.

[34] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 43.

[35] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 43.

[36] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 43.

[37] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 43.

[38] «Ciò che rileva giuridicamente è la certezza del riutilizzo; mentre il passare di un tempo eccessivo e/o non tecnicamente giustificato/bile si configura semmai solo come “indizio” o “presunzione” di una (diversa) volontà contraria (di abbandono)», così P. Giampietro – A. Scialò, Il sottoprodotto, il fresato d’asfalto e la “normale pratica” (nota a Consiglio di Stato, n. 4151/2013), (in) lexambiente.it, 28 gennaio 2014.

[39] «Sia la P.A. che gli organi di controllo suppongono che il fresato (come qualsiasi altra sostanza) − ove venga per lungo tempo depositato, stoccato o raccolto in modo tecnicamente inidoneo − riveli, de facto, una chiara volontà, da parte del produttore o del terzo, di non avere alcuna intenzione di riutilizzarla effettivamente. E che, in questi casi, la qualifica assegnata a detto materiale (dagli operatori interessati) sia strumentalmente adottata per sottrarsi al più oneroso regime dei rifiuti. Insomma, il ritardo nel riutilizzo del fresato ovvero un suo deposito improprio o duraturo viene letto − alcune volte correttamente altre aprioristicamente o per eccesso di prudenza − come un atteggiamento fraudolento o elusivo della legislazione ambientale», così P. Giampietro – A. Scialò, Il sottoprodotto, il fresato d’asfalto e la “normale pratica” (nota a Consiglio di Stato, n. 4151/2013), (in) lexambiente.it, 28 gennaio 2014.

[40] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 9.

[41] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 44. Al riguardo, nel tempo è intervenuto prima il D.M. n. 161/2012 e successivamente il d.P.R. n. 120/2017.

[42] Così, Corte Cass. pen., Sez. V, sent. n. 8045/2005.

[43] La qualifica delle terre e rocce da scavo «come rifiuti ovvero “sottoprodotti” costituisce il presupposto logico giuridico per valutare la sussistenza o meno delle ipotesi incriminatrici previste dal Titolo IV, Capo I (“Sanzioni”) della Parte Quarta del T.U.A.», così P. Giampietro, Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo secondo il D.M. n. 161/2012, (in) lexambiente.it, 21 novembre 2012.

[44] Così, tra le tante, Corte Cass. pen., Sez. III, n. 46586/2019.

[45] Corte Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9954/2021, par. 40.

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