di Elena Serra
T.A.R. VENETO, Sez. II – 4 febbraio 2020, n. 124 – Pres. Pasi, Est. Amorizzo – C.C S.p.A. (avv.ti Cavallo e Pasquini) c. Regione Veneto (avv.ti Peagno e Zanon) e altri.
La cessazione della qualifica di rifiuto, con conseguente sottrazione del materiale alla disciplina di tutela per esso prevista, costituisce operazione consentita solo se il materiale risultante dall’operazione di recupero, prima ancora di essere utilizzato e commercializzato come prodotto, rispetti tutti i requisiti previsti dall’art. 184-ter D.Lgs. 152/06, tra i quali quello della sua idoneità a non arrecare pregiudizi all’ambiente.
Con la sentenza in commento, il TAR Veneto ha esaminato la disciplina della “cessazione della qualifica di rifiuto” recata dall’art. 184-ter D.lgs. 152/2006 (in seguito anche Codice dell’Ambiente o Codice).
Il contenzioso aveva ad oggetto il procedimento di riesame – ex art. 29-octies D.lgs. 152/2006 – dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata al ricorrente per il recupero di varie tipologie di rifiuti. In particolare, la Regione Veneto aveva ritenuto necessario adeguare le prescrizioni dell’AIA alla disciplina dell’art. 184-ter D.lgs. 152/2006, introdotto successivamente al rilascio dell’autorizzazione.
La disposizione da ultimo citata, rubricata “cessazione della qualifica del rifiuto”, recepisce il concetto di end of waste di matrice comunitaria. La medesima è stata inserita nel Codice dell’Ambiente dal D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 in attuazione della Direttiva 2008/98/CE (in materia di rifiuti) e ha sostituito la disciplina previgente contenuta nell’art. 181-bis del Codice (ora abrogato).
La norma in esame prevede le condizioni minime da rispettare affinché una sostanza qualificabile come rifiuto – dopo essere stata sottoposta ad un processo di recupero – possa essere reimmessa nel ciclo produttivo e demanda l’individuazione di requisiti specifici ad uno o più decreti ministeriali. Le condizioni minime sono, segnatamente, le seguenti: a) la sostanza (o l’oggetto) dev’essere destinata all’utilizzo per scopi specifici; b) deve esistere un mercato o una domanda per tale sostanza; c) la medesima deve soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettare la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) il suo utilizzo non deve produrre impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana (cfr. art. 184-ter, comma 1, Codice dell’Ambiente).
Il requisito da ultimo citato differenzia la disciplina in commento da quella previgente poiché l’art. 181-bis del Codice dell’Ambiente non lo contemplava. Come sottolineato dal TAR, benché il medesimo sia espressione di un principio informatore della disciplina dei rifiuti e non possa dirsi di per sé innovativo, la sua autonoma previsione chiarisce che, affinché un rifiuto possa perdere tale qualifica, occorre che sia accertata l’assenza di effetti negativi sull’ambiente o sulla salute prima dell’utilizzo o della commercializzazione.
Chiarito quanto sopra, nel caso di specie le prescrizioni dell’AIA (conformi all’abrogato art. 181-bis del Codice) consentivano che alcuni rifiuti potessero essere riqualificati come prodotti senza che fosse effettuata una verifica sull’idoneità a cedere sostanze nocive nelle matrici ambientali, in difformità con quanto introdotto dal nuovo art. 184-ter, comma 1, lett. d), del Codice dell’Ambiente.
Il Collegio ha sottolineato che il principio di prevenzione consente la modifica dell’AIA, indipendentemente dal tempo trascorso dal suo rilascio, laddove ciò sia necessario per evitare una situazione di pericolo di inquinamento o per garantire una maggiore tutela ambientale. D’altra parte, l’art. 29-octies del Codice prevede un generale potere di riesaminare periodicamente l’AIA, al fine di confermarne o aggiornarne le prescrizioni.
Né poteva ritenersi che la Regione esercitasse il potere di valutazione “caso per caso” delle condizioni di cessazione della qualifica del rifiuto che – come ha riconosciuto il Consiglio Stato con la pronuncia della Sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1229 – rientra nella competenza esclusiva dello Stato.
Secondo il Collegio, l’autorità competente al rilascio dell’AIA ha sempre il potere di imporre le prescrizioni necessarie a “garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso” (cfr. art. 29-sexies, comma 4, D.lgs. 152/2006) e detto potere non può che ricomprendere anche quello di incidere in via conformativa sulle attività di recupero già autorizzate. Diversamente, si giungerebbe al paradosso di mantenere inalterata un’attività che, in forza di norme sopravvenute, deve considerarsi illegittima e potenzialmente rischiosa per l’ambiente.
Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.
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