Il caso dei liquami zootecnici (di nuovo) al vaglio della Cassazione

15 Giu 2020 | giurisprudenza, penale

Di Roberta Mantegazza

CASSAZIONE PENALE Sez. III – 10 gennaio 2020 (dep. 11 marzo 2020), n. 9717 – Pres. Izzo, Est. Galtiero – ric. Battipaglia

La disciplina sugli scarichi trova applicazione soltanto se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato mediante un sistema stabile di collettamento, costituito da un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore, mentre in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si verte invece nell’ambito della disciplina sui rifiuti. Ad identiche conclusioni si perviene anche con riferimento alla raccolta di liquami zootecnici, potendosi escludere la riconducibilità della condotta all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 solo quando le materie fecali siano impiegate nell’attività agricola.

1.1 Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di una questione ampiamente dibattuta in giurisprudenza: la distinzione giuridica tra la nozione di scarico e quella di rifiuto liquido.

Il tema implica notevoli conseguenze sul piano pratico se si pensa che, a seconda della classificazione attribuita e dall’applicazione della disciplina della parte terza del D.Lgs. n. 152/2006, in tema di acque, o della parte quarta, in tema di rifiuti, derivano importanti effetti di natura tanto operativa quanto sanzionatoria.

La parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006 disciplina, infatti, la gestione dei rifiuti di ogni natura e composizione, compresi i cd. “rifiuti liquidi”, specificando, all’art. 185 comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 152 del 2006, che “sono esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto (…): le acque di scarico”; è dunque la nozione di scarico a definire “per difetto” l’ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti: è rifiuto liquido, con applicazione della parte quarta del Decreto, ciò che non è scarico in senso tecnico.

È sempre la parte quarta del Decreto a definire, poi, la nozione di “scarichi idrici”, richiamando a sua volta la disciplina delle “immissioni di acque reflue di cui all’art. 74 comma 1 lett. ff)”, ricompresa tra le definizioni della parte terza del Decreto in tema di tutela delle acque.

La questione interpretativa[i] affrontata dalla decisione in commento si fonda, dunque, sulla definizione di scarico ai sensi dell’art. 74, comma 1, lett. ff), D.Lgs. n. 152/2006, che – a seguito del c.d. “secondo correttivo” (D.Lgs. n. 4/2008) – così recita: “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo recettore di acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione (…)”.

Nel caso di specie, il ricorrente (titolare in una azienda agricola zootecnica) era stato condannato dalla Corte di Appello di Salerno per il reato di abbandono di rifiuti di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, per aver fatto defluire i reflui ed il letame via via accumulati nei recinti del bestiame, direttamente sul terreno sottostante, attraverso fori a tal fine praticati sul fondo del ricovero degli animali.

Con il primo dei due motivi di ricorso presentati (relativo ad un presunto travisamento della prova da parte della Corte territoriale), il ricorrente aveva inteso prospettare – nella sostanza – una diversa qualificazione giuridica della condotta incriminata, adducendo come, a fronte della consistenza liquida dei reflui sversati, l’unico illecito commesso dall’imputato fosse, al più, quello degli scarichi non autorizzati, sanzionabile solo in via amministrativa in base al combinato disposto degli artt. 101, comma 2, lett. b) e 133, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, equipara le acque reflue “provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame” alle acque reflue domestiche[ii].

L’argomentazione difensiva era fondata principalmente su due elementi: da un lato, le contraddittorie indicazioni emerse nell’istruttoria dibattimentale in ordine alla “consistenza” (liquida o solida) degli effluenti animali che erano “percolati” dai fori sopra descritti, e dall’altro la pendenza del terreno sul quale gli stessi erano confluiti, che, secondo il ricorrente, ne avrebbe consentito (così si deve intendere il riferimento pur implicito operato nella motivazione della Suprema Corte) il deflusso continuativo e senza soluzione di continuità verso il “corpo recettore”.

La tesi, in parte suggestiva (in quanto chiaramente volta a ricondurre le caratteristiche fattuali della fattispecie nel solco interpretativo fatto proprio dalla Cassazione in merito alla nozione di scarico[iii]), non ha tuttavia trovato l’avallo della Corte.

