Rappresentanza dell’ente in giudizio e legale rappresentante imputato: un caso (dubbio) di incompatibilità in tema di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti

01 Giu 2022 | giurisprudenza, penale

di Roberta Mantegazza

Corte di Cassazione, Sez. III – 9 novembre 2021 (dep. 16 dicembre 2021) n. 46035 – Pres. Ramacci, Est. Semeraro, ric. legale rappresentante E.G. s.r.l.

È inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 591 c.p.p. comma 1, lett. a), la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo

  1. La vicenda processuale e la decisione della Corte

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema della rappresentanza in giudizio dell’ente ai sensi dell’art. 39 D.Lgs. n. 231/2001, e lo ha fatto in relazione ad una vicenda nella quale erano contestati, alla legale rappresentante della società, i reati di cui agli artt. 452 quaterdecies c.p. e 256 comma 1, 3 e 4 TUA, mentre all’ente nel cui interesse e vantaggio è stato commesso il reato il correlato illecito amministrativo di cui all’art. 25 undecies comma 2 lett. b) n. 1 ed f) D.Lgs n. 231/01 in materia – rispettivamente – di gestione illecita di rifiuti non pericolosi ed attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

La vicenda processuale prendeva le mosse, in particolare, da un provvedimento della A.G. di Roma di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto illecito conseguito dall’ente, cui era seguita – a distanza di quasi un anno e mezzo ed in considerazione di “elementi sopravvenuti” – una istanza di revoca da parte della legale rappresentante dell’ente, che veniva rigettata dal GIP; l’ulteriore ordinanza di conferma del rigetto emessa dal Tribunale del riesame di Roma veniva, infine, impugnata con ricorso per Cassazione dai due difensori nominati dall’imputata “in qualità di legale rappresentante della società”.

Il focus della decisione, tutta incentrata sulla valutazione di ammissibilità del ricorso proposto dalla legale rappresentante (anche) imputata nel giudizio, emerge con chiarezza sin dalla (insolita) premessa con la quale il Collegio invitava il difensore presente ad indicare in che veste l’imputata avesse conferito mandato ai due difensori nominati.

Più nello specifico, infatti, ancora prima della discussione, la Corte aveva esplicitamente “invitato le parti ad interloquire sulla legittimazione dell’imputata e dei difensori da lei nominati ad agire in giudizio per conto della società”: richiesta cui era conseguita, dapprima, una istanza di rinvio del procedimento da parte del difensore “per valutare la richiesta interlocutoria del Collegio”, e, poi, il deposito di ulteriori no scritte pervenute alla Corte a seguito della chiusura della discussione orale, e dalla stessa ritenute non valutabili in quanto tardive.

Sebbene, quindi, la Corte avesse dato modo alla difesa di “correggere il tiro” rispetto alla “prova” della legittimazione dell’imputata, la stessa – sulla base di argomentazioni, come vedremo, alquanto approssimative – è comunque poi giunta alla definitiva conclusione per cui “il procedimento cautelare reale fosse stato proposto dalla società E.G. s.r.l., in persona del legale rappresentate”, bastando ciò – nell’ottica del Supremo Collegio – a ritenere inammissibile il ricorso.

Nel dichiarare il ricorso inammissibile, la Corte ha infatti messo in luce gli elementi dai quali desumere la mancanza di legittimazione in capo alla legale rappresentante imputata: ossia, il fatto che, da un lato, “l’istanza di revoca del sequestro preventivo, l’appello ed il ricorso per cassazione [fossero] stati proposti da S.C. quale legale rappresentante della E.G. s.r.l., non in proprio, al fine di ottenere genericamente la restituzione delle somme perché, in base ad elementi sopravvenuti, [sarebbe emerso] in estrema sintesi, che la società non percepì alcun profitto illecito”, e, dall’altro, che “la ricorrente [fosse] imputata, quale legale rappresentante E.G. s.r.l.”.

