L’abbandono di rifiuti commesso dal titolare di un’impresa: questioni ancora aperte

01 Lug 2024 | giurisprudenza, penale

Cassazione Penale, Sez. III – 18 gennaio 2024 (dep. 8 maggio 2024), n. 18046

Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, è necessaria e sufficiente la qualifica soggettiva dell’autore della condotta, non essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino dalla specifica attività di impresa, posto che il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e ciò in quanto il collegamento tra le fattispecie previste dal primo e dal secondo comma dell’art. 256 riguarda il solo trattamento sanzionatorio e non anche la parte precettiva.

1. L’abbandono dei rifiuti.

Nel presente contributo, analizziamo una recente sentenza della Corte di Cassazione riguardante l’abbandono di rifiuti posto in essere dal titolare di un’impresa. Oltre a focalizzare l’attenzione sulla tale nozione, ci interroghiamo sulla questione se lo scarico di materiali del tutto estranei all’attività dell’impresa, come i residui di natura domestica, faccia scattare in ogni caso l’ipotesi di reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006.

Secondo l’art. 192, comma 1 e 2, D.Lgs. n. 152/2006, “L’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. È altresì vietata l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee”.

Il fatto assume gravità maggiore quando a commetterlo non è un privato cittadino che compie un gesto incivile, ma è il titolare di un’impresa o il responsabile di un ente. La normativa, infatti, attribuisce, in via generale, “valenza maggiormente offensiva alla condotta di colui il quale operi nell’ambito di un’attività professionale” (così in motivazione Corte Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 30123) essendo stato scelto come criterio dirimente l’effettiva attività d’inquinamento ricollegabile – secondo l’id quod plerumque accidit – a chi agisca nell’ambito di un’attività economica rispetto al soggetto privato. 

Per questa ragione, le varie leggi che si sono susseguite in materia – il D.P.R. n. 915/1982, il D.Lgs. n. 22/1997, cd. decreto Ronchi e, da ultimo, il D.Lgs. n. 152/2006 – hanno previsto, per la violazione del divieto, una sanzione amministrativa e penale rispettivamente per il privato e per il titolare di impresa e il responsabile di enti.

Con la L. n. 137/2023, recante disposizioni urgenti in  materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione, si è innovato questo assetto – con quanta razionalità è lecito dubitare [i] – stabilendo che anche il privato che violi il precetto dell’art. 192 T.U.A. è punito penalmente, con un’ammenda da mille euro a diecimila euro raddoppiata se l’abbandono riguarda rifiuti pericolosi.

La qualifica dell’autore dell’illecito è dunque essenziale e ciò permette di classificare la fattispecie criminosa di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 tra i classici reati propri[ii].

Al riguardo, si rammenta che la qualifica soggettiva che caratterizza il reato proprio integra la c.d. «legittimazione al reato»: essa, perciò, deve preesistere e deve essere in rapporto di connessione funzionale con la condotta illecita.

Ciò detto, occorre tenere distinti i casi, che integrano un reato comune, in cui una specifica qualifica non preesiste al fatto, ma dipende proprio dalla realizzazione della condotta incriminata. In proposito, merita di essere ricordata Corte Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2016, n. 5716, in quanto illuminante per cogliere al meglio l’essenza del problema.

La Cassazione, occupandosi del reato di gestione abusiva di rifiuti (art. 256, comma 1, T.U.A.), ha sostenuto che non rileva l’astratta qualifica soggettiva posseduta dall’agente, bensì la condotta concretamente posta in essere che richieda, per il suo esercizio, un titolo abilitativo.

Se la costruzione della fattispecie incriminatrice, secondo la consueta «tecnica ingiunzionale» mediante penalizzazione di condotte commesse in assenza di provvedimenti amministrativi autorizzatori, individua i soggetti destinatari degli obblighi delineati dagli artt. 208-216 T.U.A., nondimeno qualificare la fattispecie quale reato proprio rischia di determinare un’inversione metodologica nell’ermeneusi della norma.

