Non si scherza col fuoco: il “gioco pericoloso” della combustione illecita di rifiuti

02 Mag 2024 | giurisprudenza, penale

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 30 novembre 2023 (dep. 12 dicembre 2023), n. 50309 – Pres. Galterio, Est. Galanti – ric. S. e M.

Il delitto di combustione illecita di rifiuti punisce, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la combustione illecita dei soli «rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato». In forza del principio di tassatività la norma non può estendersi ai casi che riguardino rifiuti che siano oggetto di gestione autorizzata o comunque lecita. L’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato può sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa.

1.         La vicenda sottesa al giudizio della Suprema Corte e i motivi di ricorso degli imputati

La decisione in commento è stata resa a seguito di due ricorsi avverso una sentenza della Corte d’Appello di Palermo che, eccezion fatta per la ritenuta insussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 4 dell’art. 256 bis D.Lgs. n. 152/2006, aveva confermato la condanna inflitta del Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese per il reato di combustione illecita di rifiuti.

Il fatto che aveva dato origine al procedimento penale, per quanto la pronuncia di legittimità permetta di comprendere, era stato quello di aver sorpreso i due imputati intenti a recuperare del rame contenuto all’interno di alcuni cavi abbandonati o accatastati in modo incontrollato attraverso l’abbruciamento della guaina esterna fatta di materiale plastico.

Il primo ricorso si affida ad un unico motivo con il quale si contesta la natura di rifiuto dei cavi in questione a favore di un inquadramento degli stessi come “beni” di proprietà dell’imputato che stava procedendo ad una operazione di recupero del rame, processo altrimenti particolarmente dispendioso.

Il secondo atto di gravame, a sua volta costituito da un solo motivo (seppur articolato), lamenta una violazione di legge dell’art 256 bis D.Lgs. n. 152/2006, censurando la mancanza del dolo richiesto dalla norma, la condizione di abbandono dei cavi, la mancata considerazione della circostanza che vi fosse assenza di danno per l’ambiente ed infine il trattamento sanzionatorio, sotto il profilo del mancato riconoscimento della causa di non punibilità dell’art. 131 bis c.p. o quantomeno la concessione delle attenuanti generiche.

2.          Il reato di combustione illecita di rifiuti e la decisione della Corte

La Corte ha rigettato entrambi i ricorsi ritenendoli infondati e coglie l’occasione di ribadire l’orientamento espresso in tema di combustione illecita di rifiuti.

Preliminarmente la Cassazione ricorda i confini della fattispecie in questione: la norma, che delinea un reato di pericolo concreto e di condotta, sanziona chi appicchi fuoco ai rifiuti “abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato”. Poiché la lettera della legge ricalca le condotte previste dalle disposizioni che sanzionano l’abbandono di rifiuti e il deposito incontrollato di rifiuti, non rientrano nel campo applicativo della fattispecie le condotte su rifiuti che a) abbandonati non siano e b) non facciano parte di un deposito incontrollato.

Ciò non significa che l’abbruciamento di rifiuti fuori da queste ipotesi costituisca una condotta lecita: l’incenerimento a terra costituisce una specifica operazione di smaltimento (prevista dall’allegato B, lett. D10, parte IV) che necessita di apposita autorizzazione; quando quest’ultima manchi la condotta integra la contravvenzione di gestione illecita di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006[i].

Per quanto riguarda il rapporto tra il reato di combustione illecita e quello di incendio, la clausola di riserva in apertura dell’art 256 bis D.Lgs. n. 152/2006 (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) permette di affermare che la norma ha carattere residuale rispetto a quella degli art. 423 e 423 bis c.p.: la condotta di appiccamento si presenta infatti come antecedente e prodromica a quella di incendio, che invece si ha nel caso di fuoco che divampi in maniera irrefrenabile ed in vaste proporzioni dotato di carica distruttrice[ii].

Venendo dunque al motivo del primo ricorso, la Corte ha gioco facile nel rigettare l’argomento secondo cui i cavi in questione non fossero dei “beni” di proprietà del ricorrente, perché in questo caso l’onere della prova incombeva proprio sull’imputato.

I rifiuti in questione avrebbero potuto essere sottoposti ad una operazione di recupero, che, se condotta in maniera corretta, avrebbe potuto costituire un caso di end of waste ai sensi dell’art 184 ter D.Lgs. n.152/2006. Trattandosi di modesti quantitativi, osserva la Corte, avrebbero trovato applicazione le procedure semplificate ed il D.M. 5 febbraio 1998, le cui prescrizioni, in ogni caso non prevedono l’abbruciamento a terra.

Occorre ricordare che la giurisprudenza in tema di end of waste risulta particolarmente restrittiva[iii]: considerando che l’art 184 ter è norma derogatoria e speciale, l’onere della prova sulla sussistenza dei requisiti incombe sul soggetto che è intenzionato a far valere la norma. Onere che, in questo caso,

non poteva assolutamente dirsi soddisfatto poiché il ricorrente si era limitato ad allegare la proprietà dei cavi in questione.