Dalla (sola) circostanza, oggettiva, per cui “la legale rappresentante dell’ente è imputata del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”, il Collegio ha quindi fatto discendere in via automatica l’applicazione del “divieto di rappresentanza ex Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 39, comma 1 (Rappresentanza dell’ente. 1. L’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo)”; allo stesso modo, per rispondere al tentativo di legittimazione formulato dalla difesa, la Corte ha voluto precisare che “I difensori, gli avvocati G.C. e C.P., possono agire nel procedimento nell’interesse di S.C., ma non possono agire in giudizio per conto della società, come avvenuto nel caso in esame, perché l’ente non può partecipare al processo penale mediante il proprio legale rappresentante” in quanto – si aggiunga – imputato del reato presupposto.

E non potendo il legale rappresentante imputato, come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[i], neppure nominare i difensori nell’interesse dell’ente, la Corte ha infine applicato al caso concreto proprio il principio di diritto che era stato esplicitato dalle menzionate Sezioni Unite: “è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 591 c.p.p. comma 1, lett. a), la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.

In definitiva, dunque, nel caso concreto, il Collegio ha ritenuto il ricorso non validamente presentato in quanto proposto nell’esclusivo conto dell’ente (e non in proprio da parte dell’imputata) da due difensori che – in quanto nominati dal legale rappresentante imputato – non ne erano legittimati.

  1. Il divieto di rappresentanza dell’ente ex art. 39 D.Lgs n. 231/01

È principio di diritto ampiamente consolidato[ii] (ed in questa sede è sufficiente richiamarlo) quello per cui – per poter partecipare al processo – l’ente, in quanto soggetto privo di fisicità, debba essere doppiamente rappresentato: da un lato, infatti, “potrà esercitare le facoltà ordinariamente spettanti all’imputato (intervenire nel procedimento penale a suo carico, esplicare attività di autodifesa e esercitare gli atti cd. personalissimi) attraverso un soggetto-persona fisica a ciò deputato; dall’altro avrà la necessità di assistenza difensiva, con la conseguenza che il difensore dovrà essere necessariamente nominato dal soggetto-persona fisica che rappresenta l’ente”[iii].

È altrettanto pacifico[iv], quindi, che l’ente – che partecipa al processo mediante il proprio legale rappresentante – necessiti di un’ulteriore tutela, che lo affranchi dalle situazioni di (anche solo potenziale) conflitto per l’ipotesi in cui l’apicale, funzionalmente chiamato anche a scegliere e nominare il difensore dell’ente, si trovi imputato (o indagato) nel medesimo procedimento per il reato presupposto che fonda la responsabilità amministrativa dell’ente.

Lo strumento di riferimento è proprio l’art. 39 comma 1 D.Lgs. n. 231/01: la ratio[v] del divieto di cumulo, nella stessa persona, delle due posizioni soggettive (imputato e legale rappresentante in giudizio dell’ente) è proprio quella di prevenire eventuali compressioni del diritto di difesa in capo alla società, che potrebbe trovarsi nella necessità di sostenere linee difensive “avverse” al suo vertice, ossia volte a dimostrare, per esempio ai sensi dell’art. 6 del Decreto, che il reato presupposto è stato commesso nell’esclusivo interesse dell’agente persona fisica, oppure che il modello organizzativo dell’ente – di per sé perfettamente implementato – è stato fraudolentemente aggirato dall’amministratore[vi].

Tale situazione di conflitto, hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è presunta iuris et de iure, con la conseguenza che la sua sussistenza non deve essere accertata in concreto, né fonda alcun onere motivazionale sul punto in capo al Giudice; in altri termini, il divieto di rappresentanza di cui all’art. 39 D.Lgs n. 231/2001 – assoluto ed inderogabile – opera “in presenza della situazione contemplata dalla norma, cioè quando il rappresentante legale risulta essere imputato dal reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sicché il giudice deve solo accertare che ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa un’effettiva situazione di incompatibilità[vii].

In tali casi, ove l’ente intendesse partecipare al processo, dovrebbe quindi sostituire il proprio legale rappresentante oppure nominare un rappresentante ad hoc per il (solo) processo, mantenendo invece in capo all’amministratore imputato – per il restante ambito di “vita” societaria – la rappresentanza dell’ente[viii]. Come visto, e come chiarito dalle stesse Sezioni Unite[ix], allo stesso modo e per la stessa ratio, il difensore dell’ente non potrebbe essere nominato dal legale rappresentante incompatibile in quanto imputato del reato presupposto.

