Gestione post-operativa di discarica abusiva e permanenza del reato

01 Dic 2023 | giurisprudenza, penale

di Vincenzo Paone

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 16 giugno 2023 (dep. 12 settembre 2023), n. 37123 Pres. Ramacci, Est. Reynaud Ric. I. R. S.r.l.

Premesso che la cessazione della permanenza del reato di cui all’art. 256, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 è legata ad un’eventuale gestione post-operativa della discarica, la responsabilità in questione, tuttavia, riguarda esclusivamente il soggetto gestore, come definito dall’art. 2, lett. o), D.Lgs.  n. 36/2003, tenuto al completamento delle procedure di chiusura disciplinate dall’art. 8, lett. h), cit. dec.

  1. Il fatto oggetto della pronuncia.

La sentenza in epigrafe si segnala perché, pur rifacendosi all’impostazione ormai consolidata in tema di permanenza del reato di discarica abusiva, comprensiva della cd. fase post-operativa, introduce un elemento nuovo che potrebbe ridimensionare la portata del principio in questione.

Nella fattispecie, il rappresentante legale di una società si era rivolto al Tribunale del riesame per opporsi al disposto sequestro preventivo di un’area di proprietà della medesima società sulla quale risultavano stoccati circa 250.000 mc. di rifiuti. Pur provvedendo ad una diversa qualificazione giuridica dei fatti[1], il Tribunale respingeva la richiesta reputando sussistente il fumus del reato di cui all’art. 256, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006.

Nel successivo ricorso per cassazione, il ricorrente, in sintesi, lamentava che la situazione di deposito dei rifiuti sull’area sottoposta a sequestro, adibita all’allocazione dei residui metallurgici derivanti dai cicli di produzione e lavorazione di una precedente società proprietaria del sito, si era cristallizzata in epoca di molto anteriore all’acquisto della stessa da parte della società da ultimo inquisita e nulla era mutato rispetto al sequestro della medesima area disposto nel 2000 e poi revocato con provvedimento del G.i.p. del Tribunale.

Secondo il ricorrente, pertanto, l’eventuale reato di discarica abusiva si sarebbe potuto configurare a carico di altri soggetti, in relazione alle attività svolte dalla precedente società. Il tentativo, compiuto nell’ordinanza impugnata, di ricostruire in capo all’indagato una responsabilità penale per quel reato si era tradotto nella violazione del principio di tipicità della norma penale, essendosi confusa l’individuazione della condotta illecita con gli effetti della stessa. Infatti, la società rappresentata dal ricorrente non aveva posto in essere alcuna condotta di natura attiva od omissiva ricollegabile alla gestione della discarica da altri realizzata in epoca risalente.

Inoltre, il ricorrente evidenziava che nessun obbligo giuridico di controllo rispetto ai rifiuti smaltiti da altri poteva ravvisarsi a carico del successivo proprietario dell’area, gravando sul medesimo un solo obbligo solidale di carattere riparatorio rispetto al ripristino dello stato dei luoghi. In assenza di atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, la mera inerzia o la mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti stessi non integrava gli estremi del concorso nel reato ipotizzato, non essendo configurabile un obbligo giuridico di impedimento dell’evento lesivo, ex art. 40, cpv. c.p.

La Cassazione ha accolto il ricorso evidenziando che era illegittimo il sequestro preventivo di un bene in caso di intervenuta prescrizione del reato, prima dell’esercizio dell’azione penale, rilevando tale aspetto, sotto il profilo della mancanza del fumus del reato ipotizzato in sede di riesame.

