Illeciti ambientali e messa alla prova

02 Giu 2023 | giurisprudenza, penale

di Roberta Mantegazza

Corte di Cassazione, Sez. III – 11 gennaio 2023 (dep. 13 febbraio 2023) n. 5910 – Pres. Andreazza, Est. Corbo, ric. P.G. Corte di appello di Messina

In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, la prescrizione in ordine alla prestazione di condotte finalizzate alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato costituisce elemento autonomo ai fini dell’ammissione alla prova e del buon esito di essa, non surrogabile dallo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

  1. La vicenda processuale e il ricorso del Procuratore Generale

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione è tornata ad analizzare le condizioni di ammissibilità dell’istituto della messa alla prova[1] dell’imputato in relazione ai reati ambientali, con un focus particolare al requisito della “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato” previsto al comma 2 dell’art. 168 bis c.p.

Il caso concreto era quello del titolare di una ditta individuale, accusato dalla Procura di Messina di aver depositato in un’area di circa 14.452 mq rifiuti pericolosi, e non, in modo incontrollato e senza autorizzazione; nello specifico, il reato contestato ai sensi dell’art. 256, comma 2 D.Lgs. n. 156/2006 era stato dichiarato estinto dal Tribunale in considerazione dell’esito positivo della messa alla prova, cui era stato precedentemente ammesso l’imputato.

Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Messina, unitamente alla sentenza di proscioglimento[2], impugnava l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento per messa alla prova deducendone l’illegittimità a fronte della mancanza, nel programma di trattamento “approvato” dal Tribunale, di specifiche prescrizioni comportamentali in capo all’imputato concernenti la eliminazione delle conseguenze del reato.

Né risultava – sottolinea il P.G. – che l’imputato avesse preliminarmente provveduto al recupero dell’area, pur essendo stato espressamente autorizzato ad accedere ai luoghi (evidentemente posti sotto sequestro) al fine della bonifica degli stessi: il Giudice, quindi, sempre secondo il ricorrente, nella propria ordinanza di ammissione della messa alla prova avrebbe dovuto prevedere specifiche disposizioni in merito.

Si sarebbe così verificata una violazione di legge, ricorribile per cassazione, in relazione all’art. 168 bis comma 2 e 3 c.p., norma che precisa quale debba essere il contenuto dell’ordinanza ammissiva della messa alla prova, prevedendo in particolare: i) la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato, ii) l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma e iii) la prestazione di lavoro di pubblica utilità (cfr., comma 3 primo periodo).

Secondo la tesi del Procuratore Generale, il dettato normativo prevederebbe quindi requisiti tra loro “cumulativi” e non certo “alternativi”, dovendosi dunque sempre disporre nel programma di trattamento – accanto allo svolgimento di lavori di pubblica utilità – appunto specifiche prescrizioni concernenti la eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del reato.

Ciò posto, l’assenza – nel caso in esame – di tale preciso requisito di ammissibilità della messa alla prova avrebbe dovuto, dunque, far ritenere la relativa ordinanza di sospensione del procedimento viziata in quanto appunto carente di uno dei suoi requisiti indefettibili.

  1. La decisione della Corte

La Corte di Cassazione, dato brevemente atto della ammissibilità del ricorso presentato dal Procuratore Generale[3], è entrata poi subito nel merito della questione, ossia – appunto – se il provvedimento di ammissione alla prova di cui all’art. 464 bis c.p. debba o meno necessariamente contenere la prescrizione delle condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato.

La risposta affermativa offerta dalla Corte poggia essenzialmente su due argomentazioni: la prima, di carattere “letterale”, rispetto all’analisi del dato normativo e la seconda di segno “sistematico”, attraverso il richiamo della giurisprudenza di legittimità prodottasi sul punto in materia di reati edilizi.

2.1. Sotto il primo profilo, è il combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 168 bis c.p. ad offrire conferma della necessarietà della eliminazione delle conseguenze del reato ai fini della concessione della messa alla prova: le prescrizioni dell’affidamento dell’imputato al servizio sociale e della prestazione di lavoro di pubblica utilità – afferma la Corte – sono, infatti, previste espressamente dalle legge come “aggiuntive” e non come alternative rispetto alla prestazione delle condotte dirette all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato.

In questo senso, il legislatore – nell’individuare i requisiti ammissivi della messa alla prova – ha utilizzato due congiunzioni grammaticali, “altresì” e “nonché”, richiamate rispettivamente nel secondo periodo del secondo comma e nel primo periodo del terzo comma dell’art. 168 bis c.p., che danno atto di una specifica voluntas legis in tal senso.