Infatti, la nomina del difensore (da parte del legale rappresentante incompatibile) non potrebbe essere considerata quale “atto neutro”, essendo invece strettamente connessa alla partecipazione al processo, anche in considerazione dei maggiori poteri rappresentativi che il difensore ha nel processo a carico dell’ente[x] ed essendo peraltro espressione di un rapporto di fiducia che non può certo instaurarsi con un soggetto che si trova in situazione di conflitto di interessi, presunta dalla legge in termini assoluti.

Sicché è evidente come una tale decisione [id est, la nomina del difensore per l’ente] possa apparire quanto meno sospetta qualora provenga da un soggetto che la legge considera incompetente a rappresentare l’ente”, con la conseguenza che – come visto – “in queste ipotesi la nomina verrà effettuata da un diverso organo della società, che potrà anche essere il nuovo rappresentante legale ovvero il rappresentante ad processum, ma deve escludersi che il difensore possa essere designato dal rappresentante in situazione di incompatibilità[xi].

Ma anche nel caso in cui – sottolinea la Corte – l’ente decidesse di rimanere “inerte”, cioè di non provvedere ad alcun tipo di sostituzione (“totale” o “parziale” per il solo giudizio) del legale rappresentante incompatibile, il diritto di difesa della società sarebbe assicurato dalla nomina di un difensore d’ufficio, che avrebbe tutte le facoltà e prerogative difensive dell’ente, compresa quella di impugnare eventuali provvedimenti cautelari reali[xii].

La conseguenza processuale della violazione del divieto di rappresentanza ai sensi dell’art. 39 D.Lgs. n. 231/2001 è quindi la declaratoria di inammissibilità degli atti processuali illegittimamente posti in essere[xiii].

Il principio, apparentemente chiarissimo, suscita invece, ancora oggi, non poche difficoltà applicative a giudicare dalla “nutrita serie di pronunce di inammissibilità da parte della Corte di Cassazione[xiv], non da ultimo quella qui in commento, con le quali la Corte di Cassazione ha dovuto a più riprese ribadire il “divieto generale ed assoluto di rappresentanza da parte del legale rappresentante imputato”, con conseguente inammissibilità degli atti processuali proposti in violazione di tale divieto.

Mentre, però, nel più dei casi, le pronunce di inammissibilità paiono del tutto coerenti e logiche rispetto ai principi appena descritti (come è accaduto ad esempio in relazione a due recentissime sentenze della Corte di Cassazione[xv], di cui si dirà infra), per le ragioni che vedremo, si impone una riflessione sul fatto se, nel caso di specie, se ne sia fatto buon uso.

  1. Alcune osservazioni sul divieto di rappresentanza nel caso concreto: i dubbi legati alla “doppia” confiscabilità del profitto illecito ai sensi dell’artt. 321 comma 2 c.p.p., 452 quaterdecies comma 4 c.p. e degli artt. 19, 53 D.Lgs. n. 231/01

Sorgono, infatti, alcuni dubbi sull’applicazione del divieto di rappresentanza di cui all’art. 39 comma 1 D.Lgs n. 231/01 al caso esaminato dalla sentenza in commento, in quanto non paiono totalmente chiari – né risultano altrimenti ricavabili dal testo della decisione – taluni elementi di fatto che, invece, risultano essenziali per capire se si sia effettivamente verificata quella condizione di incompatibilità soggettiva che la norma tende – con una presunzione iuris et de iure[xvi] – ad evitare.

A ben vedere infatti, nel caso concreto, non risulta né che l’ente si fosse costituito in giudizio per tramite del proprio legale rappresentante imputato, né che quest’ultimo avesse provveduto alla nomina del difensore della società.

Lo stesso Collegio pare del resto non avere le idee ben chiare sulla veste in cui l’imputata agisse in giudizio: diversamente, non si spiegherebbero le richieste di chiarimenti in tal senso rivolte al difensore della persona fisica presente in udienza, in relazione -in particolare – alla qualità nella quale l’imputata aveva nominato i propri difensori di fiducia.