La sentenza in esame ha ricostruito le vicende che avevano condotto all’accumulo presso il sito sequestrato di una rilevantissima quantità di rifiuti mutuandola dall’ordinanza del Tribunale che si esprimeva in questi termini:

“attesta trattarsi, per lo più, di cumuli di scorie di lavorazione riconducibili all’attività svolta in loco dalla Società A. d. S. S.p.a. sino alla fine degli anni novanta del secolo scorso; rileva che la I. R. S.r.l. aveva acquistato la proprietà dell’area nel 2001, a seguito del fallimento della A. d. S., e non aveva mai provveduto alla bonifica e messa in sicurezza del sito (in precedenza già sottoposto a sequestro dall’autorità giudiziaria penale e restituito proprio a tal fine nel 2002), né ad attività di caratterizzazione dei rifiuti e di verifica delle conseguenze dovute ad infiltrazioni inquinanti nel sottosuolo e nelle falde acquifere; dà conto che in occasione del nuovo sequestro effettuato nell’ottobre 2022 sono state altresì rinvenute ulteriori tipologie di rifiuto, necessitanti di indagini per la loro classificazione, comunque oggetto di risalente sversamento, essendo completamente coperte di vegetazione; attesta, peraltro, che già nell’anno 2000 veniva descritta l’esistenza di rifiuti estranei all’attività di acciaieria (come materiali da demolizione) ciò che testimoniava come l’area venisse utilizzata quale discarica anche da terzi estranei all’attività industriale, aggiungendo che questo potrebbe avvenire anche attualmente, donde la necessità del sequestro preventivo; ricostruisce in capo ai soggetti che, pur dopo il 2002, sono stati proprietari o possessori dell’area (unitamente agli organi deputati al controllo del territorio), da ultimo anche all’amministratore giudiziario di I. R. S.r.l., sottoposta a sequestro per reati di criminalità organizzata, una posizione di garanzia idonea a radicare una corresponsabilità omissiva rispetto alla contravvenzione ambientale ravvisata; reputa, in particolare, che il concetto di “gestione” di una discarica abusiva debba essere inteso in senso ampio, dovendosi includere qualsiasi contributo, attivo o passivo, «diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente»; esclude, pertanto, che il reato sia ad oggi prescritto, affermandone la permanenza «con riferimento alla gestone abusiva o irregolare anche della fase post-operativa di una discarica…(che) può cessare solo con il venire meno della situazione di antigiuridicità per il rilascio dell’autorizzazione amministrazione amministrativa, con la rimozione dei rifiuti o con la bonifica dell’area, ovvero con il sequestro…ovvero, ancora, con la pronuncia della sentenza di primo grado»; disattendendo la prospettazione difensiva evocante la prescrizione del reato sul rilievo dell’inesistenza di una perdurante condotta penalmente rilevante con riguardo ad un’area dismessa da tempo, afferma che «è proprio la “dismissione”, ovvero l’abbandono dell’area a sé stessa e l’omissione di qualsivoglia intervento finalizzato a mettere, quantomeno, in sicurezza l’enorme massa di rifiuti speciali sulla stessa sversati a costituire condotta penalmente rilevante ai sensi del comma terzo dell’art. 256 d.l.vo D.Lgs. n. 152 del 2006»”.

Ciò posto, la Suprema Corte ha ritenuto che l’ordinanza impugnata non avesse fatto buon governo dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione della cessazione della permanenza del reato di discarica abusiva.

  1. Il principio che la gestione di una discarica comprenda qualsiasi contributo, sia attivo che passivo.

La Cassazione ha, innanzitutto, smontato l’impostazione dell’ordinanza impugnata che aveva ripetutamente richiamato un precedente[2], secondo cui il concetto di gestione di una discarica abusiva deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato.

Secondo la Corte, tale principio presuppone che sia provata la prosecuzione della gestione operativa della discarica, intesa come mantenimento di un sito ove continuano a prodursi illeciti sversamenti di rifiuti, circostanza idonea a fondare la protrazione della consumazione del reato permanente. E difatti, non a caso, nella sentenza su citata era stato ritenuto il concorso, nell’utilizzazione di una preesistente discarica, da parte del sindaco e dei funzionari responsabili dell’Ufficio tecnico comunale attuato mediante violazione dell’obbligo giuridico di impedire la protrazione dello smaltimento in loco dei rifiuti.