Più precisamente, come già accennato, il comma 2 dell’art. 168 bis c.p., stabilisce che “la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno”, per poi aggiungere – al periodo successivo del medesimo comma – che “comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma (…)”.

Si noti, del resto, che anche la giustapposizione – contenuta nella norma – tra la necessaria eliminazione delle conseguenze del reato, da un lato, e la mera eventualità del risarcimento del danno, dall’altro, appare in qualche misura confermare la tesi di fondo, evocando peraltro la distinzione normativa “tipica” del diritto ambientale tra i concetti di rispristino dello stato quo ante, quale reintegrazione del danno in forma specifica, ed il mero risarcimento del danno “per equivalente”, entrambi riferibili alla più ampia categoria delle “condotte riparatorie”.

Nella medesima ottica, poi, il comma 3 dell’art. 168 bis c.p. dispone esplicitamente che “la concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità”, descrivendo quest’ultimo – appunto – come requisito aggiuntivo rispetto a quelli indicati dal comma precedente.

Anche sotto il profilo processuale, continua la Corte, si possono ravvisare indici normativi a sostegno della tesi della necessaria prestazione di condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato: il richiamo è anzitutto all’art. 464 bis comma 1 c.p.p., che prevede che “nell’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice stabilisce il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti debbono essere adempiuti”.

Sempre l’art. 464 bis c.p.p., al successivo comma 4, stabilisce poi il contenuto del programma di trattamento per la messa alla prova, che – è disposto – “in ogni caso prevede (…) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità”, dando così ad intendere che questo ultimo requisito altro non è che una forma specifica di reintegrazione del danno, attraverso lo svolgimento di attività lavorativa gratuita a favore della collettività.

2.2.  Per altro verso, la conclusione cui giunge la Suprema Corte parrebbe confermata anche in chiave sistematica, analizzando la precedente giurisprudenza formatasi sul punto in materia di reati edilizi: come chiarito dalla decisione, infatti, si è di recentemente affermato che “nella materia edilizia, la corretta applicazione, da parte del giudice, sia della sospensione del processo con messa alla prova sia della possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 464-septies c.p.p., passa, doverosamente, per la preventiva verifica della avvenuta effettuazione, da parte dell’imputato, di condotte atte a ripristinare l’assetto urbanistico violato con l’abuso, o mediante la sua piena e integrale demolizione ovvero mediante la sua riconduzione, ove possibile, alla legalità attraverso il rilascio di un legittimo (e dunque non condizionabile all’esecuzione di futuri interventi) titolo abilitativo in sanatoria (così Sez. 3, n. 36822 del 4/09/2022, Acquaro, Rv. 283664-01, in motivazione § 4)[4].

A sua volta, tale decisione in materia edilizia, derivava la propria impostazione – rispetto alla necessarietà della eliminazione delle conseguenze del reato ai fini della messa alla prova – da meno recenti arresti giurisprudenziali, che si erano espressi principalmente sulla esclusione della possibilità per il giudice penale di disporre la demolizione del manufatto urbanistico a seguito della sentenza di proscioglimento per esito positivo della messa alla prova[5], ma che avevano incidentalmente dato atto della circostanza che la preventiva e spontanea demolizione dell’opera abusiva – ovvero la sua riconduzione a legalità attraverso il rilascio di un legittimo titolo abilitativo in sanatoria – rientrava fra le condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, che costituiscono proprio il presupposto per il positivo superamento della messa alla prova.

Mutatis mutandis, quindi, il ragionamento sarebbe confacente anche ai reati ambientali, che in effetti condividono con quelli edilizi non poche caratteristiche, tra cui, per quel che qui rileva, proprio il meccanismo di reintegrazione del bene collettivo violato, attraverso la previsione nell’ordinamento di sanzioni amministrative di tipo ablatorio quali, appunto, la demolizione del manufatto abusivo nel reato edilizio oppure l’ordine di ripristino dello stato dell’ambiente, in quello ambientale[6].