È sempre la stessa Corte, poi, a chiarire che “dalla richiesta di rinvio a giudizio e dal decreto di fissazione dell’udienza preliminare in atti risulta che S.C. ha nominato il 9 gennaio 2020 suoi difensori gli avvocati G.C. e C.P.” e che questa fosse imputata – appunto – del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. e art. 256 TUA; un primo dato è quindi certo: i difensori menzionati sono intervenuti nel giudizio in Cassazione – e ancor prima, nei precedenti “gradi” del procedimento cautelare – appunto quali difensori dell’imputata persona fisica, da questa nominati, e non invece in quanto incaricati della difesa dell’ente, che – il Collegio tanto di limita a rilevare – “risulta avere quale difensore l’avv. L.C.”, dunque un difensore diverso da quello della persona fisica, senza nulla specificare su chi, come e quando abbia provveduto alla relativa nomina.

Apparentemente, quindi, le due posizioni – quella della persona fisica imputata ricorrente (pur ancora legale rappresentante dell’ente) e quella della società imputata ex D.Lgs. n. 231 – sembrerebbero essere separate e parallele, né risultano elementi concreti per evincere una illecita sovrapposizione soggettiva dei ruoli e dei perimetri di giudizio: il fatto che l’imputata rivesta ancora oggi formalmente la veste di legale rappresentante dell’ente non inficia in alcun modo il suo interesse personale a ricorrere per la restituzione del profitto illecito sequestrato, visto che anche nel giudizio a carico della persona fisica – ai sensi dell’art. 452 quaterdecies comma 4 c.p. – “è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca”.

Sempre, ovviamente, che l’imputata conservi, in effetti, il solo ruolo di legale rappresentane dell’ente quale organo direttivo e gestorio dello stesso, con esclusione della sua rappresentanza in giudizio, per la quale come visto dovrà quindi essere individuato un procuratore speciale ad hoc, titolato anche del conferimento della nomina al difensore della società.

Ciò posto, va poi comunque considerato che nel caso concreto, nonostante la non certo cristallina stesura della decisione, risulta evidente un dato preliminare e – forse – di per sé dirimente, ossia il fatto che il ricorso fosse “proposto da S.C. nata a (omissis), quale legale rappresentante della E.G. s.r.l.” e non invece dalla società “imputata” costituita in giudizio con il proprio legale rappresentante imputato; ciò che sì – certamente – avrebbe reso inammissibile il ricorso.

Il fatto, poi, che si indichi l’imputata ricorrente “quale legale rappresentante dell’ente” dice ben poco circa la presunta rappresentanza in giudizio della società, se si considera che la ricorrente è precisamente imputata nella vicenda de qua proprio quale legale rappresentante dell’ente, nel senso che in tale veste le si contesta di aver posto in essere i reati ambientali di cui si discute.

Ma una cosa è il ruolo che l’agente ricopriva al momento della consumazione del reato (e che ancora può ricoprire) nell’ambito societario, altro è il ruolo di rappresentanza in giudizio ai sensi dell’art. 39 D.Lgs. n. 231/01, ossia l’espressione della volontà del soggetto collettivo nel procedimento che lo riguarda[xvii]: non si può estensivamente ritenere sussistente (se non attraverso rigidi formalismi) alcuna sovrapposizione in tal senso se il primo non è legittimato a individuare e nominare il difensore dell’ente e a scegliere – sempre per l’ente – la linea di difesa in giudizio.

L’art. 39, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001 indica, infatti, il rapporto di rappresentanza, ossia quello che deve legale l’ente ad un rappresentante legale – non necessariamente corrispondente a quello di immedesimazione organica – per dare visibilità concreta in giudizio ad un soggetto altrimenti non dotato della fisicità propria dell’imputato[xviii].

Tale sovrapposizione soggettiva era, per esempio, risultata evidente nelle recenti sentenze della Corte di Cassazione più sopra citate (la n. 7261/2022 della sezione VI e la n. 7630/22 della sezione III), nelle quali, nel primo caso, il difensore dell’ente ricorrente era stato effettivamente nominato dal legale rappresentante imputato dopo l’avvenuto sequestro per equivalente del profitto del peculato, e, nel secondo, il ricorso era esplicitamente proposto dalla società ai sensi del D.Lgs. n. 231/01, in persona del legale rappresentante imputato, che aveva peraltro nominato il difensore di fiducia e procuratore speciale della società.