La Corte ha perciò chiarito che soggetto attivo del reato può essere «chiunque» eserciti abusivamente una delle attività indicate nell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, anche se non costituito formalmente in veste imprenditoriale, perché ciò che rileva, per assumere la veste di autore del reato, non è la qualifica soggettiva (una forma imprenditoriale, necessaria, ad esempio, per l’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali), bensì la concreta attività realizzata. Diversamente opinando, sarebbe sufficiente essere privi — come normalmente accade — della qualifica soggettiva asseritamente richiesta dalla norma per sottrarsi all’applicazione della fattispecie incriminatrice.

Si dirà in appresso dell’importanza di queste osservazioni con riferimento alla contravvenzione del comma 2 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006.

2. Definizione del titolare di impresa.

Per adesso, vediamo più da vicino la nozione di titolare di impresa[iii].

La normativa non fornisce alcuna definizione al riguardo, ma, in prima battuta, non si può dubitare che nella categoria rientri sia l’impresa individuale sia quella riconducibile ad una persona giuridica (per lo più società commerciali). 

Ciò posto, una questione sorta nei primi anni di vigenza della normativa era se nel concetto di «titolari di imprese e responsabili di enti» andassero inclusi soltanto le imprese o gli enti che effettuano una delle attività di gestione dei rifiuti indicate nel comma 1 dell’art. 256 T.U.A. o anche le imprese che svolgano un’attività diversa in cui è però connaturale la produzione di rifiuti che vengono gestiti in modo secondario, accessorio o consequenziale all’esercizio dell’attività primaria.

Questa seconda opzione ha trovato il consenso unanime della giurisprudenza in quanto la normativa tende ad impedire ogni rischio di inquinamento derivante da tutte le attività idonee a produrre rifiuti con una certa continuità. La giurisprudenza, inoltre, ha avuto cura di puntualizzare che per titolare d’impresa deve intendersi anche colui che, sia pure di fatto, eserciti un’attività avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c.: in altre parole, riprendendo quanto si è detto in precedenza, rileva l’attività in concreto svolta e non la qualifica formale dell’agente.

In questo senso, tra le ultime, Corte Cass. pen., Sez. III, 31 luglio 2023, n. 33410, ha ribadito che non è soltanto la qualifica di imprenditore a segnare il confine tra il reato e l’illecito amministrativo di cui all’art. 255, D.Lgs. n. 152/2006[iv], bensì anche lo svolgimento di fatto di attività sostanzialmente imprenditoriali per cui, quando la fattispecie incriminatrice fa riferimento alla “titolarità” dell’impresa, non intende riferirsi solo alla persona (formalmente) iscritta nel registro delle imprese, ma anche a chi sia titolare (ed eserciti di fatto) attività imprenditoriali, pur non registrate e sconosciute al Fisco. Nel primo caso (imprenditore “formale”), è sufficiente, a fini di prova, la qualifica di “imprenditore” (indipendentemente dall’attività svolta dall’impresa); nel secondo caso (imprenditore “di fatto”), è necessario l’accertamento della riconducibilità del fatto allo svolgimento di una attività imprenditoriale non occasionale, e cioè posta in essere con un minimo di organizzazione.

Il principio che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, soggetto attivo sia anche chi, di fatto, eserciti un’attività imprenditoriale inquinante, va condiviso, tenendo però conto che la contravvenzione, in quanto reato “proprio”, può essere commessa solo da soggetti in possesso di specifiche qualifiche soggettive al momento del fatto. Ne deriva che la contestazione del reato in oggetto richiede che, all’atto dell’abbandono dei rifiuti (o della diversa condotta di deposito incontrollato), siano disponibili gli elementi per ritenere che il soggetto avesse già iniziato a svolgere un’attività imprenditoriale, ad esempio in caso di utilizzo di mezzi e modalità che eccedono quelli normalmente nella disponibilità del privato. 