Al di là dei pur interessanti cenni in ordine ai limiti del vaglio di legittimità sul cd. “travisamento della prova”, la Corte di Cassazione ha ribadito, ancora una volta, i rapporti tra la normativa sulla tutela delle acque e quelle in tema di rifiuti liquidi, escludendo che nel caso di specie si configurasse un’ipotesi di scarico, in quanto “la disciplina degli scarichi trova applicazione soltanto se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ad attuato mediante un sistema stabile di collettamento, costituito da un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo recettore, mentre in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si verte invece nell’ambito della disciplina sui rifiuti”.

Pur in assenza di una esplicita affermazione in sentenza, la Corte ha dunque ritenuto privo di pregio l’assunto per cui la “tracimazione diretta” degli effluenti animali attraverso i fori praticati alla base dei recinti potesse assurgere a sistema di canalizzazione del refluo[iv], che invece deve caratterizzato dal “requisito del convogliamento del liquido tramite condotta, in conformità al disposto dell’art. 74 lett. ff) D.Lgs. n. 152/2006[v].

Lo sversamento degli effluenti derivanti dall’allevamento sul terreno sottostante i ricoveri degli animali è stato dunque inquadrato dalla Corte di Cassazione, ancora una volta[vi], come abbandono di rifiuti liquidi, in quanto è stato appurato nel merito come gli stessi non defluissero direttamente in condotte di scarico e raggiungessero, invece, il terreno per “ruscellamento”, sul quale poi ristagnavano.

La Corte di Cassazione ha, infatti, richiamato un precedente arresto (equiparando il caso di specie a quello di raccolta di liquami zootecnici in vasche) nel quale si era verificato un episodio di spandimento di liquami sul suolo “che aveva formato una sorta di palude di reflui zootecnici provenienti da una vasca di contenimento di un allevamento suinicolo (…) e la quantità di reflui aveva oltrepassato il canale di scolo ed era defluita verso il fiume Lambro[vii].

In quel caso, la Suprema Corte era intervenuta per dirimere la confusione venutasi a creare a seguito della modifica all’art. 101 D.Lgs. n. 152/2006 (“Criteri generali della disciplina degli scarichi”),  introdotta dal D.Lgs. n. 4/2008, che ne aveva modificato il comma 7, lett. b), stabilendo che “salvo quanto previsto dall’art. 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue (…) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame”.

La sentenza in commento pare, dunque, uniformarsi alla decisione sopra citata: se è vero, da un lato, che il D.Lgs. n. 4/2008 ha assimilato le acque reflue provenienti da imprese agricole o da allevamenti di bestiame a quelle domestiche, è pure vero, dall’altro, che tale equiparazione ha ragion d’essere solo ove si accerti, preliminarmente ed in concreto, la presenza di uno scarico diretto tramite condotta; “solo in tale caso, ossia in mancanza di spandimento sul suolo degli effluenti derivanti (…) dall’allevamento di bestiame, era ed è applicabile la disciplina prevista per gli scarichi domestici, ricorrendo le altre condizioni previste dalla legge per l’assimilazione”.

Diversamente, in assenza di uno scarico in senso tecnico-giuridico, i liquami zootecnici costituiscono rifiuto ai sensi dell’art. 185, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/32006, con applicazione della disciplina della parte quarta del Decreto anche in termini sanzionatori, ai sensi dell’art. 256 del Testo Unico.

Nel ribadire il discrimen tra acque di scarico e rifiuti liquidi anche in materia di reflui zootecnici, con la decisione in commento Corte ha precisato, infine, che nel caso di specie – cioè in assenza di uno scarico – sarebbe stato possibile escludere l’applicabilità dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 solo quando gli effluenti di allevamento fossero stati gestiti conformemente alla disciplina dei rifiuti (ossia impiegati nell’attività agricola ai fini di recupero ovvero regolarmente smaltiti).

1.2. Nel caso di specie, infatti, la Corte non ha ritenuto applicabile neppure la diversa disciplina relativa all’utilizzazione agronomica[viii] degli effluenti di allevamento, ricompresa nella parte terza del D.Lgs. n. 152/2006, che avrebbe potuto – per certi versi (ed entro specifici limiti normativi) – incidere sulla rilevanza penale del fatto oggetto della sentenza in commento ed, in ogni caso, sulla sfera sanzionatoria della condotta.

