Acque di dilavamento “contaminate” come acque reflue industriali: un altro caso di “comoda” equiparazione

01 Mar 2024 | giurisprudenza, penale

di Roberta Mantegazza

Corte di Cassazione, Sez. III – 14 dicembre 2023 (dep. 9 gennaio 2024) n. 688 – Pres. Ramacci, Est. Scarcella, ric. P.

Nel caso in cui le acque meteoriche di dilavamento vengano in contatto con sostanze inquinanti o pericolose, divenendo il mezzo attraverso cui le altre sostanze vengono veicolate verso un determinato corpo ricettatore, non possono più essere considerate come semplici acque meteoriche di dilavamento.

1. Il caso oggetto della decisione

La Corte di Cassazione è tornata (pur incidentalmente) sul rapporto tra “acque meteoriche di dilavamento” e “acque reflue industriali”, affrontando un tema già oggetto di diverse recenti pronunce e confermando un orientamento da più parti criticato[1], ma – è il caso di dirlo – ormai ampiamente consolidato.

Il caso riguardava lo scarico – in assenza di autorizzazione e in canalizzazioni destinate alle acque meteoriche con recapito finale in pubblica fognatura – di acque reflue industriali non depurate prodotte dal lavaggio e dalla gestione degli automezzi in uso all’impianto di una società di trasporti.

L’amministratore di tale società era stato infatti condannato ai sensi dell’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2016 “per aver effettuato (…) sversamento di acque reflue industriali non depurate prodotte dal lavaggio dei veicoli in uso alla società in canalizzazioni destinate alle acque piovane e confluenti nella pubblica fognatura”.

Più nello specifico, durante un sopralluogo presso la ditta, gli Operanti avevano – in estrema sintesi – accertato da un lato la presenza di un piccolo impianto di depurazione (costituito da tre vasche poste in serie) asservito allo smaltimento dei reflui originati dalle operazioni di lavaggio degli automezzi con i quali la ditta effettuava il trasporto di rifiuti pericolosi e, dall’altro, l’assenza di un provvedimento di Autorizzazione che risultasse correlato a tali attività.

Sempre nel corso del sopralluogo veniva, inoltre, verificata la sostanziale sovrapponibilità dei tracciati delle canalizzazioni dell’impianto di depurazione con quelle, autorizzate dalla pratica edilizia, per l’apertura della condotta di allaccio alle acque bianche; la segnalazione nasceva quindi proprio dalla collocazione – non autorizzata né comunicata agli Enti – di un impianto di depurazione attivo e funzionante[2] su opere di canalizzazione tese alla sola regimazione delle acque meteoriche, che di fatto invece sversava abusivamente il refluo depurato in rete fognaria pubblica di acqua bianca.

La difesa, da parte sua, aveva cercato di mettere in luce una serie di elementi (per lo più di fatto e da qui la pronuncia di inammissibilità) per escludere che si trattasse di acque da processo industriale ed affermare invece che le vasche di raccolta contenessero solo acque meteoriche: secondo il ricorrente, il giudice avrebbe in sostanza confuso il sistema di depurazione proprio dell’attività svolta dalla società, con quello destinato al – presunto – lavaggio degli automezzi sul piazzale di scolo; attività di lavaggio di cui peraltro non vi era alcuna effettiva evidenza concreta e che non comportava dunque alcuna autorizzazione allo scarico delle relative acque di scarto.

La prospettazione difensiva è stata invece superata in sentenza dalla considerazione che: i) era stata verificata la presenza nella vasca di raccolta di acqua compatibile con lavaggio dei mezzi, di cui residuavano infatti componenti inquinanti; ii) le acque reflue prodotte dall’azienda non potevano pertanto essere assimilate, stante la loro derivazione, a quelle “domestiche” alla stregua dei parametri fissati dalla normativa regionale siciliana[3]; iii) in ogni caso, le acque meteoriche, pur presenti nella vasca di raccolta, non potevano essere trattate come semplici acque meteoriche di dilavamento poiché le stesse, essendo venute in contatto con sostanze inquinanti o pericolose, erano divenute il mezzo attraverso cui le altre sostanze erano state veicolate verso il corpo recettore.