3. Rilevanza della natura e provenienza dei rifiuti abbandonati.

Acclarato dunque che per integrare il reato di cui all’art. 256, comma 2, T.U.A. è necessario che l’abbandono sia attuato da chi rivesta la qualifica di titolare di impresa o da chi operi in concreto come tale, occorre ora chiedersi se la natura e provenienza dei materiali dismessi abbiano un qualche rilievo per configurare il suddetto illecito.

La questione è stata affrontata dalla sentenza che si riporta, ma non è la prima volta che la Suprema Corte si interroga sul fatto se la qualificazione formale dell’agente sia sufficiente per ipotizzare la contravvenzione del comma 2 dell’art. 256 T.U.A.

Infatti, Corte Cass. pen., Sez. III, 5 febbraio 2021, n. 13817, ha affermato che “qualora la condotta tipizzata venga posta in essere da soggetto qualificato, il giudice dovrà procedere all’applicazione della norma penale avente carattere di specialità…Tuttavia, tale differenziazione non va vista solo con riferimento al soggetto che compie materialmente l’atto, ma deve essere valutata anche la natura realmente domestica o meno dei rifiuti abbandonati”.

Spunti significativi per il tema che si sta analizzando si rinvengono anche in Corte Cass. pen., Sez. III, 8 giugno 2023, n. 24676: infatti, l’imputato aveva asserito che quella contestata era “un’attività necessariamente occasionale riconducibile ad un privato che sta dismettendo gli arredi della camera dei propri figli” e che nessuna rilevanza rivestiva la circostanza dell’utilizzo di un mezzo adeguato al trasporto della merce destinata all’abbandono.

Orbene, nell’occasione, la Corte ha osservato che la sentenza impugnata non aveva specificato la quantità dei mobili trasportati e scaricati,  non risultando neppure che si trattasse di una pluralità di arredi e non dei componenti di un’unica camera per ragazzi, né la tipologia dell’attività espletata dall’impresa di cui l’imputato figurava dipendente, né, a monte, che la condotta in contestazione fosse collegata all’attività lavorativa del prevenuto; infine, non aveva indicato, a fronte di un unico episodio ed in presenza di rifiuti di natura omogenea, alcun elemento, all’infuori del mezzo di trasporto utilizzato, insufficiente all’uopo trattandosi di un veicolo cui, chiunque possieda un titolo abilitante alla sua guida, può fare occasionalmente ricorso, dal quale desumere una sia pur rudimentale organizzazione o quanto meno l’abitualità sottese ad un’attività di gestione di rifiuti non autorizzata.

In questo quadro, una più decisa presa di posizione si riscontra in Corte Cass. pen., Sez. III, 31 luglio 2023, n. 33423, che ha chiarito che, ai fini dell’esclusione del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 e quindi della configurabilità dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255, stesso decreto, non è sufficiente che i rifiuti abbandonati o irregolarmente depositati non siano riconducibili alla specifica attività dell’impresa o dell’ente di cui il soggetto agente è titolare o responsabile essendo invece necessario che i rifiuti abbandonati siano estranei a qualunque attività che l’impresa, anche episodicamente, potrebbe svolgere[v].

La Suprema Corte ha poi precisato che il limite di applicazione della fattispecie penalmente sanzionata è ravvisabile nel caso di rifiuti del tutti estranei a qualunque attività potenzialmente riferibile all’impresa, come, ad esempio, nel caso di materiali di scarto che siano, insieme, di entità estremamente modesta e derivanti da una produzione domestica.

Insomma, la Cassazione ha valorizzato il criterio sostanziale della natura e provenienza dei rifiuti per equiparare alla condotta del privato, che scarichi materiali di origine domestica, quella analoga tenuta dal titolare di un’impresa.

