Scienze psicologiche e crisi climatica

15 Nov 2019 | contributi, in evidenza 3, articoli

Di Gabriella Gilli

Nell’ottobre del 2009, l’Act on CO2  del governo britannico iniziò a sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi del cambiamento climatico tramite una pubblicità televisiva: un padre raccontava alla sua bambina una storia in cui l’ambiente naturale diventava via via più cupo e minaccioso a causa del biossido di carbonio emesso da varie attività umane: nuvole scure, città sommerse da alluvioni, animali e persone in grave pericolo di vita… Immediatamente l’autorità britannica per il controllo delle pubblicità fu sommersa da lamentele e proteste: il cambiamento climatico non è così importante né così degno di nota, né imminente o certo, e, poi, non bisogna spaventare la gente… Vent’anni dopo quell’episodio, se da un lato l’opinione pubblica non è più così sorda all’allarme, dall’altro lato troppo poco si sta concretamente facendo. E si può ancora affermare, con l’Editoriale di settembre di questa Rivista, che “La distanza tra esperti e la gente comune, tra scienza e pubblica opinione, è enorme”. La scienza lo dice con chiarezza, ormai da molti anni: la crisi climatica esiste, è in gran parte imputabile alle azioni dell’uomo, e i rischi si stanno rapidamente trasformando in danni. Ma le soluzioni sono lontane.

Le scienze psicologiche sono in grado di offrire contributi evidence-based al dibattito, allo studio della crisi climatica e alla ricerca di possibili soluzioni? La letteratura scientifica in ambito psicologico sul cambiamento climatico e in generale sull’ambiente è ormai molto ampia, dotata di solidi impianti teorici e metodologici e in crescita esponenziale negli ultimi venti anni.

Le percezioni, le opinioni e gli atteggiamenti  che i cittadini e le comunità hanno del clima, le motivazioni o la resistenza a intraprendere azioni virtuose, le emozioni connesse, il collegamento con l’orientamento politico, con l’appartenenza a un gruppo e con la salute psicofisica, il profilo di personalità, le varie modalità di comunicazione sulla crisi climatica: questi sono, in estrema sintesi, i principali argomenti di cui si occupano le scienze umane quando studiano i comportamenti nei confronti dell’ambiente.

Innanzitutto, la natura stessa del problema climatico è una sfida a molteplici livelli. E’ un dilemma sociale, come la definisce lo psicologo olandese van Lange, vale a dire un conflitto pervasivo tra interessi individuali immediati e interessi collettivi a lungo termine. Difficile pensare e agire in modo sistemico e altruistico, prefigurando un benessere futuro che implica costi e rinunce odierne.  Ancora, è un perfect moral storm, per Gardiner (2011), che imputa the ethical tragedy of climate change al suo essere totalmente ‘globale’, intergenerazionale, e sfuggente ai modelli teorici di cui disponiamo; inoltre è diffusa nello spazio e nel tempo; coinvolge sistemicamente tutto il pianeta; le conseguenze sono (almeno in parte e soprattutto per gli abitanti delle città) pensate come distanti nel futuro; implica livelli differenti interagenti tra loro come quello politico, psicosociale, sanitario, economico, di giustizia sociale…Inoltre, le azioni correttive, potenzialmente molteplici, sono vincolate da interessi economici, politici, tecnici, ma anche da inerzia, delega, sfiducia che tutti si impegnino in egual misura.

L’insorgere rapido e pervasivo dell’allarme e dei rischi che corre il pianeta ha fatto scattare, in gran parte della “gente comune”, dinamiche difensive, confusive e inerziali. Ma come mai, se a un sostanziale accordo verbale sulla drammaticità della situazione climatica (i negazionisti puri sono pochi) non corrisponde una sufficiente attivazione in termini di impegno e azioni virtuose né a livello collettivo né al livello individuale? I primi studi sulla percezione del rischio partivano dall’assunto che gli individui valutassero il rischio in modo razionale, cercando e vagliando informazioni prima di farsi un’idea ed eventualmente agire di conseguenza. Tuttavia oggi sappiamo che le conoscenze non necessariamente attenuano le ansie, non influenzano in modo lineare la percezione del rischio e neppure inducono sempre comportamenti a favore dell’ambiente. Non è sufficiente fornire alle persone molte informazioni per metterle in condizione di valutare adeguatamente i rischi e di prendere decisioni convenienti.