Con questo chiarimento, la Cassazione ha perciò ritenuto che il Tribunale del riesame avrebbe dovuto verificare in concreto se – ed, eventualmente, sino a quando – l’area sottoposta a sequestro avesse continuato ad essere utilizzata quale ricettacolo per il conferimento di rifiuti anche nel periodo successivo alla cessazione dell’impianto produttivo che aveva determinato, sotto la precedente gestione societaria, la realizzazione della discarica. Invece, questa verifica era mancata e l’attestazione circa lo sversamento di rifiuti di natura diversa, da un lato, era datata all’anno 2000 e, dall’altro lato, era considerata come al più protrattasi sino ad epoca comunque risalente, tanto da aver determinato la copertura degli stessi con vegetazione che ne rendeva anche difficoltosa la classificazione.

Soffermiamo l’attenzione sul discorso svolto dalla Cassazione. La Corte, infatti, ha preso debitamente le distanze da un’affermazione, che compare spesso nelle decisioni emesse in argomento, della cui fondatezza è lecito dubitare[3]. In effetti, a parte l’utilizzo del vocabolo “passivo”, cui sarebbe stato preferibile “omissivo”, più in linea con la rilevanza penalistica dei comportamenti consistenti nel “non fare”, sostenere che il concetto di gestione di una discarica comprenda anche un contributo “passivo” (nel senso di atteggiamento psichico di chi tolleri le condizioni del sito adibito a discarica) non convince per due ragioni fondamentali: in primo luogo, perché il verbo “gestire” indica chiaramente una condotta attiva; in secondo luogo, perché il “non agire” è punibile soltanto quando una norma giuridica stabilisca tassativamente l’obbligo di attivarsi, norma che nella fattispecie manca. Di conseguenza, l’acritico richiamo al principio in questione può tradursi nell’affermazione di responsabilità da “posizione”.

  1. Il ragionamento della Cassazione.

La sentenza in epigrafe non ha però portato alle ulteriori conseguenze la puntualizzazione che la permanenza del reato di cui al comma 3 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 richiede che la gestione della discarica debba avere una “componente” operativa oppure, nel caso in cui la condotta abbia un connotato meramente omissivo, debba essere tenuta in violazione di uno specifico dovere giuridico.

Infatti, la Corte, esaminando l’ordinanza del Riesame, ha osservato che “Ben diversa, invece – e, all’evidenza, alternativa – è la prospettiva di sussistenza del fumus legata ad un’eventuale gestione post-operativa della discarica, che pure nell’ordinanza viene indiscriminatamente adombrata con il richiamo alla più recente giurisprudenza di legittimità sul punto formatasi”.

Al riguardo, è stato infatti richiamato (e condiviso) l’orientamento[4] secondo cui l’attività di gestione abusiva di una discarica comprende anche la fase post-operativa e  perciò la cessazione della permanenza del reato si ha: 1) con il venir meno della situazione di antigiuridicità, per rilascio dell’autorizzazione amministrativa; 2) con la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell’area; 3) con il sequestro, che sottrae al gestore la disponibilità dell’area; 4) con la pronuncia della sentenza di primo grado.

La Corte, in questa occasione, ha tuttavia precisato che “Detta peculiare responsabilità, tuttavia, riguarda il soggetto gestore, tenuto al completamento delle procedure di chiusura disciplinate dalla legge: in particolare, per l’art. 2, lett. o), del citato d.lgs. n. 36 del 2003, il “gestore” è «il soggetto responsabile di una qualsiasi delle fasi di gestione di una discarica, che vanno dalla realizzazione e gestione della discarica fino al termine della gestione post-operativa compresa; tale soggetto può variare dalla fase di preparazione a quella di gestione successiva alla chiusura della discarica». Con riguardo a quest’ultima, per le discariche autorizzate l’art. 8, lett. h), d.lgs. 36/2003 richiama «il piano di gestione post-operativa della discarica, redatto secondo i criteri stabiliti dall’allegato 2, nel quale sono definiti i programmi di sorveglianza e controllo successivi alla chiusura», ma è indubbio che tali obblighi sussistano anche nel caso di discarica non autorizzata”.