Questa conclusione non deve stupire considerato che attenta dottrina[vi]  ha osservato che “Il diverso trattamento [penale ed amministrativo: ndr] pone problemi rispetto al principio di uguaglianza: è ragionevole che identiche ipotesi di abbandono di rifiuti portino a sanzioni diverse solo in ragione della differenza di status dell’autore della condotta?  Sotto il profilo del pericolo o del danno all’ambiente la qualifica soggettiva dell’autore è irrilevante, non incidendo sul maggiore o minore grado dell’offesa. Piuttosto, agli occhi del legislatore, la differenza potrebbe risiedere in un dato criminologico, e cioè nella presunzione di maggiore pericolosità o quanto meno di più frequente realizzazione di abbandoni di rifiuti nell’ambito di attività di imprese o enti, piuttosto che ad opera di privati”.

4. La pronuncia della Cassazione: un dubbio permane.

Nell’ambito di questa discussione, si colloca la sentenza in commento.

Nella specie, l’imputato si doleva del sequestro preventivo del furgone di sua proprietà utilizzato per il trasporto di un carico di rifiuti smaltiti mediante abbandono. Il soggetto sosteneva, da un lato, che era titolare di impresa esercente attività di carpenteria metallica, in legno e cemento, attività che nulla aveva a che vedere con la tipologia dei rifiuti abbandonati (resti di porte, pannelli in truciolato, lastre di vetro, tubi di plastica, un frigorifero). Dall’altro lato, asseriva che oggetto della condotta erano rifiuti domestici da lui abbandonati quale persona fisica e non quale persona esercente attività di impresa, non provenendo i citati rifiuti dall’esercizio dell’attività svolta.

Il ricorso è stato rigettato per varie ragioni sia in linea di fatto che di diritto.

Cominciando dalle prime, la Cassazione ha, prima di tutto, osservato che non era neppure chiaro sotto quale profilo fosse concretamente possibile tracciare il confine tra l’attività di costruzione dei fabbricati (ritenuta dai Giudici del riesame) e quella di carpenteria finalizzata alla realizzazione di fabbricati (rivendicata dal ricorrente). In secondo luogo, ha rilevato che a) oggetto di abbandono erano anche RAEE (il frigorifero) soggetto a speciali forme di smaltimento in attuazione della direttiva n. 2012/19/UE; b) le condotte di abbandono erano due, sì da potersi configurare nella fattispecie una vera e propria forma di gestione non occasionale e non autorizzata di rifiuti provenienti da attività di cantiere.

La Corte è quindi passata all’esame dell’impostazione difensiva che postulava, in diritto, che l’imprenditore possa abbandonare rifiuti non derivanti dalla propria attività senza incorrere nella violazione dell’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, la cui fattispecie non richiede, quale elemento costitutivo, la provenienza del rifiuto dalla specifica attività di impresa svolta dall’agente.

All’uopo, è interessante riportare un passaggio testuale della sentenza:

“3.3. Il rilievo difensivo è perciò doppiamente infondato sia perché…espunge dalla fattispecie penale in questione la condotta dell’imprenditore che abbandona rifiuti prodotti da altri, sia perché fa dipendere la penale rilevanza della condotta dalla natura del rifiuto abbandonato: l’abbandono di rifiuti domestici sarebbe, in tesi difensiva, penalmente irrilevante”.

Orbene, queste prime osservazioni della Corte ci lasciano un po’ perplessi: infatti, l’imputato si era limitato, da una parte, a sostenere che i rifiuti non fossero riconducibili, quali residui produttivi, alla sua impresa, il che poteva far pensare che, per l’imputato, il reato fosse opera di altro soggetto al quale attribuire l’effettiva produzione dei rifiuti abbandonati. Dall’altra parte, però, l’imputato, sconfessando platealmente questa prima prospettazione, aveva asserito che i materiali in questione erano rifiuti domestici, provenienti da lui, anche se non dalla sua impresa: in tal modo, mirava ad escludere la contravvenzione ascritta ritenendo che l’abbandono di quei materiali, ancorchè effettuato da un soggetto formalmente titolare di impresa, non rientrasse nell’ipotesi penalmente sanzionata, bensì in quella punita in via amministrativa  (nel testo vigente all’epoca dei fatti).

Per quanto è dato capire dalla narrazione in fatto della sentenza, il ricorrente non sosteneva invece che il reato non fosse ravvisabile perché i rifiuti abbandonati non fossero “propri”, bensì prodotti da terzi.   