Al contrario, come visto nel caso che ci occupa, la Corte è giunta alla conclusione che “il procedimento incidentale cautelare reale fosse stato proposto dalla società E.G. s.r.l. in persona del legale rappresentante [imputato]” – dichiarandolo quindi inammissibile – sulla base della sola considerazione per cui “l’istanza di revoca del sequestro preventivo, l’appello ed il ricorso per cassazione, sono stati proposti dalla S.C. quale legale rappresentante della E.G. s.r.l., non in proprio, al fine di ottenere genericamente, la restituzione delle somme perché (…) la società non percepì alcun profitto”.

La domanda, quindi, è se effettivamente possa ritenersi che la persona fisica imputata abbia, nel caso concreto, agito “per conto” dell’ente per il sol fatto che vi fosse una coincidenza di interessi rispetto alla restituzione del profitto confiscato: ebbene, vi è più di un dubbio in tal senso, non solo per quanto appena più sopra è stato possibile ricostruire della vicenda giudiziaria, ma anche per una semplice considerazione giuridica, ossia il fatto che – non solo il profitto illecito era in quel caso confiscabile per equivalente sia ai sensi dell’art. 452 quaterdecies c.p., sia ai sensi del Decreto 231 – ma anche perché sussiste, secondo la giurisprudenza di legittimità, un principio solidaristico tra l’ente e la persona fisica, tale per cui è in linea di massima (ed in estrema sintesi) possibile apprendere indifferentemente i beni della persona fisica e quelli dell’ente[xix].

Siccome non è dato sapere a chi fossero state sequestrate le somme di cui si richiedeva la restituzione – se all’imputata, all’ente o ad entrambi – non si può certo escludere che sussistesse, in capo alla prima, un concreto, autonomo e del tutto legittimo interesse ad impugnare il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca del sequestro preventivo (e cioè che la stessa agisse in proprio), anche sostenendo che l’ente non avesse ottenuto alcun profitto dall’illecito, visto che – appunto – la esclusione del profitto in capo alla società avrebbe potuto di fatto incidere direttamente sulla posizione cautelare del soggetto che ha materialmente posto in essere il reato presupposto, ai sensi del principio solidaristico sopra ricordato ed in relazione agli artt. 321 comma 2 c.p.p. e 452 quaterdecies comma 4 c.p.

Si badi, non si parla qui di un superamento di fatto della presunzione iuris et de iure del divieto di rappresentanza dell’ente da parte del legale rappresentante imputato, ma di definire al contrario – al di là del dato meramente formale indicato dalla Corte – se l’imputata agisse a tutela di un proprio personale interesse, dunque in proprio, e non invece quale mero legale rappresentante dell’ente ancora in carica.

In definitiva, dunque, se da un lato si devono condividere gli approdi – ormai consolidati – della Corte di Cassazione in materia di rappresentanza dell’ente in giudizio,  dall’altro, andrebbe operata una attenta valutazione caso per caso per scongiurare un’eccessiva estensione dei principi in parola ed evitare che lo sforzo, legittimo, di tutela l’indipendenza dell’ente e della sua difesa in giudizio possa sfociare – al contrario – in una potenziale compromissione dei diritti e delle tutele della persona fisica imputata.

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Mantegazza_giugno 2022

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Cass. III, 46035_2021 (mantegazza)

NOTE

[i] Corte Cass. pen., Sezioni Unite, 28 maggio 2015, n. 33041, in Cass., CED, n. 264309.

[ii] Ex multis, A. Bassi, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Milano, 2006, p. 501; G. Fidelbo, Le attribuzioni del giudice penale e la partecipazione dell’ente al processo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2010, p. 466; G. Varraso, La partecipazione e l’assistenza difensiva dell’ente nel procedimento penale a suo carico: tra vuoti normativi e “eterointegrazione” giurisprudenziale, in Cass. Pen, n. 4/2010, p. 1383; H. Belluta, sub. artt. 34-43, in Responsabilità “penale” delle persone giuridiche, a cura di Giarda-Mancuso-Spangher-Varraso, Milano, 2007, p. 371.

[iii] F. Sbisà, E. Malnati, B. Agostini, D. Canzano, Il procedimento a carico dell’ente, in Responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2017, p. 268.