Il giudice di merito, in altri termini, seguendo un procedimento logico-giuridico ineccepibile, aveva – secondo la Corte – accertato l’esistenza di un sistema stabile di collegamento tra il pozzetto di raccolta e la rete fognaria nonché la relativa assenza di autorizzazione allo scarico; situazione di per sé rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 137, comma 1, T.U.A.

2. Le ragioni dell’ormai consolidata “assimilazione” delle acque meteoriche di dilavamento “inquinate” con i reflui industriali

Prima di entrare nel merito del caso concreto per evidenziare alcuni dubbi sulla ricostruzione del fatto e – forse – qualche critica metodologica, è il caso di richiamare, in via estremamente sintetica, i passaggi giurisprudenziali e “normativi” che hanno portato al consolidamento della tesi secondo cui, appunto, le acque meteoriche di dilavamento devono sempre essere assimilate ai reflui industriali quando “vengano in contatto con sostanze inquinanti o pericolose, divenendo il mezzo attraverso cui le altre sostanze sono veicolate verso un determinato corpo recettore[4].

Il punto da cui partire è la pacifica assenza, nel testo normativo vigente, di una nozione giuridica di “acque meteoriche di dilavamento”: queste, infatti, vengono definite nel T.U.A. solo “per difetto” rispetto alla nozione di “acque reflue industriali” contenuta nell’art. 74 comma 1 lett. h) del D.Lgs. n. 152/2006, che le definisce come “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”.

Mentre, però, accanto a tale definizione ne esiste un’altra per chiarire quali siano le acque reflue domestiche (ossia, “le acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche”[5]), manca invece per le acque meteoriche di dilavamento una classificazione espressa.

In tale contesto si inserisce, poi, un passaggio normativo che costituisce quello che la giurisprudenza ha considerato (al netto del “gioco di parole”) il grande spartiacque nell’interpretazione della gestione delle acque meteoriche di dilavamento: si tratta del D.Lgs. 16 gennaio 2008 n. 4 (“Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale”).

È dato noto e richiamato in tutte le sentenze che trattano la materia, il fatto che con tale intervento legislativo sia stata modificata la definizione di “acque reflue industriali” nella misura in cui – prima di tale modifica normativa – si escludevano dal novero di queste ultime le acque meteoriche di dilavamento intese come “anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento”.

In quell’assetto, dunque, si distinguevano, da un lato, le acque meteoriche “pulite” e quelle contaminate in via potremmo dire “accidentale o causale” da fattori estranei all’attività produttiva e, dall’altro, le acque meteoriche “inquinate” da sostanze e materiali correlati all’attività produttiva: solo queste ultime venivano assimilate alle acque scaricate dal ciclo produttivo e divenivano, appunto per “assimilazione”[6], acque reflue industriali.

Tale specificazione “qualitativa” delle acque meteoriche di dilavamento in contrapposizione con i reflui industriali manca, invece, nell’attuale formulazione dell’art. 74 comma 1 lett. h) T.U.A. successiva alla modifica del 2008: se tale dato di “assenza” è acquisito, meno pacifiche sono le conseguenze che se ne sono state tratte in via interpretativa.

L’indirizzo maggioritario (ed anzi pressoché univoco) della Corte di Cassazione ritiene che il superamento della distinzione “qualitativa” delle acque meteoriche di dilavamento, cioè a dire inquinate da fonti interne o esterne al ciclo produttivo, implichi l’equiparazione della rilevanza della loro “contaminazione” a prescindere dalla qualità e origine della stessa, secondo quindi un’importazione più rigorosa che estende a tutte le acque meteoriche di dilavamento “inquinate” la normativa delle acque da processo (prima riservata, per espressa – pur “indiretta” – previsione normativa alle sole acque meteoriche di dilavamento caratterizzate dalla presenza di sostanze riconducibili al ciclo di produzione).

Il principale arresto della Suprema Corte in tal senso è la sentenza della terza sezione penale n. 2832 del 2015, che aveva chiarito che “l’eliminazione dell’inciso, frutto di una precisa scelta del legislatore, sta ad indicare proprio l’intenzione di escludere qualunque assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento: l’eliminazione dell’inciso, insomma, non ha affatto ampliato il concetto di “acque meteoriche di dilavamento”, ma, al contrario, lo ha ristretto in un’ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acque e quelle reflue industriali o quelle reflue domestiche. Oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge[7].

