Cessione a titolo oneroso: non viene meno la qualifica di rifiuto

15 Giu 2020 | giurisprudenza, penale

CASSAZIONE PENALE, Sez. III 21 gennaio 2020 (dep. 6 marzo 2020) n. 9052, Pres. Liberati – Est. Mengoni – ric. Groza

Di Margherita Benedini  

La natura di rifiuto, acquisita in forza di criteri positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis del D.Lgs. n. 152/2006), non viene perduta in conseguenza della mera esistenza di un accordo di cessione a titolo oneroso del materiale (la commerciabilità è qualità propria anche dei rifiuti) essendo al contrario necessario verificare a monte il rapporto tra il materiale medesimo ed il suo produttore.

Il Tribunale di Catanzaro, ravvisando la penale responsabilità dell’imputato per il reato di trasporto di rifiuti non pericolosi in mancanza della prescritta autorizzazione, di cui all’art. 256, comma I, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, lo condannava alla pena di Euro 4.000 di ammenda.

Avverso tale decisione l’imputato presentava ricorso innanzi alla Corte di Cassazione rilevando, in particolare, l’inosservanza della legge penale da parte del Giudice di merito il quale, applicando erroneamente l’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, avrebbe omesso di considerare, nel caso di specie, la rilevanza della norma di cui all’art. 184-ter del medesimo decreto, recante i criteri per la cessazione della qualità di rifiuto.

La sentenza ricorsa avrebbe tralasciato la circostanza che il materiale trasportato dall’imputato avesse intrinsecamente valore economico perché, trattandosi di materiale ferroso, costituiva materia prima per l’attività dei cd. ferraioli. Le modifiche apportate nel 2010 al Testo Unico dell’Ambiente avrebbero infatti chiarito che, per poter sfuggire alla qualifica di rifiuto, sia sufficiente che un prodotto abbia un mercato anche solo potenziale.

Osservava, infine, il ricorrente che, in ogni caso, l’imputato non avrebbe avuto alcuna intenzione di disfarsi del materiale, ragion per cui era inapplicabile al caso di specie la definizione di rifiuto, chiarita da ultimo dall’art. 3, punto 1, della Direttiva 2008/98/CE[i].

La tesi difensiva del ricorrente si è imbattuta però negli stessi equivoci già affrontati in altre pronunce sullo stesso tema da parte della Suprema Corte, vale a dire l’erroneità del requisito della “commerciabilità” di un materiale quale criterio distintivo tra rifiuto e sottoprodotto o comunque sostanza od oggetto che cessi di essere rifiuto e, soprattutto, l’individuazione corretta della destinazione normativamente rilevante di un materiale.

Quanto al primo punto, al di là del fatto che, nel caso di specie, il giudice di merito avesse appurato pacificamente la natura intrinseca di rifiuto del materiale in questione[ii], la Corte di Cassazione ha precisato che il valore economico non è requisito sufficiente perché un prodotto che abbia assunto validamente la qualifica di rifiuto possa cessare di possederla. Tale natura, infatti, viene acquisita sulla base di elementi positivi (è rifiuto l’oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (è necessaria l’assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006) ma non viene perduta per il solo fatto che il materiale sia oggetto di un accordo di compravendita a titolo oneroso o comunque abbia un potenziale mercato di commercializzazione.

L’assunto secondo il quale un oggetto cesserebbe di essere rifiuto per il solo fatto di poter essere commerciato dal detentore non ha alcun fondamento e, anzi, trova smentita nella stessa lettera dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, che sanziona penalmente anche il “commercio (…) di rifiuti”, sia nella stessa definizione normativa di “rifiuto” che bada alla volontà di disfarsene del detentore originario e non (tanto) agli intenti di colui il quale ne venga successivamente in possesso.

Viene in rilievo, a questo punto, la seconda questione trattata dalla sentenza che concerne la prospettiva corretta nella quale porsi per attribuire ad un oggetto la natura di rifiuto o per accertare se tale oggetto abbia perduto tale natura.

La Cassazione ha ormai chiarito in diverse pronunce[iii] che il “detentore” al quale si riferisce la definizione di rifiuto è il produttore originario del materiale stesso: la volontà di disfarsene, ai fini della qualificazione quale rifiuto, andrebbe dunque appurata soltanto con riferimento a tale soggetto, a nulla rilevando che un successivo detentore del medesimo materiale gli attribuisca una diversa destinazione commerciale.

In altri termini, l’attività di “recupero” alla quale fa riferimento il primo comma dell’art. 184-ter D.Lgs. n. 152/2006 perché un materiale cessi di essere rifiuto presuppone un quid pluris rispetto alla mera ostensione dell’esistenza di un accordo per commercializzarlo. A ben vedere, infatti, l’esistenza di un mercato è solo uno dei requisiti enunciati da tale norma che richiede altresì che il prodotto sia destinato ad uno scopo specifico, che soddisfi i requisiti tecnici per tale scopo e che nemmeno sia una sostanza dannosa per l’ambiente e/o per la salute.

Osserva la sentenza in questione che, qualora si propendesse per una diversa conclusione, l’effetto sarebbe di favorire condotte artatamente finalizzate ad aggirare le norme in vigore, nel senso che si favorirebbe la stipulazione di accordi fittizi, confezionati al solo fine di mutare la natura giuridica di un prodotto sì dal sottrarlo alla normativa vigente in tema di rifiuti.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

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[i] Recita l’art. 3, punto 1, della Direttiva 2008/98/CE: “Ai fini della presente direttiva si intende per: 1) «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”.

[ii] Si trattava, infatti, di un quantitativo assai consistente e deteriorato di scarti di autovetture, rispetto al quale non era stata fornita dall’imputato alcuna prova di un’eventuale attività di commercio.

[iii] In tal senso di veda: Corte Cass. pen., Sez. III, 15 aprile 2015, n. 15447 citata anche nel corpo della motivazione in esame.

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