[iv] Ex multis, R. Puglisi, Processo agli enti: il rappresentante incompatibile non può nominare il difensore, in Cass. Pen., 1/2011, p. 245; E. Russo, L’ente nel “suo” procedimento tra garanzie difensive e formalità di costituzione, in Cass. Pen., 10/2016, p. 3830; G. Amato, Nel procedimento sulla responsabilità amministrativa l’indagato non può essere il rappresentante dell’ente. La costituzione del legale in conflitto d’interesse rende non ammissibili gli atti processuali, in Cass. Pen., 7/2010, p. 72.

[v] L. Bianchi, Responsabilità degli enti: casi di incompatibilità con il legale rappresentante, in Diritto e Pratica delle Società, n. 16, 8 settembre 2008, p. 58;

[vi] M. Ceresa Gastaldo, Procedura penale delle società, Torino, 2015, p. 60 ss.

[vii] Corte Cass., Sez. Un., 28 maggio 2015, n. 33041, in Cass CED, n. 264309;

[viii] Questa soluzione “alternativa” del legale rappresentante “ad litem” con poteri di rappresentanza circoscritti al processo penale per l’accertamento della responsabilità amministrativa derivante dal reato, è stata come vedremo ampiamente legittimata dalla prassi giurisprudenziale.

[ix] Corte Cass., Sez. Un., 28 maggio 2015, n. 33041, in Cass CED, n. 264309;

[x] Il riferimento è all’art. 39 comma 4 D.Lgs. n. 231/2001, che stabilisce: “Quando non compare il legale rappresentante, l’ente costituito è rappresentato dal difensore”;

[xi] cfr., ex multis, Corte Cass., Sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 41398, in Cass. CED, n. 244406-01.

[xii] Ibidem.

[xiii] Cfr., G. Amato, La costituzione del legale in conflitto d’interesse rende non ammissibili gli atti processuali, in Guida dir., 13 febbraio 2010, n. 7, p. 77.

[xiv] S. Guerra, D.Lgs 231, gli errori nella nomina del difensore dell’ente, in Quotidiani del Sole 24 ore, 28 marzo 2022;

[xv] Si tratta di Cass. pen., Sez. VI, 1 marzo 2022, n. 7261 e Cass. pen., Sez. III., 3 marzo 2022, n. 7630.

[xvi] In questo senso, la Suprema Corte a Sezioni Unite cit. ha chiarito che “il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 è assoluto e non ammette deroghe, in quanto funzionale ad assicurare la piena garanzia del divieto di difesa al soggetto collettivo (…). Per questa ragione l’esistenza del “conflitto” è presunta iure et de iure e la sua sussistenza non deve essere accertata in concreto, con l’ulteriore conseguenza che non vi è alcun onere motivazionale sul punto da parte del giudice: il divieto scatta in presenza della situazione contemplata dalla norma, cioè quando il rappresentante legale risulta essere imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sicché il giudice deve solo accertare che ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa un’effettiva situazione di incompatibilità”.

[xvii] Corte Cass., Sez. Un., 28 luglio 2015, n. 33041, in CED Cass., n. 264309;

[xviii] Ibidem

[xix] Il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, è fondato sull’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Sulla base di questo principio, in materia di corruzione, la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente affermato la legittimità del sequestro preventivo eseguito in danno di un concorrente per l’intero importo relativo al prezzo o profitto dello stesso reato, anche per il caso in cui le somme illecite fossero state incamerate in tutto o in parte da altri co-indagati. Sulla base del medesimo principio di diritto si è poi giunti a riconoscere tale solidarietà anche tra persona fisica e persona giuridica: in particolare, la Corte di Cassazione è pacifica nel ritenere che – sulla base delle disposizioni di cui agli artt. 321 comma 2 c.p.p. in relazione all’art. 322 ter c.p. e all’art. 53 in relazione all’art. 19 D.Lgs. n. 231/01 – il sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore ben può incidere contemporaneamente sia sulle persone fisiche indagate del reato di corruzione sia sull’ente che ha tratto profitto dal reato, con l’unico limite che la somma complessivamente appresa non ecceda il valore del profitto quantificato come illecito, determinando un’indebita duplicazione. È chiaro che il ragionamento potrebbe ben attagliarsi al caso della confisca del profitto per equivalente prevista dall’art. 452 quaterdecies comma 4 c.p., che infatti richiama – quasi letteralmente – la formulazione normativa dell’art. 322 ter c.p.

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