In tema di gestione degli effluenti derivanti da allevamento di bestiame si pongono, infatti, due distinte e separate questioni ermeneutiche: la prima, come visto, riferita alla linea discriminatoria tra la disciplina sui rifiuti e quella sulle acque, e la seconda relativa alla applicabilità della disciplina sulla fertirrigazione di cui all’art. 112 D.Lgs. n. 152/2006, che prescinde dalla distinzione tra scarico e rifiuto (cosi come dalla relativa disciplina), e consiste in una attività successiva di “recupero zootecnico” dei liquami.

Definita come sopra la soluzione fornita dalla Corte rispetto al primo dei due profili, rimane da trattare, brevemente, il secondo punto; procedendo con ordine, si deve richiamare anzitutto l’art. 112 D.Lgs. n. 152/2006, che disciplina, in via autonoma, l’utilizzazione agronomica (cd. fertirrigazione) tanto degli effluenti di allevamento quanto delle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all’art. 101, comma 7, lett. b), D.Lgs. n.152/2006 (cioè, appunto, quelle provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame).

Sinteticamente, senza entrare in questa sede nel merito della normativa tecnica del Decreto Ministeriale 25 febbraio 2016[ix] che ha dettato i principi generali della materia, rimandando all’ambito  regionale l’onere di individuare gli adempimenti necessari per il corretto “recupero” agronomico degli effluenti di allevamento, la Corte di Cassazione ha chiarito che “la pratica della fertirrigazione prescinde dalla modalità di gestione delle acque reflue di allevamento, sia che esse siano o no soggette alla normativa sui rifiuti o a quella sulle acque, ed in questo ultimo caso indipendentemente dalla classificazione dello scarico come industriale o domestico”[x].

La confusione era nata dalla precedente formulazione dell’art. 101 D.Lgs. n. 152/2006 e l’attuale disciplina della fertirrigazione ai sensi dell’art. 112, che aveva di fatto determinato una indebita sovrapposizione dei due diversi piani: l’equiparazione degli scarichi di allevamento a quelli domestici, da un lato, e la diversa (ed autonoma) attività di utilizzazione agronomica dei liquami zootecnici, dall’altro.

Prima della modifica normativa dell’art. 101 D.Lgs. n. 152/2006 da parte del D.Lgs. n. 4/2008, infatti, l’assimilazione tra scarichi domestici e reflui da allevamento era riconosciuta a condizione che il fondo ove l’allevamento era collocato fosse di dimensioni tali da riuscire a smaltire il carico delle sostanze azotate presenti negli effluenti animali attraverso l’utilizzazione agronomica degli stessi a norma dell’art. 112 D.Lgs. n. 152/2006; i due profili risultavano, pertanto, per certi versi connessi.

Tale requisito è però venuto meno con la novella richiamata, che ha equiparato tout court le acque reflue domestiche a quelle di cui all’art. 101, comma 7, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006, a prescindere dal richiamo all’art. 112[xi], con conseguente applicazione della sanzione amministrativa ex art. 133 D.Lgs. n. 152/2006 in caso di scarico senza autorizzazione di acque reflue provenienti da imprese dedite all’allevamento del bestiame[xii].

La depenalizzazione della condotta di scarico si verifica, tuttavia, al ricorrere di due requisiti: da un lato, come visto, che sia presente un sistema di collettamento dei reflui con il corpo recettore tale da poter essere definito “scarico” (diversamente, troverà applicazione la disciplina sui rifiuti), dall’altro che non si verta in un’ipotesi di utilizzazione agronomica dei reflui al di fuori dei casi o dei limiti consentiti, dovendosi in quest’ultimo caso ritenere applicabile la sanzione penale di cui all’art. 137, comma 14, D.Lgs. n.152/2006[xiii].