Abbiamo sottolineato questo punto perché la Corte (v. par. 3.4) esprime l’avviso che “il precetto violato non solo non pretende che l’imprenditore sia anche il produttore del rifiuto abbandonato ma ritiene perfettamente compatibile con la penale rilevanza dell’abbandono la possibilità che oggetto materiale della condotta siano rifiuti domestici, come si evince dal richiamo al comma 1 che diversifica la sanzione a seconda della natura del rifiuto abbandonato. Ed, invero, secondo il dato testuale oggetto materiale dell’abbandono vietato sono i “rifiuti” tout court, rilevando la distinzione tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi ai soli fini sanzionatori. I rifiuti domestici costituiscono una species del genus “rifiuti urbani”…e sono chiaramente distinti dai “rifiuti da costruzione e demolizione”…che sono classificati come speciali dall’art. 184, comma 3, lett. d, d. lgs. n. 152 del 2006…Va dunque ribadito che oggetto materiale della condotta di abbandono penalmente sanzionata dall’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, possono essere anche i rifiuti domestici”.

La prima parte del ragionamento è corretta, ma forse non necessaria per motivare il rigetto del ricorso perché l’imputato non aveva propugnato la tesi contraria. Più rilevante, nell’ottica di replicare alle doglianze difensive, è la seconda parte del discorso che, tuttavia, non ci pare sufficiente per dimostrare che il titolare di impresa che abbandoni rifiuti domestici debba sempre rispondere del reato di cui al comma 2 dell’art. 256 T.U.A.

Per la verità, la sentenza ha menzionato anche Corte Cass. pen., Sez. III, n. 33423/2023, da noi citata in precedenza, ma anziché soffermarsi sulla parte in cui la Corte ha concluso che il reato di cui all’art. 256, comma 2,  vada escluso se i rifiuti abbandonati siano estranei a qualunque attività potenzialmente riferibile all’impresa, come nel caso di materiali di scarto che siano, insieme, di entità estremamente modesta e riferibili ad una produzione domestica, ha ritenuto che quella sentenza richiedesse una precisazione “nella parte in cui sembra affermare che l’imprenditore che abbandona rifiuti non propri sconti (oggi) una pena decisamente inferiore a quella prevista dall’art. 256, comma 2, e fosse soggetto solo a sanzione amministrativa per le condotte precedenti la riforma”.

La sentenza in esame così si diffonde per spiegare che non è richiesto, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 256, comma 2, che i rifiuti abbandonati dal titolare dell’impresa siano i propri, ben potendo essere anche quelli “prodotti da terzi”[vii].

Solo nella parte finale della motivazione, la Corte ritorna sul problema se il titolare di impresa risponda penalmente anche se abbandona rifiuti domestici. All’uopo, evidenzia che il ricorrente sosteneva “la qualifica di soggetto “privato” da lui rivestita all’atto dell’abbandono e la qualifica di rifiuti domestici delle cose abbandonate”.

Per la Cassazione, “si tratta di tesi francamente insostenibile alla luce di quanto già detto circa la possibilità che oggetto materiale della condotta di abbandono penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, siano anche rifiuti domestici”.

La perentorietà dell’affermazione è però contraddetta dal passaggio successivo in cui, invece, si afferma che “la qualifica di “privato”, che esclude l’applicazione della fattispecie sanzionata dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, richiede che la condotta venga posta in essere al di fuori di qualsiasi attività imprenditoriale, e dunque che non vi sia alcun collegamento con l’attività svolta dal titolare dell’impresa (tale per esempio dell’imprenditore che abbandoni sulla pubblica via i rifiuti ingombranti di casa sua, così rispondendo del reato di cui all’art. 255, comma 1)”.

A questo punto, non resta che augurarci che, a breve, la Suprema Corte sciolga il dubbio se la fattispecie del comma 2 dell’art. 256 vada applicata in qualsiasi situazione e perciò anche quando l’agente abbandoni materiali oggettivamente di provenienza “domestica”.