La Cassazione ha pertanto annullato con rinvio l’ordinanza che aveva ipotizzato il fumus di responsabilità in capo all’amministratore della società proprietaria del sito sul rilievo che non poteva escludersi la concreta attribuibilità del reato al medesimo, senza però approfondire le ragioni per cui quel soggetto potesse essere ritenuto “gestore” della fase post-operativa della discarica.

  1. L’orientamento in tema di permanenza del reato di discarica abusiva suscita perplessità.

L’orientamento in tema di permanenza del reato di discarica abusiva di cui si è dato conto non ci convince[5] in quanto equipara le discariche autorizzate a quelle abusive alle quali ritiene applicabile il D.Lgs. n. 36/2003.

In sintesi, queste sono le nostre principali obiezioni.

In primo luogo, anche in epoca precedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 36/2003, la giurisprudenza di legittimità aveva elaborato una nozione «naturalistica» della discarica idonea ad integrare il fatto tipico del reato. Infatti, si è sostenuto che per discarica deve intendersi il luogo dove stabilmente e permanentemente si svolge il processo di smaltimento dei rifiuti[6] e che sono elementi sintomatici della creazione di una discarica il ripetuto e sistematico scarico di rifiuti, la trasformazione dell’area a centro di raccolta di rifiuti a causa della consistente quantità di materiali depositati e della definitività del loro abbandono[7], il degrado (anche solo tendenziale) dell’area con il conseguente impatto ambientale e il rischio di inquinamento derivante dalla presenza dei rifiuti.

È peraltro interessante l’affermazione[8] secondo cui, posto che, per la configurabilità del reato di realizzazione di discarica abusiva, la necessità di opere finalizzate al suo funzionamento restringe irragionevolmente l’ambito di applicabilità della disposizione, realizzare una discarica può ben significare allestire o anche destinare semplicemente un determinato sito a tale scopo, con la conseguenza che l’eventuale esecuzione di opere può confermare la destinazione dell’area a discarica, ma non costituisce una condizione assolutamente necessaria. Il concetto è stato ripreso anche in altre decisioni [9] in cui si è ribadito che, per configurare il reato, è sufficiente il ripetuto accumulo di rifiuti in un’area, trasformata di fatto in deposito, ed è invece irrilevante la circostanza che siano del tutto mancate attività di trasformazione, recupero e riciclo, tipiche di una discarica autorizzata.

Due osservazioni vanno quindi fatte:

–  dal 1982 al 2003 il reato di discarica abusiva è stato sempre punito senza che si avvertisse la mancanza di una normativa specifica in materia da cui ricavare la definizione legale di discarica e quant’altro necessario per disciplinare il fenomeno;

– se talora è stato sostenuto che le regole attinenti alle discariche autorizzate non valgono per quelle abusive, occorrerebbe spiegare chiaramente le ragioni dell’una e dell’altra opzione[10].

In secondo luogo, la tesi dominante nella giurisprudenza della Suprema Corte non collima con la decisione delle Sezioni Unite n. 12753 del 5 ottobre 1994, che ha dettato i seguenti principi: la gestione di discarica abusiva presuppone l’apprestamento di un’area per raccogliervi i rifiuti e consiste nell’attivazione di un’organizzazione, articolata o rudimentale non importa, di persone, cose e/o macchine diretta al funzionamento della discarica; il reato è permanente per tutto il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva; trattasi di reato che può realizzarsi solo in forma commissiva e perciò esso non comprende anche il mero mantenimento di una discarica o di uno stoccaggio da altri realizzati in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza[11].

Le conclusioni delle Sezioni Unite, anche se espresse in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 36/2003, ci sembrano tuttora più che valide perché poggiano su una solidissima base e cioè che la condotta evocata dalla legge è esclusivamente attiva e che di conseguenza non è possibile, per il rispetto del principio di tassatività vigente nel settore penale, far rientrare nella fattispecie contravvenzionale anche la condotta omissiva costituita dalla mancata rimozione dei rifiuti.