Se questo vale per ogni tipo di questione, come mai è particolarmente evidente nelle questioni concernenti il clima, dove le informazioni per lo più ci sono, e sono di frequente chiare e accessibili (anche se, come vedremo più avanti, non sempre sono efficacemente personalizzate per le diverse categorie di individui e comunità)? Perché è il tipo di rischio a determinare atteggiamenti e azioni conseguenti: più i rischi vengono percepiti come incontrollabili, con un potenziale catastrofico, lontani nel tempo e nello spazio, agenti su fronti diversi, e, come evidenziato nell’Editoriale di questo numero, con il sospetto che costi, danni, eventuali vantaggi saranno distribuiti in modo iniquo tra le persone, più risultano intollerabili. Sono proprio queste le caratteristiche dei rischi climatici. La conseguenza è che tendiamo ad allontanarli dalla mente, con una euristica da struzzo con la testa nella sabbia. Si spiega così il fatto apparentemente paradossale per cui non è sufficiente possedere le informazioni sui rischi ambientali per agire in modo correttivo. Anzi, a volte, sapere è addirittura controproducente: perché, quando si conosce la minaccia ma ci si sente impotenti, ci si difende dall’ansia eccessiva e si tende a negare il problema. Questa “barriera” psicologica spiega l’inerzia nell’intraprendere azioni virtuose (a livello individuale o collettivo, politico…) anche da parte di chi è informato e preoccupato.

L’Editoriale accenna anche alla questione della fiducia/sfiducia in relazione alla crisi climatica, dove pare che la sfiducia sia rivolta non solo e non tanto agli “esperti”, ma soprattutto agli “altri”, siano essi il vicino di casa che non fa la raccolta differenziata o che mangia solo carne, o i governi di altri Paesi che si sottraggono agli accordi di Parigi sul clima, o le aziende che continuano a impacchettare qualsiasi oggetto in chili di plastica… E’ come se fosse in scacco quella fiducia epistemica, o fiducia sociale, che, negli studi del ricercatore e psicoanalista Peter Fonagy, indica la fiducia nell’autenticità e nel valore delle conoscenze trasmesse nelle reti sociali e culturali, una sorta di bussola per orientarsi nel mondo, che alimenta il desiderio di sapere e la cultura stessa. Nell’ambito del cambiamento climatico, la confusione dovuta alla difficile gestione delle tante, troppe, informazioni tende a generare sfiducia epistemica. Certo, ci sono sfumature diverse: dai negazionisti che squalificano il sapere degli esperti, ai dubbiosi e attendisti, ai sommersi dall’ansia ma inerti. Ma in definitiva ancora troppe poche persone sono impegnate in azioni concrete.

Da queste tre tematiche: la natura oggettivamente complicata della crisi climatica in quanto dilemma sociale, la tendenza a difendersene perché il rischio è percepito come ingestibile in quanto troppo grande, la sfiducia che tutti “facciano la loro parte” come dovrebbero, scaturisce l’interesse della psicologia per le modalità comunicative che favoriscono l’accettazione e la comprensione dei fenomeni relativi al cambiamento climatico e le azioni virtuose che ne potrebbero conseguire. E’ un lavoro molto difficile quello della comunicazione sul clima, che poggia su una mole crescente di dati di ricerca i cui risultati tuttavia non sono sempre univoci. Per esempio, è confermato da molti studi che messaggi e immagini catastrofiste rischiano di allontanare le persone dall’accettare la realtà del cambiamento climatico e riducono la motivazione a occuparsene e a impegnarsi. Ciò è particolarmente evidente nelle persone con valori politici autoritari e conservatori e nelle persone religiose (che ritengono che il mondo sia sostanzialmente ‘giusto così come è’). Così, se anche è stato provato da ricerche rigorose che un’alta concentrazione ambientale di particelle ultrafini (CAPS) influenza negativamente lo sviluppo del sistema nervoso centrale con alterazioni nelle citochine e nei neurotrasmettitori, con effetti neurologici e comportamentali patologici e aumentato rischio di autismo, declino cognitivo, attacco ischemico, depressione, oppure che l’esposizione all’inquinamento atmosferico durante la vita fetale è associata a modificazione strutturali-morfologiche cerebrali che possono contribuire a compromettere le funzioni cognitive nei bambini in età scolare, o ancora che l’inquinamento è connesso al rischio di demenze, può essere controproducente trasmettere questi dati senza una accorta mediazione che ne disinneschi il potenziale talmente ansiogeno da attivare un distanziamento difensivo.