In questo solco interpretativo, si devono perciò leggere le sentenze della Corte di Cassazione che avevano stabilito che “in tema di tutela delle acque dall’inquinamento, anche a seguito della depenalizzazione della condotta di scarico senza autorizzazione di reflui provenienti da attività d’allevamento del bestiame per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 all’art. 101, comma settimo, lett. b) del D.Lgs. 152/2006, l’utilizzazione agronomica dei reflui medesimi, al di fuori dei casi o dei limiti consentiti, continua ad integrare il reato previsto dall’art. 137 comma quattordicesimo del D.Lgs. 152/2006”[xiv].

La linea seguita dalla giurisprudenza appare dunque, in ultima analisi, coerente: l’utilizzazione agronomica di cui trattasi è disciplinata dalla parte terza del Decreto, e se rispettosa della normativa vigente è (ed era) da considerarsi legittima; gli scarichi recapitanti da allevamento continuano a mantenere rilevanza penale nel solo caso di utilizzazione agronomica irregolare ai sensi dell’art. 137, comma 14, D.Lgs.. n. 152/2006.

Ancora diverso, pertanto, il caso oggetto della sentenza in commento, nel quale – come si è visto – non solo non era configurabile un sistema di collettamento degli effluenti di allevamento, con conseguente applicazione della normativa sui rifiuti, ma nemmeno la condotta contestata poteva ritenersi sussumibile in quella di utilizzazione irregolare ai fini agronomici, come visto ricadente nella disciplina (penale) degli scarichi.

Al contrario, lo spandimento dei liquami zootecnici per uso diverso da quello agricolo rientra nel campo di applicazione dei rifiuti, e quindi – conclude la decisione commentata – “indipendentemente dalla natura liquida o solida degli escrementi l’imputato, non potendo spandere al suolo quei rifiuti, avrebbe dovuto stoccarli nell’attesa dello spandimento ai fini agricoli o affidarli ad un’impresa autorizzata allo smaltimento”.

In definitiva, dunque, si conferma l’orientamento della Corte di Cassazione, in base al quale: “non si può parlare di fertirrigazione del suolo allorché, come avvenuto nella fattispecie, i liquami vengono abbandonati alla rinfusa senza possibilità di assorbimento da parte del terreno, dando luogo a ruscellamenti, acquitrini o addirittura a paludi putrescenti, che non assolvendo la funzione propria della fertirrigazione di rendere i campi prosperi. (…) In questi casi non si versa in ipotesi di fertirrigazione ma di abbandono di rifiuti sia in base alla normativa previgente che a quell’attuale”[xv].

1.3. Per completezza, il secondo motivo di ricorso (l’unico poi ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione) afferiva invece alla illegalità del trattamento sanzionatorio irrogato dalla Corte di Appello, che aveva applicato al ricorrente la pena dell’arresto congiunta a quella pecuniaria ex art. 256 comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006, senza considerare che i liquami zootecnici – afferma la Corte – devono essere sempre classificati come “rifiuti non pericolosi” in base all’allegato D alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006 (voce 02 01 06)[xvi], con conseguente applicazione del regime sanzionatorio alternativo previsto dall’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006.

Nell’annullare la sentenza della Corte di Appello di Salerno per illegalità del trattamento sanzionatorio, la Corte di Cassazione ha dunque confermato la corretta qualificazione giuridica della condotta in contestazione ai sensi dell’art. 256 del Testo Unico, non potendosi ritenere applicabile la disciplina degli scarichi per un duplice ordine di ragioni: la assenza di uno scarico in senso giuridico, ed in ogni caso la impossibilità di ricondurre, sul piano concreto, lo spandimento di cui trattasi alla nozione di “utilizzazione agronomica” ai sensi degli artt. 74, comma 1, lett. p), 112 e 137, comma 14, D.Lgs. n. 152/2006 e dovendosi dunque, anche per tale ragione, escludere l’applicabilità della disciplina della Parte terza del Decreto.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

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[i] Il rapporto tra la disciplina dei rifiuti liquidi e quella degli scarichi di acque reflue è stato spesso caratterizzato da forti incertezze, alimentate dall’esigenza di chiarire le terminologie e i relativi campi di applicazione alla luce delle modifiche normative via via succedutesi in relazione alla definizione di “scarico”. Per un excursus dalla originaria distinzione di “scarico diretto” e “scarico indiretto”, fino alle modifiche da ultimo apportate alla disciplina con il cd. “secondo correttivo” (D.Lgs.. n. 4/2008), cfr. I. Scordamaglia, La tutela penale delle acque, in L. Cornacchia, N. Pisani (a cura di), Il nuovo diritto penale dell’ambiente, Torino, 2018, p. 432.