Infine, il diretto richiamo del D.Lgs. n. 36/2003 per disciplinare il fenomeno delle discariche abusive è ostacolato dal fatto che il citato decreto ha recepito la direttiva n. 1999/31/CE rivolta esclusivamente alle discariche autorizzate, come risulta dalle premesse della direttiva da cui si evince che, per evitare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti, le discariche devono poter essere controllate e devono essere conformi a determinati requisiti atti a tutelare l’ambiente. Peraltro, la disciplina in questione è stata estesa anche alle discariche preesistenti già munite di autorizzazione al momento del recepimento della direttiva o (comunque) già in funzione, che possono proseguire la loro attività purchè si adattino alla direttiva in base ad un piano di adeguamento dell’area. Come si vede, la direttiva non fa alcun riferimento all’esistenza delle discariche illegali e quindi non detta per essere alcuna specifica regolamentazione, anche di carattere transitorio, sicché ci pare del tutto improponibile chiamare in causa il D.Lgs. n. 36/2003 per integrare il precetto penale dell’art. 256, comma 3, T.U.A.

Eppure, circa due decenni dopo la menzionata sentenza delle Sezioni Unite, la Cassazione è tornata a discutere del momento consumativo del reato di discarica abusiva affermando che la gestione post-operativa di una discarica costituisce parte del ciclo vitale della discarica stessa ed è oggetto della disciplina autorizzatoria, con la conseguenza che la violazione di queste regole integra gli estremi del reato di che trattasi[12]. In particolare, è stato sostenuto che la condotta tipica del reato coincide con la predisposizione e con la gestione illecita dei rifiuti, a partire dal momento in cui il deposito ed i conferimenti integrano gli estremi della realizzazione della discarica, per proseguire per tutto il tempo in cui il deposito e l’accumulo di rifiuti conservano il carattere di realtà contrastante con l’ordinamento.

Il nostro esame si concentrerà tra poco proprio su queste ultime affermazioni, non senza aver prima ricordato, per completezza, che dopo la sentenza delle Sezioni Unite, la Suprema Corte[13] aveva sostenuto come l’art. 6, lett. d), D.Lgs. n. 22/1997 espressamente includesse nella gestione dei rifiuti “il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura” cosicché la permanenza del reato di discarica abusiva avrebbe dovuto ritenersi esaurita solo dopo dieci anni dalla cessazione dei conferimenti, ovvero con l’ottenimento dell’autorizzazione o la rimozione dei rifiuti. Tuttavia, in una di poco successiva pronuncia[14], tale posizione veniva rivista affermando che la gestione post-operativa di una discarica non autorizzata non rappresenta una protrazione del reato permanente di esercizio della discarica punito solo in relazione al funzionamento effettivo di essa, mentre con l’inizio della gestione post-operativa il sito non è più destinato a luogo di scarico e deposito di rifiuti, seppure perdurano nel tempo gli effetti del precedente illecito accumulo.

  1. Gestione post-operativa della discarica e permanenza del reato.

Riprendendo ora il concetto che la gestione abusiva della discarica comprenda anche la fase post-operativa, con la conseguenza che la permanenza del reato cessa, tra l’altro, con il rilascio dell’autorizzazione amministrativa o con la rimozione dei rifiuti/bonifica dell’area, osserviamo che, anche a voler seriamente pensare che un soggetto, autore del grave reato di realizzazione/gestione di una discarica abusiva, decida, ad un certo momento, di autodenunciarsi chiedendo alla P.A. competente il  rilascio dell’autorizzazione (che, come è noto, non è in sanatoria) per proseguire nella gestione della discarica, rispettando tutte le disposizioni evocate dalla giurisprudenza qui in commento, è altamente probabile che il titolo abilitativo non possa essere concesso perché, ben difficilmente, la discarica abusiva (normalmente realizzata senza tanto rispetto per l’ambiente!) potrà risultare conforme alle severe regole che presiedono alle fasi della progettazione, preparazione e strutturazione del sito e degli impianti.

Pertanto, se questo fosse lo sbocco dell’istanza volta a far cessare lo stato antigiuridico, ne consegue che la situazione di fatto resterebbe inalterata, nel senso che comunque i rifiuti risulterebbero ancora allocati nella discarica.