Secondo l’opposta (ed isolata) interpretazione[8], invece, l’esclusione delle acque meteoriche di dilavamento – pur contaminate – dal novero dei reflui industriali deriverebbe dall’abrogazione del parametro dell’assimilabilità e dalla corretta interpretazione del combinato disposto degli art. 74 e 113 T.U.A.

In particolare, a seguito della modifica dell’art. 74 comma 1 lett. h) T.U.A non è più possibile accomunare le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali, in quanto la nuova formulazione esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, sia soprattutto l’inciso “intendendosi per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”, “di talché sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento)[9].

Il dato letterale del nuovo testo della norma sarebbe, secondo questo isolato arresto, confermato dal fatto che l’art. 113 T.U.A., rubricato appunto «Acque meteoriche di dilavamento e acque di prima pioggia», prevede che siano le Regioni, «ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali», ad emanare una disciplina delle acque meteoriche che dilavano le superfici e si riversano in differenti corpi recettori, con la coerente conseguenza di assoggettare le acque meteoriche alla disciplina regionale e non a quella statale, del tutto distinta ed autonoma[10].

In sostanza, dunque, il T.U.A. demanderebbe integralmente (o quasi) alla normativa regionale la disciplina delle acque meteoriche che dilavano superfici e si riversano in corpi recettori, prevedendo anche un regime sanzionatorio autonomo rispetto a quello fissato per i reflui industriali, contenuto negli art. 133 comma 9 T.U.A. in caso di violazione del comma 1 lett. b) dell’art. 113 (ossia la violazione delle prescrizioni o autorizzazioni dettate in sede regionale), e art. 137 comma 9 in caso di violazione della disciplina dettata dalle Regioni in violazione dell’art. 113 coma 3 (che attribuisce alle Regioni la disciplina dei “casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose e di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici”).

Sempre secondo questa impostazione, quindi, l’autonomia classificatoria delle acque meteoriche da dilavamento rispetto a quelle da ciclo produttivo sarebbe evidente anche dalla disciplina sanzionatoria penale, nella misura in cui il comma 9 dell’art. 137 T.U.A., nel richiamare – ai soli fini della pena – il comma 1 dello stesso articolo, stabilisce che “chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell’art. 113 comma 3, è punito con le sanzioni di cui all’art. 137 comma 1”, che come noto sanziona penalmente chi effettui scarichi industriali in assenza di autorizzazione.

Da tale rinvio sanzionatorio si ricaverebbero due ordini di considerazioni: i) da un lato, la sanzione richiamando l’art. 113 T.U.A. si riferisce espressamente alle “acque meteoriche” e non invece alle acque “assimilate” ai reflui industriali e, ii) dall’altro, il dato testuale confermerebbe un rinvio al comma 1 dell’art. 137  solo “quoad penam”, escludendo di fatto la possibilità di conferire alle acque meteoriche di dilavamento e di lavaggio delle aree esterne disciplinate dalle Regioni (cfr. appunto art. 113 comma 3 T.U.A.) una qualificazione diversa ed assimilabile a quella delle acque reflue industriali.

3. L’applicazione “critica” nel caso concreto

La pronuncia in commento, come visto più sopra, non offre particolari o innovativi spunti interpretativi rispetto alla materia che stiamo trattando, di fatto aderendo ad un orientamento – come detto – ormai del tutto consolidato, che pare però in più occasioni costituire, più che il frutto di un lineare ed argomentato ragionamento giuridico, una sorta di “commodus discessus” per la conferma di sentenze di condanna che arrivano all’esito di giudizi di merito poco approfonditi sotto il profilo fattuale e, soprattutto, apparentemente poco motivati rispetto alle risultanze concrete.

Tale sembra il caso oggetto della sentenza in commento nel quale sorge più di un dubbio sia sulla ricostruzione del fatto – a tratti oggettivamente non chiarissimo – e delle evidenze probatorie, sia rispetto al loro “incasellamento” nelle categorie giuridiche più sopra ricordate in tema di “inquinamento idrico”.