[ii] L’art. 133 D.Lgs. n. 152/2006 (“sanzioni amministrative”) stabilisce che: “1.  Chiunque, salvo che il fatto costituisca reato e fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, commi 2 e 3, nell’effettuazione di uno scarico superi i valori limite di emissione fissati nelle tabelle di cui all’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, oppure i diversi valori limite stabiliti dalle regioni a norma dell’articolo 101, comma 2, o quelli fissati dall’autorità competente a norma dell’articolo 107, comma 1, o dell’articolo 108, comma 1, è punito con la sanzione amministrativa da tremila euro a trentamila euro. Se l’inosservanza dei valori limite riguarda scarichi recapitanti nelle aree di salvaguardia delle risorse idriche destinate al consumo umano di cui all’articolo 94, oppure in corpi idrici posti nelle aree protette di cui alla vigente normativa, si applica la sanzione amministrativa non inferiore a ventimila euro.

  1. Chiunque apra o comunque effettui scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie, servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 124, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, è punito con la sanzione amministrativa da seimila euro a sessantamila euro. Nell’ipotesi di scarichi relativi ad edifici isolati adibiti ad uso abitativo la sanzione è da seicento euro a tremila euro.
  2. Chiunque, salvo che il fatto costituisca reato, al di fuori delle ipotesi di cui al comma 1 e di cui all’articolo 29-quattuordecies, comma 2, effettui o mantenga uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel provvedimento di autorizzazione o fissate ai sensi dell’articolo 107, comma 1, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento euro a quindicimila euro. 
  3. Chiunque, salvo che il fatto costituisca reato, effettui l’immersione in mare dei materiali indicati all’articolo 109, comma 1, lettere a) e b), ovvero svolga l’attività di posa in mare cui al comma 5 dello stesso articolo, senza autorizzazione, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento euro a quindicimila euro.
  4. Salvo che il fatto costituisca reato, fino all’emanazione della disciplina regionale di cui all’articolo 112, comma 2, chiunque non osservi le disposizioni di cui all’articolo 170, comma 7, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da seicento euro a seimila euro.
  5. Chiunque, salvo che il fatto costituisca reato, non osservi il divieto di smaltimento dei fanghi previsto dall’articolo 127, comma 2, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da seimila euro a sessantamila euro.
  6. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da tremila euro a trentamila euro chiunque:
  7. a)  nell’effettuazione delle operazioni di svaso, sghiaiamento o sfangamento delle dighe, superi i limiti o non osservi le altre prescrizioni contenute nello specifico progetto di gestione dell’impianto di cui all’articolo 114, comma 2; 
  8. b)  effettui le medesime operazioni prima dell’approvazione del progetto di gestione.
  9. Chiunque violi le prescrizioni concernenti l’installazione e la manutenzione dei dispositivi per la misurazione delle portate e dei volumi, oppure l’obbligo di trasmissione dei risultati delle misurazioni di cui all’articolo 95, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento euro a seimila euro. Nei casi di particolare tenuità la sanzione è ridotta ad un quinto.
  10. Chiunque non ottemperi alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’articolo 113, comma 1, lettera b), è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento euro a quindicimila euro”.

[iii] Sulla nozione generale di “scarico”, cfr. Ex multis, Corte Cass. pen., Sez. III, 18 giugno 2009, n. 35138; Corte Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 2010, n. 22036; Corte Cass. pen., Sez. III, 19 ottobre 2011, n. 45340; Corte Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 16623; Corte Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 2015, n. 47038; Corte Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6998.