La questione, dunque, è sempre la stessa: come si può far rientrare nel paradigma della contravvenzione di cui al comma 3 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 anche la mancata rimozione dei rifiuti e in generale la mancata esecuzione di tutte le operazioni di bonifica della discarica?

Non basta sostenere che la gestione post-operativa della discarica costituisce parte del ciclo vitale della discarica stessa ed è oggetto della disciplina autorizzatoria perché è proprio su quest’ultimo passaggio che l’impostazione seguita dalla Suprema Corte non può reggere: infatti, gli obblighi, cui è tenuto il gestore nella fase post-operativa, devono essere necessariamente formalizzati nell’autorizzazione, sotto forma di specifiche prescrizioni, perché il D.Lgs. n. 36/2003 non solo non contiene alcuna disposizione afferente alle operazioni di chiusura del sito direttamente applicabile nei confronti di chi dovesse risultare “gestore”, ma non prevede neppure alcuna norma che, in relazione alle discariche abusive, stabilisca precisi obblighi positivi finalizzati alla bonifica del sito.

Se dunque l’autorizzazione è lo strumento giuridico attraverso il quale gli obblighi di attivarsi sono cogenti e quindi punibili, ne deriva da un lato che la violazione delle regole concernenti la fase post-operativa, proprio in quanto formalizzate nelle prescrizioni, non può concretizzare il reato di cui al comma 3 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, che punisce la gestione della discarica «senza autorizzazione», ma quello di cui al comma 4 dello stesso articolo, che punisce l’inosservanza di qualsivoglia modalità esecutiva relativa alla gestione dell’impianto. Dall’altro lato, ne deriva che neppure questa seconda fattispecie criminosa potrà essere invocata nell’ipotesi di discarica abusiva in quanto questa è priva di autorizzazione e quindi non vi sono prescrizioni da osservare.

  1. Dubbi su come individuare il gestore della fase post-operativa di una discarica abusiva.

La sentenza in rassegna ha messo l’accento sul fatto che la responsabilità per il reato di gestione abusiva di una discarica riguarda il gestore, tenuto al completamento delle procedure di chiusura disciplinate dalla legge, e ha dunque criticato l’ordinanza del Tribunale del riesame che non aveva approfondito le ragioni per cui  l’amministratore della società proprietaria del sito, soggetto peraltro del tutto diverso da chi aveva a suo tempo creato la discarica, potesse essere ritenuto gestore della fase post-operativa della discarica stessa.

Il corto circuito è evidente: infatti, non è dato sapere come debba essere individuato il “gestore” di cui all’art. 2, lett. o), D.Lgs. n. 36/2003 in un caso come quello di cui si discute.

Se si trattasse di una discarica autorizzata, il soggetto, cui è conferito l’incarico di condurre la fase post-operativa, è nominato dal titolare dell’impianto, ma ciò ovviamente non avviene se la discarica è abusiva. Non si può, inoltre, neppure ricorrere al principio di “effettività” delle funzioni, nel senso che, nell’ipotesi di discarica illegale, nessuna “attività” di gestione post-operativa è realizzata sicché non si vede come si possano ricavare dal comportamento meramente omissivo gli indici necessari per attribuire ad un determinato soggetto la qualifica di gestore “di fatto” della fase post-operativa al fine di attribuirgli le conseguenti responsabilità penali.

Ciò senza trascurare che, se anche venisse individuato questo specifico soggetto, mancherebbe comunque la fonte legale dell’obbligo di attivarsi, ossia provvedere alla messa in sicurezza e/o alla bonifica del sito, giacché manca l’autorizzazione che formalizza gli obblighi in questione.

In conclusione, viene da pensare che la Cassazione, insistendo sulla necessità di ascrivere la responsabilità in capo al soggetto designato come “gestore” ai sensi dell’art. 2, lett. o), D.Lgs. n. 36/2003, ha forse (inconsapevolmente) posto le basi per un ripensamento complessivo dell’orientamento che mette sullo stesso piano due situazioni del tutto differenti, discariche autorizzate ed abusive.