Nel testo della decisione si rinvengono infatti diversi passaggi poco chiari, che – quanto meno sotto il profilo logico giuridico – pongono seri dubbi sulla coerenza della conclusione di conferma della colpevolezza cui infine giunge la Corte: il ragionamento appare infatti un po’ forzato a fronte di censure difensive che, per quanto poco sviluppate nel testo della sentenza, risultano, anche alla luce di quanto ricostruito nel paragrafo precedente, meritevoli quanto meno di un approfondimento giuridico.

Intanto, dalla ricostruzione offerta dalla Corte sembra che la contestazione nel merito fosse correlata all’indebito utilizzo delle canalizzazioni tese (in teoria) alla sola regimazione delle acque meteoriche uscenti dal piazzale, anche di scarichi di reflui industriali, così dovendosi intendere – si desume dal tenore della sentenza – i reflui derivanti dal lavaggio dei mezzi, che appunto secondo la sentenza avveniva nel medesimo piazzale della ditta dal quale venivano “raccolte” le acque meteoriche.

Un altro elemento di fatto che si ritiene rilevante e che forse è stato poco valorizzato dalla sentenza è, poi, la constatazione, pur inserita tra parentesi, del fatto che sempre nel medesimo piazzale “staziona[ssero] in deposito temporaneo i rifiuti rilevati (tutti adeguamenti coperti e depositati in appositi recipienti o cassoni impermeabili)”, la cui concreta gestione si intuisce potrebbe aver fondato l’altra contestazione, ai sensi dell’art. 256 T.U.A., oggetto del giudizio di primo grado, ma apparentemente non investita dal riscorso per cassazione.

Ciò detto, un primo punto fermo è quindi rappresentato dal fatto che il piazzale di esercizio della ditta fosse potenzialmente interessato, quanto meno, da tre diverse tipologie di “acque”, tutte apparentemente recapitanti nelle medesime canalizzazioni di cui si è detto: quelle meteoriche in senso lato, quelle meteoriche che venute a contatto con i rifiuti stoccati nei container potrebbero averne dilavamento eventuali sostanze inquinati ed infine quelle da processo, così definite dalla Corte quelle derivanti dal lavaggio dei mezzi.

Al di là dell’ovvio perimetro di cognizione della Suprema Corte, si ha l’impressione leggendo la sentenza che in effetti nel giudizio di merito si sia optato per tale ultima scelta – quella del refluo industriale derivante da un attività di processo – proprio per bypassare ogni eventuale difficoltà ermeneutica di classificazione delle acque meteoriche di dilavamento “inquinate”: infatti, sotto il profilo pratico, si ricorda da un lato che l’unico indice di riscontro probatorio circa l’effettiva sussistenza di una attività di lavaggio dei mezzi fosse “la presenza, all’interno dell’impianto, di acque per tipologia, composizione e caratteristiche compatibili con quelle derivanti dal lavaggio dei mezzi destinati al trasporto di rifiuti pericolosi”.

Durante il sopralluogo non erano state invece accertate attività di lavaggio in corso, e nemmeno era stato rinvenuto un impianto di lavaggio attrezzato per la pulizia dei mezzi: secondo il ricorrente invece i verbalizzanti avevano erroneamente dedotto “l’esistenza di un lavaggio per i camion sulla base della presenza di una griglia un po’ più grande rispetto a quelle esistenti sul piazzale”, che veniva – sempre secondo la tesi difensiva – in realtà utilizzata saltuariamente per l’ispezione della parte sottostante dei veicoli.

Tale ricostruzione – unitamente al fatto che pare ragionevole pensare che se le sostanze inquinanti rinvenute nelle vasche erano risultate compatibili con il lavaggio dei mezzi che trasportavano rifiuti pericolosi, potevano, probabilmente, considerarsi altrettanto compatibili con l’azione di dilavamento delle acque meteoriche dei cassoni di rifiuti stoccati sul piazzale – lascia aperte alcune domande.

