di Margherita Benedini
CASSAZIONE PENALE, Sez. III 25 novembre 2021 (ud. 30 settembre 2021) n. 43333 – Pres. Andreazza – Est. Reynaud – ric. D.S.D.
I rifiuti non pericolosi, sottoposti a sequestro in relazione ad un’ipotesi di reato, non sono beni di cui sia penalmente rilevante la fabbricazione, l’uso, il porto o la detenzione e pertanto, in caso di sentenza assolutoria, non possono essere confiscati ai sensi del secondo comma, n. 2 dell’art. 240 c.p. ma devono essere restituiti all’avente diritto e smaltiti in base alla disciplina applicabile agli stessi.
Il Tribunale di Ivrea aveva assolto il ricorrente dal reato di ricettazione, ascrittogli al capo b) dell’imputazione, e lo aveva invece condannato ad Euro 4.000 di ammenda per avere raccolto dei rifiuti di rame da soggetti privati in mancanza dell’autorizzazione necessaria (contestazione di cui al capo a)).
La sentenza del Tribunale veniva impugnata innanzi alla Corte di Cassazione per due motivi.
Con il primo motivo di gravame, il ricorrente deduceva la violazione dell’art. 240 c.p.p. ed il vizio di motivazione in quanto la confisca era stata disposta non soltanto sul materiale oggetto della contestazione sub a), in relazione alla quale era intervenuta la condanna, ma anche con riferimento a dei blocchi d’acciaio, oggetto della contestazione di ricettazione per la quale vi stata assoluzione.
L’imputato, con il secondo motivo, ricorreva per la violazione dell’art. 184 ter, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006 e per vizio di motivazione perché la condanna era intervenuta in mancanza di alcune valutazioni del Giudice di merito.
In particolare:
- il Tribunale non aveva considerato l’illegittimità della prescrizione contenuta nell’autorizzazione in possesso del ricorrente che gli vietava di ritirare rifiuti in rame da privati consentendogli però quella stessa attività se eseguita in favore di imprese operanti in alcuni, selezionati, settori;
- secondo il ricorrente, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, l’autorizzazione in suo possesso non escludeva espressamente il ritiro di “rifiuti di rame provenienti da privati” ed anzi consentiva il ritiro dei rifiuti con codice CER 20.01.40, ovverosia di metalli;
- infine, i criteri di cui al D.M. 5 febbraio 1998 richiamati nella suddetta autorizzazione contraddicevano la previsione di cui all’art. 184 ter, comma 3, del Testo Unico Ambientale, inserita nel 2010 e vigente all’epoca dei fatti.
L’esame della Corte cominciava dal secondo motivo di gravame il quale veniva ritenuto inammissibile sia per la genericità delle doglianze rispetto alle argomentazioni poste dal Tribunale a sostegno dell’apparato motivazione sia perché il ricorso di fatto tentava di ottenere dalla Corte una nuova e diversa valutazione di temi squisitamente di merito.
A tal proposito rammentava la sentenza che è fatto divieto alla Cassazione di dare una nuova valutazione agli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, salvo che il vaglio della Corte si limiti alla congruità e logicità della valutazione eseguita dalla sentenza ricorsa.
Quanto alla genericità dei motivi di gravame, la Corte precisava che tale difetto affligge il ricorso non solo in caso di vaghezza delle argomentazioni dell’impugnazione ma anche quando non vi sia correlazione tra i temi posti a sostegno del ricorso e le ragioni addotte dal giudice a fondamento della propria decisione.
Nel caso di specie, il ricorso dell’imputato non si era confrontato con le reali riflessioni che sorreggevano l’apparato motivazionale – ovverosia che l’autorizzazione in suo possesso fosse conforme al progetto presentato dal medesimo richiedente – ed aveva invece (ri)proposto alla Corte una valutazione sul contenuto amministrativo della medesima autorizzazione, la quale, oltre che irricevibile in sede di legittimità, risultava in ogni caso già affrontata e congruamente risolta dal Giudice di merito.
Il primo motivo di ricorso, invece, veniva giudicato fondato da parte della Corte.
La sentenza del Tribunale aveva infatti stabilito che dovesse essere sottoposto a confisca tutto il materiale che era stato sequestrato in sede di perquisizione, nonostante parte di esso (20.000 kg di acciaio pressato) fosse oggetto del reato di ricettazione in relazione al quale l’imputato era stato assolto.
La stessa motivazione fornita dal giudice di merito si riferiva però soltanto al capo a) dato che il Tribunale scriveva che il provvedimento era giustificato dal fatto che la società dell’imputato non era autorizzata a ritirare tale tipologia di materiale (ovverosia, la condotta contestata sub b, per la quale vi era stata condanna) in tal modo evidentemente individuando il materiale come prodotto del reato, come tale confiscabile solo in caso di condanna.
Qualora invece intervenga una sentenza assolutoria, i rifiuti non pericolosi non possono essere qualificati come materiale la cui fabbricazione, detenzione, uso o porto sia reato e, pertanto, non è applicabile la disciplina di cui all’art. 240, comma II, n. 2 del codice penale.
La Corte stabiliva perciò l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva disposta la confisca del materiale in relazione al quale l’imputato era stato assolto.
Il punto saliente della decisione in esame è da individuarsi nel valore attribuito alla confisca prevista all’art. 240 del codice penale la quale, a differenza – per esempio – della confisca prevista dal Testo Unico Ambientale all’art. 260-ter, che integra una misura punitiva e sanzionatoria, è caratterizzata invece da una finalità principalmente risarcitoria e/o ripristinatoria.
La decisione in esame è assai succinta, ragion per cui non è chiaro se la decisione del Giudice di merito di mantenere la confisca su tutto il materiale sequestrato, a prescindere dal giudizio finale sulle relative imputazioni, debba essere ascritto ad un errore materiale della sentenza del Tribunale ovvero ad un’errata valutazione dei concetti di prodotto del reato e di cose intrinsecamente vietate.
Mentre nel primo caso si tratta del “frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita” (come definito in Cass. SS. UU n. 9149 del 1996), di talchè la sua illiceità è diretta conseguenza del modo attraverso il quale è stato conseguito, nella seconda ipotesi, invece, la confisca si rende necessaria anche nelle ipotesi in cui non vi sia stata la condanna per ragioni di pubblica sicurezza, in quanto la libera circolazione di siffatte cose rappresenterebbe di per sé un pericolo o un disvalore.
La natura squisitamente ripristinatoria (e non sanzionatoria) della confisca di cui all’art. 240 c.p. rende oltremodo imprescindibile che la cosa oggetto della stessa sia illecita, vuoi perché frutto di un reato vuoi perché penalmente rilevante in re ipsa.
Nel caso di specie, il materiale sequestrato, in quanto rifiuto non pericoloso oggetto di una condotta lecita (o comunque non illecita) difettava dei requisiti minimi necessari per poterlo confiscare ex art. 240 c.p. comma I o II, ragione per cui la decisione del Tribunale di Ivrea era evidentemente illegittima.
Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.
RGA febbraio 2022 Cass. III n. 43333.2022
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