Sanzioni che rispondo ad un “principio di carattere generale secondo il quale, quando, in materia di ambiente e territorio, viene conferito al giudice il potere di emanare un ordine finalizzato alla eliminazione delle conseguenze dell’illecito, si ha l’attribuzione di funzioni speciali aventi carattere amministrativo sebbene esercitate in sede giurisdizionale, come reiteratamente affermato sia in relazione all’ordine di demolizione urbanistica di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, che in relazione all’ordine di remissione in pristino dello stato dei luoghi in tema di tutela del paesaggio, di cui all’art. 181 D.Lgs n. 42/2004”.

La reintegrazione del bene giuridico tutelato, attraverso la eliminazione delle conseguenze del reato, diviene quindi obiettivo primario e comune, e si verifica sia nel caso di condanna (o di provvedimento equipollente) attraverso l’esercizio di un potere sanzionatorio in capo al Giudice[7], sia attraverso la previsione di specifiche prescrizioni comportamentali che condizionano l’esito del procedimento, nei casi in cui – come nella messa alla prova – la assenza di un riconoscimento di responsabilità impedisce l’applicazione della sanzione, pur in “forma specifica”.

Nel concreto, però, mentre in materia edilizia il ripristino dello stato quo ante evoca semplicemente il concetto di demolizione del manufatto abusivo o di emissione di un’autorizzazione in sanatoria, in campo ambientale la sua operatività assume dei connotati decisamente meno pre-definiti, in quanto cambia in base alla tipologia del reato ambientale di cui si è verificata la commissione, e conseguentemente alla natura e alla portata della lesione del bene giuridico ambiente.

Infatti, la vasta poliedricità dell’offesa che può derivare dai diversi illeciti penali ambientali previsti dall’ordinamento, implica di per sé una pluralità di risposte messe in campo per la reintegrazione del bene, che si possono concretizzare in tutta una serie di azioni riparatorie, tra cui il ripristino, il recupero, la bonifica (etc), rispetto alla individuazione delle quali il Giudice è chiamato ad una valutazione nel merito, che implica di frequente anche conoscenze tecnico-scientifiche specifiche.

  1. Le condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose in materia di reati ambientali: cenni su opportunità e prospettive

È possibile, quindi, intanto affermare che quello della “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato” costituisca un requisito della messa alla prova che attiene all’offesa al bene giuridico – nella forma del danno o del pericolo – e alla conseguente necessità che questa venga in qualche modo eliminata o attenuata secondo gli schemi della giustizia riparativa[8].

Ne deriva che, a fronte della richiesta di ammissione alla prova per un reato ambientale, il Giudice sarà chiamato a rispondere ad almeno due interrogativi: da un lato, se effettivamente si siano verificate e permangano nel caso concreto conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato che possano essere eliminate dall’imputato[9], e dall’altro, in caso di risposta affermativa, attraverso quali prescrizioni comportamentali ottenere la reintegrazione del bene giuridico tutelato.

Ci si domanda, quindi, come dovrebbe comportarsi il Giudice a fronte di situazioni in cui il danno o il pericolo non risultino completamente eliminabili oppure l’imputato non sia nelle condizioni – eventualmente anche economiche – di adempiere a tali prescrizioni comportamentali.

Sotto il primo profilo, nonostante l’art. 168 bis c.p. – come visto – parli semplicemente di “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato” senza specificare il “grado” di riparazione del bene sufficiente per accedere all’istituto della messa alla prova, un altro riferimento normativo potrebbe consentire di ipotizzare l’ammissione a fronte di situazioni non del tutto “riparate”; l’art. 464 bis comma 4 c.p.p., infatti, nel descrivere il contenuto del programma di trattamento, precisa che le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici assunti dall’imputato sono finalizzati a “elidere” o “ attenuare” le conseguenze del reato.

In effetti, in questo senso, l’ordinamento prevede una serie “graduata” di strumenti di riparazione dell’offesa ambientale[10], che si distinguono proprio sotto il profilo dell’incidenza dell’intervento e della conseguente capacità di reintegrare il bene ambiente prima offeso, in modo parziale o provvisorio oppure, al contrario, definitivo.

Tali categorie di interventi sono descritte nel Testo Unico Ambientale in materia di “bonifica dei siti contaminati”, “classificate” dal legislatore in base appunto alla capacità di rispondere – nell’emergenza o nel lungo periodo – all’esigenza di riparare le risorse naturali danneggiate: si tratta in particolare della messa in sicurezza, della bonifica e del ripristino ambientale.

In particolare, l’art. 240 lett. o) T.U.A. definisce il concetto di “messa in sicurezza permanente”, come “l’insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e l’ambiente”.