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RGA Online – nota Paone dic. 2023 (rev.)

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Cass. III, 37123_2023 (nota Paone dic. 2023)

NOTE:

[1] Nell’imputazione formulata dal pubblico ministero e recepita dal G.i.p. era stato configurato il reato di raccolta, stoccaggio e deposito incontrollato di rifiuti speciali pericolosi e non.

[2] Corte Cass. pen., Sez. III, 15 dicembre 2016 n. 12159.

[3] In tema, v., da ultimo, S. Rocco, Reati ambientali ed ecodelitti: quando la responsabilità deriva da “pensieri, parole, opere” e ‒ soprattutto ‒ “omissioni”, in questa Rivista, Numero 47 – novembre 2023, a commento di Corte Cass. pen., Sez. III, 3 luglio 2023, n. 39195.

[4]  Corte Cass. pen., Sez. III, 18 marzo 2013, n. 32797; Corte Cass. pen., Sez. III, 9 ottobre 2014, n. 45931; Corte Cass. pen., Sez.  III, 5 marzo 2015, n. 12970; Corte Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 2016, n. 39781; Corte Cass. pen., Sez. III, 14 giugno 2016, n. 54523; Corte Cass. pen., Sez. III, 19 gennaio 2021, n. 9954.  Da ultimo, Corte Cass. pen., Sez. III, 17 maggio 2023, n. 35853.

[5] Ci si permette di rinviare a V. Paone, Discarica abusiva: rilevanza della fase post-operativa e permanenza del reato, in Ambiente, 2014, p. 267; Id., Discariche abusive e permanenza del reato: atto secondo (nota a Cass. 12970/2015), Id., 2016, p. 37; Id., La cessazione della permanenza nel reato di discarica, in questa Rivista, 2015, p. 400.

[6] Corte Cass. pen., 14 maggio 1986.

[7] Molto opportunamente Corte Cass. pen., 18 settembre 2008, Foro it., 2009, II, 245, ha stabilito che il reato è configurabile in caso di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell’area su cui insistono.

[8] Corte Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2017, n. 18399.

[9] V. ad es. la già citata Corte Cass. pen. Sez. III, n. 35853/2023.

[10] Anche la sentenza in commento chiude un paragrafo, in cui si menzionano varie disposizioni tratte dal D.Lgs. n. 36/2003, asserendo “…è indubbio che tali obblighi sussistano anche nel caso di discarica non autorizzata”, ma tale conclusione appare del tutto apodittica.

[11] È di fondamentale rilevanza un passaggio della motivazione in cui si precisa che: “Il fatto che il reato di discarica sia permanente non significa che esso comprenda anche il mero mantenere nell’area i rifiuti scaricativi o fattivi scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata chiusa o soltanto disattivata… All’attuale detentore non è fatto alcun obbligo di controagire e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella sua disponibilità”.

In argomento, v. anche Corte Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 2014, n. 7941, che ha chiarito che “…in tanto nel reato permanente (e nel reato istantaneo a condotta perdurante) si determina uno spostamento in avanti della consumazione rispetto al momento di iniziata realizzazione del reato, in quanto, e fino a quando, la condotta dell’agente “sostenga” concretamente la causazione dell’evento…Non può annettersi invece rilevo, nella situazione normativa data, alla circostanza della mancata o incompleta bonifica dei siti. Attribuirne la penale responsabilità all’imputato a titolo di protrazione della condotta costitutiva del disastro postulerebbe che si potesse ricostruire la fattispecie in termini bifasici: una prima commissiva e una seconda omissiva, violativa dell’obbligo di far cessare la situazione antigiuridica prodotta. Ma la fattispecie incriminatrice non reca traccia di tale obbligo, né esso, o altro analogo, può desumersi dall’ordinamento giuridico…”.

[12] Corte Cass. pen., Sez. III, n. 32797/2013, cit.

[13] Corte Cass. pen., Sez. III, 15 gennaio 2004, n. 2662.

[14] Corte Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2004, n. 48402.