Infatti, fermo restando che, testualmente, in tutte le norme relative all’abbandono (artt. 192, 255 e 256 D.Lgs. n. 152/2006) si parla sempre di rifiuti tout court, [viii] non può dubitarsi che – almeno ordinariamente – oggetto materiale della condotta di abbandono da parte del titolare di impresa saranno rifiuti “speciali” e che quelli abbandonati dal comune cittadino saranno rifiuti “domestici”. Pertanto, mentre dovrebbe essere del tutto improbabile che un “privato” abbandoni rifiuti speciali, rientra nella normalità delle cose che un imprenditore possa abbandonare i propri rifiuti domestici che, ovviamente, non hanno alcun collegamento, nemmeno occasionale, con l’attività svolta dall’impresa, qualunque essa sia.

Concludendo, se la ratio del diverso trattamento per la medesima condotta è la presunzione di minore incidenza sull’ambiente dell’abbandono posto in essere dal privato che smaltisca i propri rifiuti domestici, tipici dell’abitazione, lo scarico effettuato, da un soggetto formalmente o sostanzialmente titolare di impresa, della stessa tipologia di rifiuti, sia per quantità che per qualità, e perciò assolutamente scollegati da qualsiasi attività imprenditoriale, non può essere punito con la  sanzione  penale più severa, ma va trattato alla stessa stregua del privato perché l’ambiente non è maggiormente offeso solo perché l’abbandono dei rifiuti domestici venga effettuato da un imprenditore.

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Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

[i] V. Amendola, Abbandono di rifiuti diventa reato: ma siamo certi che sia un bene?, in osservatorioagromafie.it, secondo il quale “…non ci sembra che l’inquinamento da rifiuti dipenda da inadeguatezza delle sanzioni ma dall’assenza di adeguati controlli. E, in ogni caso, come vedremo, si tratta di scelta che crea diversi problemi di comprensione e di razionalità”.

[ii] V. al riguardo Corte Cass. pen., Sez. III, 7 aprile 2012, n. 41161, che ha sancito che la fattispecie contemplata dall’art. 6, comma 1, lett. a), prima parte, L. n. 210/08, recante misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, integra un’ipotesi di reato comune, e non proprio, al contrario di quanto previsto dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, in quanto rientrano tra gli autori delle condotte penalmente rilevanti anche soggetti privati non qualificati stante la maggiore gravità attribuita dal legislatore a condotte poste in essere in aree geografiche di particolare sensibilità nella materia dei rifiuti. 

[iii] Non ci soffermiamo in questa sede sulla nozione di responsabile di ente: vale però la pena ricordare che, secondo la giurisprudenza, l’art. 256, comma 2, è applicabile anche alle associazioni non aventi scopo di lucro (Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2017, n. 20237; Corte Cass. pen., Sez. III, 4 ottobre 2017, n. 9057; Corte Cass. pen., Sez. III, 21 marzo 2019, n. 23794).

[iv] Il confronto attualmente è tra due fattispecie penali. 

[v] Nel caso esaminato, la fattispecie penale si era perfezionata giacchè l’imputato: a) al momento dei fatti, era titolare di una ditta individuale esercente l’attività di costruzioni edili; b) aveva sversato ripetutamente quantitativi non esigui di rifiuti, come materiali per demolizioni e costruzioni, legnami e metalli, certamente non riconducibili ad un uso strettamente domestico.

[vi]  C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2021, p. 168.

[vii] Anche l’enunciato principio di diritto risente di questa impostazione: infatti, è stato sostenuto che «ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, è necessaria e sufficiente la qualifica soggettiva dell’autore della condotta, non essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino dalla specifica attività di impresa, posto che il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e ciò in quanto il collegamento tra le fattispecie previste dal primo e dal secondo comma dell’art. 256, comma 2, riguarda il solo trattamento sanzionatorio e non anche la parte precettiva».

[viii] Al più, rileva la distinzione tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi ai soli fini sanzionatori.