Alla lettera p) del medesimo articolo, viene poi descritta la “bonifica” come “l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”.

Ed infine, alla successiva lett. q), il “rispristino ambientale” si concretizza con gli “interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici”.

Il rispristino, quindi, come è stato evidenziato[11], “si colloca su un piano ulteriore, in quanto comporta la ricollocazione o riattivazione delle componenti che siano andate distrutte ovvero rimosse in quanto irrimediabilmente compromesse”.

Fornite le possibili coordinate normative utili a riempire di contenuto le prescrizioni comportamentali riparatorie, nella gradazione di tali interventi, sarà poi il Giudice[12] a dover individuare quale azione – nel caso concreto – risulterà necessaria e sufficiente ad elidere (o attenuare) le conseguenze del reato: su questo punto, è la stessa sentenza in commento, dopo aver annullato l’ordinanza di ammissione della messa alla prova (e la conseguente sentenza di proscioglimento), a precisare che “Il Tribunale di Messina, nell’ammettere l’imputato alla prova, accerterà se questi abbia prestato le condotte dirette alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, ovvero in caso tali condotte non siano state realizzate, ne prescriverà l’adozione, precisandone il contenuto ed il termine per adempiere (…)”.

Il Giudice di merito, quindi, è chiamato ad un compito arduo e tecnicamente non semplice: comprendere, in primo luogo, la portata del pregiudizio concreto per l’ambiente derivato dalle modalità di realizzazione del reato, e soprattutto individuare le condotte riparative tecnicamente più idonee nel caso concreto a reintegrare il bene ambiente.

Nel caso concreto, nel quale era contestato il deposito incontrollato di rifiuti, ed in particolare di autocarri e materiali di risulta, la Corte di Cassazione – incidenter tantum – sia era anche espressa genericamente sul punto, ipotizzando come possibile, ai fini della eliminazione delle conseguenze del reato, “la bonifica dell’area o, eventualmente, la regolarizzazione della stessa”.

Non è dato sapere quale tipo di intervento la Suprema Corte immaginasse in relazione ad una non meglio specificata “regolarizzazione” del sito sotto il profilo ambientale, ma anche il concetto di “bonifica” parrebbe essere stato utilizzato in termini a-tecnici.

In questo senso, la complessa tecnicità della valutazione cui sarà chiamato il Giudice di merito suggerisce che lo stesso possa essere in qualche misura aiutato o coadiuvato dall’istante nella valutazione, nel singolo caso concreto, delle attività necessarie a porre rimedio all’offesa arrecata al bene giuridico.

3.1. Si noti, poi, che proprio le misure di riparazione più sopra descritte vengono richiamate – nel medesimo “ordine graduale” – dal Legislatore in tema di “ravvedimento operoso” ex art. 452 decies c.p.[13], introdotto con la riforma dei c.d. “eco-reati” (L. 22 maggio 2015, n. 68).

Tale norma prevede il riconoscimento di una circostanza attenuante ad effetto speciale nel caso in cui l’agente, “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile al rispristino dello stato dei luoghi”: in questi casi, in particolare, le pene per i reati previsti dal Titolo VI bis sono diminuite dalla metà a due terzi.

Interessante notare come, in taluni casi affrontati dalla giurisprudenza di merito[14], proprio il riconoscimento di tale circostanza attenuante a seguito dell’attuazione di interventi di riparazione, abbia consentito, di fatto, di estendere l’ammissibilità astratta della messa alla prova anche a reati “sulla carta” puniti con una pena superiore ai quattro anni[15], come ad esempio il reato di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” ex art. 452 quaterdecies c.p.[16].

Nonostante sulla validità di tale meccanismo – ed in particolare sulla possibilità di considerare le circostanze attenuanti al fine della determinazione del limite massimo di pena ai sensi dell’art. 168 bis c.p. – si siano sollevate talune voci contrarie[17], appare evidente come proprio l’intervento riparativo volto ed eliminare le conseguenze del reato ambientale giochi in ultima analisi un ruolo centrale, tanto da poter  – in ipotesi – giustificare una certa estensione applicativa dell’istituto della messa alla prova.

In simili casi, la reintegrazione del bene giuridico “ambiente” esplica quindi un duplice effetto: da un lato, consente il riconoscimento di una diminuzione della cornice edittale (eventualmente) funzionale alla ammissibilità “astratta” della messa alla prova e, all’altro costituisce di fatto già un pre-requisito di merito nella valutazione del Giudice rispetto alla condizione della “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivante dal reato”.