Rapidissimo il respingimento del secondo ricorso: sono risultate infondate sia la censura circa la condizione di non abbandono dei cavi (questione peraltro meramente fattuale), sia quella relativa alla mancata concessione delle attenuanti generiche, nonché quella relativa all’assenza di danno all’ambiente (che appunto la norma non richiede, in quanto reato di pericolo); le rimanenti doglianze sono invece risultate inammissibili.

3.         Qualche considerazione sulle motivazioni della sentenza

La sentenza in commento giunge ad una conclusione, quella della sussistenza del reato di combustione illecita, sicuramente condivisibile dal punto vista dell’inquadramento giuridico: gli argomenti contenuti nei ricorsi in punto di diritto non permettevano infatti di pervenire ad una diversa conclusione.

Si possono però fare due considerazioni critiche rispetto alla sentenza in commento. La prima riguarda l’iter argomentativo seguito dalla Corte, che sembra aver scelto una via piuttosto complessa per confermare la sentenza di secondo grado con riferimento al primo ricorso, quando – a parere dello scrivente – era forse possibile percorrere una strada più breve (e lineare).

Si è visto come la Cassazione abbia fatto leva sull’argomento secondo cui nel caso di specie avrebbe potenzialmente trovato applicazione la disciplina dell’end of waste di cui all’art 184 ter D.Lgs n. 152/2006; che tale norma è derogatoria e speciale rispetto alla disciplina generale, ergo l’inversione dell’onere della prova non soddisfatto. Tale prospettazione, tuttavia non è stata sollevata dalla difesa dell’imputato. Il ricorso – secondo quanto permette di comprendere la lettura della sentenza – sembra contestare la natura di “rifiuto” dei cavi in questione, affermando piuttosto che gli stessi fossero dei “beni” dell’imputato.

In questa ipotesi si sarebbe potuto ribadire la natura di rifiuto dei cavi ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 152/2006. Poi, per quanto riguarda la condizione di abbandono, e la conseguente integrazione dell’art 256 bis D.Lgs. n. 152/2006, questa costituisce questione di merito non deducibile in sede di legittimità, quando la motivazione nei gradi di merito sul punto risulti completa e logica.

La seconda considerazione riguarda invece la fattispecie di combustione illecita, la cui applicazione in casi come quello si specie, seppur – si ribadisce – corretta dal punto di vista dell’inquadramento giuridico, invita a riflettere.

Emerge infatti che gli imputati avevano recuperato circa 20 kg di rame dalle operazioni di incenerimento a terra. Si tratta di un quantitativo piuttosto modesto, e pare che tale valutazione sia condivisa anche dalla Corte di Cassazione, che appunto afferma che nelle ipotesi di piccoli quantitativi si deve dovuto far riferimento alle procedure semplificate di cui agli artt. 214 – 216 D.Lgs. n. 152/2006 ed al D.M. 5 febbraio 1998.

Il risultato è che chi incenerisce a terra piccole quantità di rifiuti abbandonati, anche senza che vi sia un danno all’ambiente, anche senza che vi sia un fuoco vero e proprio (stante l’interpretazione data dalla giurisprudenza), dovrà rispondere di un delitto che nella più mite delle ipotesi prevede una cornice edittale tra uno e cinque anni. Allo stesso tempo, chi ha titolo per detenere dei rifiuti e ponga in essere la medesima condotta, magari su quantitativi ben maggiori (con conseguente aumento di rischio di un danno all’ambiente), risponderà di una semplice contravvenzione per di più oblabile nel caso di rifiuti non pericolosi.

Non pare azzardato affermare che si tratti di un risultato poco soddisfacente o, quantomeno, dell’ennesima situazione poco ragionevole a cui la normativa ambientale ci ha ormai abituato.

In ogni caso, non si scherza col fuoco: in alcuni casi, anche quando le fiamme non si vedono, ci si scotta in maniera più seria del previsto.

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NOTE:

[i] Si veda Corte Cass. pen. Sez. III, 20 novembre 2017, n. 52641.

[ii] C. Bernasconi, Luci (poche) e ombre (molte) della nuova fattispecie di combustione illecita di rifiuti, in Studium Iuris, 3/2015, p. 304, G. Stea, Combustione illecita di rifiuti, in Aa.Vv., Il nuovo diritto penale dell’ambiente, a cura di L. Cornacchia, N. Pisani, 2018, p. 568. In giurisprudenza, con riferimento al concetto di incendio, si veda Corte Cass. pen., Sez. I, 12 maggio 2015, n. 12721; Corte Cass. pen., Sez. V, 25 settembre 2013, n. 1697.

[iii] Per un excursus della giurisprudenza sul punto si veda R. Losengo, End of waste e sottoprodotti: l’onere della prova nell’epoca dell’economia circolare, in questa Rivista, n. 38/2023. Nel contributo l’Autore pone in evidenza come l’approccio restrittivo sul punto porti di fatto ad ostacolare alcuni obiettivi dell’economia circolare, con il rischio di disperdere l’utilità di prodotti e materiali secondari.

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