In particolare, al di là della chiusura “tranchant” della Suprema Corte[11], la corretta individuazione della “provenienza” del refluo inquinato – eventualmente proprio dalle acque meteoriche e di lavaggio del piazzale (che costituisce certamente un’ “area esterna” ai sensi dell’art. 113 comma 3 T.U.A.) – avrebbe forse consentito alla Corte un maggiore approfondimento delle tematiche definitorie più sopra richiamate, invece che pervenire ad una ennesima “comoda” e “risolutiva” equiparazione tra acque meteoriche di dilavamento contaminate e reflui industriali.

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NOTE:

[1] Ex multis, v. C. Melzi d’Eril, Sulla assimilabilità di acque meteoriche e acque reflue industriali, in Lexambiente, 2018, n. 1. P. 9; A. Muratori, Acque meteoriche di dilavamento: i ripensamenti della cassazione e l’ineffabile (in)certezza del diritto (nota a Cass. Pen. n. 2832/2015) in Ambiente&Sviluppo, 2015, pp. 153 ss; A. L. Vergine, L’evanescente certezza del diritto. La “marcia indietro” della Cassazione in tema di acque meteoriche di dilavamento, in questa Rivista, 2015, n. 1, p.p. 62 ss.

[2] Sul punto, il Giudice di merito aveva considerato irrilevante la circostanza che “al momento del controllo effettuato i macchinari non risultassero in funzione e che non vi fosse versamento di reflui all’interno della fognatura, essendo sufficiente, ai fini della configurabilità del reato “anche lo scarico periodico o discontinuo quale deve ragionevolmente ritenersi quello effettuato dal Peretta nel corso dell’attività industriale, risultando irrilevante che l’impianto fosse o meno attivo all’atto del sopralluogo (…)”; la Corte ha ritenuto tale passaggio immune da vizi, confermando la pacifica posizione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui ai fini della sussistenza dello scarico è sufficiente la verifica – correttamente effettuata nel caso di specie dal Giudice di merito – “dell’esistenza di un sistema di stabile collegamento tra il pozzetto di raccolta e la rete fognaria”.

[3] Si rileva, in senso critico, come il riferimento alla normativa regionale siciliana venga operata solo incidentalmente dalla Corte per escludere l’assimilabilità del refluo – stante i parametri rilevati – alle acque domestiche, senza che altrove in tutto il testo della sentenza vi si faccia nuovamente rinvio (e ciò nonostante il tema della regolazione delle acque meteoriche di fatto sollevata dalla difesa sia per espressa previsione legislativa di competenza regionale; cfr. infra § 2 e art. 113 T.U.A.): si ritiene che tale impostazione metodologica sconti un atteggiamento a tratti un po’ sbrigativo della Corte, come sarà evidenziato nel § 3.

[4] Cfr. § 3.3. sentenza in commento.

[5] Il riferimento normativo è ovviamente all’art. 74 lett. g) D.Lgs. n. 152/2006, che definisce appunto le “acque reflue domestiche”.

[6] Sull’evoluzione del principio di assimilazione in materia, si veda P. Giampietro, Le acque meteoriche di dilavamento non sono più “assimilabili” alle acque reflue industriali, in www.tuttoambiente.it

[7] Corte Cass. pen., Sez. III, 2 ottobre 2014 (dep. 22 gennaio 2015), n. 2832, ric. Mele.

[8] Si veda Corte Cass. pen., Sez. III, 30 ottobre 2013 (dep. 22 gennaio 2014), n. 2867, ric. Pieri.

[9] Ibidem.

[10] Contra, v. C. Tanzarella, L’ulteriore (e definitiva?) conferma della Cassazione: le acque meteoriche di dilavamento “contaminate” sono reflui industriali, in questa Rivista n. 39/2023, p. 7, che ritiene che la qualificazione delle acque meteoriche contaminate quali reflui industriali sia “l’unica in grado di impedire che situazioni analoghe, anche sotto il profilo delle pericolosità ambientale, finiscano con l’essere trattate diversamente su un piano normativo e sanzionatorio”.

[11] “Chiusura” che suona più o meno in questi termini: anche a voler ammettere l’assenza di un impianto di lavaggio dei mezzi sul piazzale recapitante un refluo industriale, comunque la contaminazione delle acque meteoriche presenti nelle vasche e destinate allo scarico in fognatura le avrebbe comunque connotate tout court come acque da processo, con ogni conseguenza rispetto all’applicazione dell’art. 137 comma 1 T.U.A.

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