Si confermerebbe, in questo modo, l’istituto della messa alla prova – anche in materia ambientale – come strumento di risanamento della cesura creatasi, con l’illecito, tra il reo e la comunità, attraverso la previsione di una responsabilità attiva di quest’ultimo, che si realizza proprio tramite condotte che sfuggono alla matrice sanzionatoria per essere invece orientate alla riparazione dell’offesa cagionata dal reato[18].

Proprio l’attività riparatoria svolta dall’imputato, finalizzata a riassorbire almeno in parte il cd. “danno criminale”[19] prodotto dall’illecito, potrebbe contribuire – in ultima analisi – a giustificare la “rinuncia” alla pretesa punitiva in relazione, non solo alle classiche (e meno allarmanti) contravvenzioni del T.U.A., ma anche ai ben più gravi delitti ambientali previsti dal codice penale.

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Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cass. III, 5910_2023 mantegazza

NOTE:

[1] Sul tema, in generale, v. ex multis, F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, p. 1300; V. Bove, Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della l. 67/14, in dirittopenalecontemporaneo.it; M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni, in dirittopenalecontemporaneo.it; N. Triggiani, Dal probation minorile alla messa alla prova degli imputati adulti, in La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, N. Triggiani (a cura di), Milano, 2014; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova: alternativa al processo o processo senza garanzie, in Cass. Pen., 2015 p. 1264; L. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova, Padova, 2020.

[2] Come richiamato dalla decisione in commento, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Messina non risultava aver ricevuto comunicazione dell’ordinanza di ammissione alla prova -autonomamente impugnabile – con la conseguenza di rendere il P.G. stesso legittimato, ai sensi dell’art. 586 c.p.p., ad impugnare la sentenza di proscioglimento al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova.

[3] La decisione richiama la recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che esprimendosi sulla inapplicabilità dell’istituto della messa alla prova con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D.Lgs n. 231/2001, si è incidentalmente pronunciata anche sull’ammissibilità del ricorso per cassazione da parte del Procuratore generale avverso l’ordinanza di ammissione alla prova ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p. (cfr., Corte Cass. pen., Sez. Un., 6 aprile 2023, n. 14840).

[4] Cfr., § 4.2. sentenza in commento.

[5] Più precisamente, ciò che è stato affermato è che “L’ordine di demolizione dell’opera edilizia abusiva, previsto dall’art. 31 comma 9 d.P.R. n. 380 del 2001, presuppone la pronuncia di una senza di condanna, alla quale non può essere equiparata la declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ai sensi dell’art. 168 ter c.p., che prescinde da un accertamento di penale responsabilità, ferma restando la competenza dell’autorità amministrativa ad irrogare la predetta sanzione” (cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, n. 39455 del 10 maggio 2017).

[6] Si pensi, ad esempio, al ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 452 duodecies c.p. in virtù del quale, “Quando pronuncia sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. per taluno dei delitti previsti dal presente titolo [id est il Titolo VI Libro II del codice penale], il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il rispristino dello stato dei luoghi, ponendone l’esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all’art. 197 del presente codice”.

[7] In materia di ecoreati, la giurisprudenza di legittimità ha di recente affermato che: “ponendosi il potere del Giudice di ordinare il ripristino dello stato dell’ambiente in parallelo all’autorità amministrativa titolare di potere autonomo (cfr., artt. 242, 244, 250 D.Lgs. n. 152/2006), deve affermarsi che tale disposizione abbia natura di sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale. Non si pone, pertanto, nella specie, alcun problema di reformatio in peius (cfr., Corte Cass. pen., Sez. III, n. 39511, del 19 ottobre 2022).

[8] Sul punto, v. F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida dir., 2014, n. 21 p. 63; M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova e attivazione del rito, in AA.VV., Le nuove norme sulla giustizia penale, C. Conti, A. Marandola, G. Varraso (a cura di), Padova, 2014, p. 371.

[9] Il caso contrario è certamente verificabile, non solo nei casi in cui l’imputato si sia già adoperato, ma anche in relazione, ad esempio, ai reati ambientali cd. “formali” o che si consumano istantaneamente, senza provocare conseguenze dirette – né in termini di danno né di messa in pericolo – al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

[10] Il richiamo è all’art. 240 D.Lgs. n. 152/2006 che, in materia bonifica di siti contaminati definisce, alla lett. l), le misure riparatorie come “qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire un’alternativa equivalente a tali risorse o servizi”.