[iv] Il nesso funzionale e diretto delle acque con il corpo recettore può essere attuato mediante “qualunque sistema stabile di collettamento” che ne consenta la canalizzazione senza soluzione di continuità, e non necessariamente attraverso una “condotta”; sul punto, cfr., Corte Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 2007, n. 40191, che ha stabilito che “in tema di tutela delle acque dall’inquinamento, anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (il cui art. 74, lett. ff) – a differenza dell’abrogato art. 2 lett. bb) D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 – non contiene il riferimento espresso alla immissione diretta tramite condotta) – per “scarico” deve intendersi l’immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione, anche se non necessariamente costituito da tubazioni”.

[v] Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2011, n. 15652; Corte Cass. pen., Sez. III, 7 novembre 2017, n. 50629.

[vi] Già in passato la Corte di Cassazione era intervenuta in materia, stabilendo che “sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido, soggetti alla disciplina dell’art. 256 del D.Lgs. 152 del 2006, gli effluenti di allevamento di bestiame che, in luogo di defluire direttamente nelle condotte di scarico, siano raccolti in apposite vasche a tempo indeterminato” (Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2011, n. 2011).

[vii] Corte Cass. pen., Sez. III, 20 maggio 2008, n. 27071.

[viii] In materia di tutela delle acque dall’inquinamento (Parte III, Sezione II D.Lgs. n.152/2006), l’art. 74 (“Definizioni”), comma I, lett. p) definisce “utilizzazione agronomica: la gestione degli effluenti di allevamento, acque di vegetazione residuate dalla lavorazione delle olive, acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole azienda agro-alimentari, dalla loro produzione fino all’applicazione al terreno ovvero al loro utilizzo irriguo o fertirriguo, finalizzati all’utilizzo delle sostanze nutritive e ammendanti nei medesimi contenute”.

[ix]Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché la produzione e l’utilizzazione agronomica del digestato”, cfr., in particolare, l’art. 3 “Definizioni”, che al comma 1 fornisce le nozioni di “lett. c): effluente di allevamento”, “lett. f): acque reflue”, “lett. g) utilizzazione agronomica”, “lett. h) fertirrigazioni”.

[x] Corte Cass. pen., Sez. III, 20 maggio 2008, n. 27071.

[xi] Come visto, infatti, l’art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006 equipara alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti da imprese dedite all’allevamento di bestiame a prescindere dall’utilizzazione agronomica degli effluenti animali, prevedendo invece per questi una disciplina ad hoc (cfr., clausola di salvaguardia contenuta nell’incipit dell’art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006: “salvo quanto previsto dall’art. 112”).

[xii] La modifica normativa operata, in particolare, ha comportato il venir meno della “connessione funzionale dell’allevamento con la coltivazione della terra” e dei criteri di individuazione di tale connessione, capovolgendo in ultima analisi i termini della questione rispetto alla disciplina regolata dalla formulazione originaria del D.Lgs.. 152/2006. Nella precedente situazione normativa, infatti, le acque reflue provenienti da attività di allevamento di bestiame erano da considerarsi, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, come acque reflue industriali, e solo eccezionalmente potevano essere assimilate alle acque reflue domestiche, qualora fosse dimostrata la presenza delle condizioni indicate dall’art. 28, comma 7, lett b), D.Lgs. 11 maggio 1999 (poi art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006), appunto la prova della connessione del terreno agricolo con le attività di allevamento.

[xiii] L’art. 137, comma 14, D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce che: “Chiunque effettui l’utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento (…), nonché di acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari di cui all’art. 112, al di fuori dei casi e delle procedure ivi previste (…) è punito con l’ammenda da euro millecinquecento a euro diecimila o con l’arresto fino ad un anno. La stessa pena si applica a chiunque effettui l’utilizzazione agronomica al di fuori dei casi e delle procedure di cui alla normativa vigente”.

[xiv] Corte Cass. pen., Sez. III, 21 maggio 2008, n. 26532.

[xv] Corte Cass. pen., Sez. III., 20 maggio 2008, n. 27071.

[xvi] Per completezza, si richiama l’art. 184, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006, che stabilisce: “L’elenco dei rifiuti di cui all’allegato D alla parte quarta del presente decreto include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell’origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerare pericolosi. L’inclusione di una sostanza o di un oggetto nell’elenco non significa che esso sia un rifiuto in tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all’articolo 183”.

 

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