[11] P. Schiattone, Il ripristino dello stato dei luoghi, in Il nuovo diritto penale dell’ambiente, in AA.VV., Il nuovo diritto dell’ambiente, L. Cornacchia, N. Pisani (a cura di), Torino, 2018, p. 273.

[12] Sul potere discrezionale del Giudice in tema di ammissione alla messa alla prova dell’imputato, v. Corte Cass., Sez. IV., 8 marzo 2016, n. 9581, che ha chiarito che “La concessione del beneficio della sospensione del procedimento con  messa alla prova, ai sensi dell’art. 168 bis cod. pen, è rimessa al potere discrezionale del giudice e postula un giudizio volto a formulare una prognosi positiva riguardo all’efficacia riabilitativa e dissuasiva del programma di trattamento proposto e alla gravità delle ricadute negative sullo stesso imputato in caso di esito negativo”.

[13] In generale, sul ravvedimento operoso, cfr. L. Spadano, Il ravvedimento operoso, in AA.VV., Il nuovo diritto dell’ambiente, L. Cornacchia, N. Pisani (a cura di), Torino, 2018, p. 237.

[14] Cfr., Ordinanza G.U.P. di Trento del 2018, con quale l’imputato – chiamato a rispondere per il reato di omicidio stradale punito, ai sensi dell’art. 589 bis c.p., con la pena massima di sette anni di reclusione – riconosciuta la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui al comma 7 del medesimo articolo, era stato ammesso alla prova ai sensi dell’art. 168 bis c.p.

[15] Il ragionamento fonda le sue radici nel richiamo alla sentenza delle SS.UU. n. 36272/2016, che si era espressa sui criteri per la individuazione del limite edittale di pena rilevanti ai sensi dell’art. 168 bis c.p. e che aveva escluso, ai fini del computo, le sole circostanze aggravanti, senza pronunciarsi invece su quelle attenuanti; in particolare, l’esclusione delle circostanze aggravanti ai fini della individuazione del limite edittale massimo per la messa alla prova era seguito alla considerazione che “una eccessiva enfatizzazione delle ragioni general-preventive, tendenti a limitare l’istituto ai reati rientranti nella fascia di gravità bassa, rischia di tradire la stessa ratio della messa alla prova (…) la lettura corretta della norma amplia il perimetro di operatività del rito, spostando sul giudice e sul suo potere discrezionale la motivata valutazione in merito alla fondatezza della richiesta dell’imputato, coerentemente con le finalità special-preventive della messa alla prova (….) l’effetto di estendere l’ambito applicativo della messa alla prova a reati che possono presentare maggiore disvalore trova piena giustificazione con il fatto che si tratta di un istituto che prevede, comunque, un “trattamento sanzionatorio” a contenuto afflittivo, non detentivo, che può condurre alla estinzione del reato.

[16]Precisamente il caso dell’Ordinanza emessa dal G.U.P. di Milano in data 23 marzo 2022, che applicando l’attenuante del ravvedimento operoso, ha ammesso gli imputati alla messa alla prova in relazione ad una ipotesi di traffico illecito di rifiuti.

[17] Cfr., Corte Cass. pen., Sez. III, 1° dicembre 2022, n. 45546, che ha affermato che “ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all’art. 168 bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le riduzioni dovute all’applicazione delle circostanze attenuanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie di versa da quella ordinaria del reato”.

[18] In questo senso, si è affermato che “il meccanismo (…) è piuttosto lineare: condotta riparativa-estinzione del reato. Quest’operazione, all’apparenza banale, presenta un significato giuridico complesso: l’attivazione del soggetto nella rimozione delle conseguenze del reato non è imposta dall’ordinamento a titolo di risposta “penale” bensì è volontaria e, per ciò, in grado di svuotare il precedente comportamento della propria antigiuridicità”; M.C. Saporito, La messa alla prova nell’esperienza giurisprudenziale: un faticoso percorso verso l’allineamento costituzionale, in Processo penale e giustizia, n. 5/2019, p. 1343.

[19] Per “danno criminale” si intendono “le conseguenze, diverse dal pregiudizio economicamente apprezzabile e risarcibile, che astrattamente ineriscono alla lesione (o alla messa in pericolo) del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata”. Cfr., Corte Cass. pen., Sez. VI, 22 settembre 2004, n. 43188, in tema di sospensione condizionale della pena subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ai sensi dell’art. 165 c.p.

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