D’altra parte, da qualche mese il quotidiano The Guardian ha aggiornato la guida di stile sul tema del clima, inasprendo i termini: non più cambiamento climatico ma crisi o emergenza climatica, non più scettici bensì negazionisti, e così via. Difficile prevedere se tale scelta aumenterà le ansie e quindi il rischio di difesa inerziale delle persone, oppure se, al contrario, fungerà da incentivo a prendersi cura dell’ambiente.

Ma anche proporre soluzioni ideali ma troppo lontane dalla concretezza è controproducente. Le persone hanno bisogno di messaggi di speranza, non terroristici, e di indicazioni sulle azioni limitate e concretamente perseguibili che possono intraprendere e sulle quali possano sentirsi attivi.

Se poi queste indicazioni fattibili si rivolgono a persone che appartengono a una rete sociale, allora le probabilità che esse si attivino concretamente aumentano. Infatti, un ampio gruppo di studi esamina il peso dell’appartenenza al contesto sociale nel motivare gli individui a intraprendere azioni collettive a favore dell’ambiente: la credenza nell’efficacia dell’azione collettiva e le emozioni condivise nel gruppo (soprattutto emozioni connesse alla colpa e alla responsabilità) sono predittori significativi dell’impegno in azioni collettive contro la crisi climatica. Un po’ come dire che se un determinato gruppo è attivo a favore dell’ambiente, i singoli partecipanti hanno più probabilità di diventare a qualche livello attivisti di quante ne avrebbero se non appartenessero a quel gruppo. L’identità di gruppo, che a sua volta rinforza l’identità personale, è quindi un potente incentivo a intraprendere azioni virtuose.

Tuttavia nel discorso sul clima un altro fattore, la polarizzazione culturale e politica, ha un notevole peso, soprattutto negli Stati Uniti dove i Repubblicani e i Conservatori sono tendenzialmente più scettici circa la realtà e l’urgenza del problema climatico rispetto ai Democratici e Liberali (Dunlap et al., 2016) mentre nei Paesi europei tale polarizzazione appare più sfumata (McCright et al., 2015). (Negli USA, il 30% delle persone non ritiene reale il cambiamento climatico, e il 47% crede sia naturale e non causato dall’uomo, Leiserowitz et al., 2018). Se da un lato l’appartenenza a un gruppo rinforza l’identità personale, e può essere quindi una risorsa per promuovere azioni collettive a favore dell’ambiente, è anche vero che può costituire un vincolo e un freno. Infatti, la identity-protective cognition, il pensiero protettivo dell’identità, come è stato definito da Kahan et al. 2007, induce un pensiero per così dire collassato e cortocircuitato sull’ideologia e appartenenza culturale e politica, meno aperto a revisioni critiche, anzi autorinforzantesi nel tempo. Coloro che si occupano della comunicazione relativa al cambiamento climatico, consapevoli del potere dell’appartenenza a un gruppo, elaborano strategie comunicative tese a ridurre la polarizzazione nonché rispondenti ai bisogni specifici dei singoli gruppi. Ma i fattori di cui tener conto sono tanti. Eccone un elenco peraltro non esaustivo:

  • il tipo di messaggio e la reazione emotiva suggerita (di ansia e paura, o di speranza). Messaggi centrati sui rischi della crisi climatica sulla salute delle persone provoca un aumento della polarizzazione politica quando le vittime dell’impatto ambientale sono rappresentate come socialmente e geograficamente distanti, in particolare inducendo reazioni di rifiuto tra i soggetti di orientamento conservatore. In generale, comunque, i messaggi terroristici e le immagini catastrofiste che incutono paura e ansia, anche se hanno un impatto immediato più forte (soprattutto su coloro che hanno conoscenze più limitate sul clima) e vengono ricordati meglio rispetto ai messaggi propositivi a valenza emotiva positiva, tuttavia non modificano in modo significativo i comportamenti virtuosi rilevati dopo un lasso di tempo, quindi non sono efficaci a lungo termine e, anzi, possono essere controproducenti poiché scatenano reazioni difensive di allontanamento dal problema;
  • il tipo di azione suggerita: contrastiva oppure propositiva, per esempio, combattere i disastri della crisi climatica, oppure favorire i green jobs? Se, come emerge da molti studi, le emozioni alla base dell’impegno per l’ambiente sono con maggior intensità emozioni di colpa, di coscienziosità, di assunzione di responsabilità che non di rabbia e paura, allora le proposte costruttive sono da preferire. (A questo proposito, si veda la filosofia di Extinction Rebellion, il movimento internazionale ‘dal basso’, che chiama alla disobbedienza civile non violenta e interlocutoria per chiedere ai governi di intraprendere serie azioni a favore dell’ambiente). Ancora, messaggi centrati sulle energie rinnovabili risultano più persuasivi quando sono associati ai risultati positivi che si potrebbero ottenere dalle politiche a loro sostegno, e quando il messaggio sottolinea la crescita quale interesse principale; al contrario, una comunicazione sulle emissioni di gas serra è più efficace e persuasivo quando è contestualizzato come fenomeno da evitare e quando vengono enfatizzati i temi della sicurezza e della salute.
  • la fonte da cui proviene il messaggio e la sua credibilità e autorevolezza (lo scienziato oppure la persona di spettacolo, il militare o il politico, la giovane attivista…?). Alcuni dati di ricerca sostengono che l’impatto di un messaggiosia maggiore quando la fonte è “non convenzionale”: leader militari ed esponenti dei Repubblicani, negli USA, nei panni di comunicatori a favore del clima, risulterebbero essere fonti più efficaci persino degli esperti e scienziati climatologi. E’ forse il caso della giovane attivista Greta Thunberg? La scelta di testimonial inconsueti diminuirebbe anche la polarizzazione culturale;
  • la vicinanza o lontananza della rappresentazione di ambienti naturali o umani dal destinatario della comunicazione; è meglio garantire la vicinanza tra rappresentazione e destinatario della comunicazione.

Ma anche differenze individuali psicologiche più sottili vengono considerate per valutare l’atteggiamento nei confronti del sapere e della motivazione all’azione circa la crisi climatica. Così, per esempio, le persone reagiscono in modo diverso se sono orientate alla promozione (e allora saranno più coinvolte dalla comunicazione di risultati positivi) oppure alla prevenzione (per questi saranno più efficaci i messaggi che mostrano come evitare effetti negativi).

Anche la personalità influenza atteggiamenti e comportamenti verso la crisi climatica: nel modello conosciuto come i Big Five, che individua i cinque tratti fondamentali su cui si struttura la personalità, l’impegno a favore dell’ambiente risulta correlato a punteggi elevati nei tratti Gradevolezza (che indica la propensione a essere amichevoli, prosociali, cooperativi, fiduciosi…),  Coscienziosità (scrupolosità, perseveranza) e Apertura all’Esperienza (curiosità verso la cultura e l’esperienza).

In definitiva, per una comunicazione efficace che aumenti le probabilità dell’impegno e dell’azione a favore del contenimento della crisi climatica valgono alcune regole: superare i modelli, obsoleti, centrati sulla dinamica “costi e benefici” a favore di modelli molto più complessi che considerino l’influenza della cultura, dell’orientamento politico, dell’appartenenza o meno al tessuto sociale o a gruppi,  ma anche tratti di personalità, valori, conoscenze pregresse di coloro a cui si rivolge il messaggio, per individuare i messaggi più adatti a un determinato pubblico senza aumentare le polarizzazioni culturali e politiche. Poi, ricordare che messaggi troppo ansiogeni e catastrofici inducono difese di rifiuto, diminuiscono le motivazioni ad agire e indeboliscono i sentimenti di efficacia, ma anche che i messaggi di speranze irrealistiche sono poco credibili; meglio suggerire azioni concrete che si possono fare o, anche, non fare (strategie, come il non usare l’auto o non sprecare energia,  all’insegna della semplificazione, in parte controintuitiva, che si è rivelata vincente soprattutto per  i cittadini delle grandi città). Ancora, narrare storie  in cui compaiano persone (persone o piccoli gruppi, ma non moltitudini) che hanno raggiunto un successo nella salvaguardia dell’ambiente e in cui i destinatari possano identificarsi, quindi il più possibile vicine  geograficamente e culturalmente. Ma soprattutto diversificare  le strategie comunicative, personalizzando le informazioni sulle condizioni ambientali locali, in modo da renderle più concrete ed emotivamente comprensibili. Così, l’inondazione è un esempio di interesse per coloro che vivono vicino a corsi d’acqua, mentre l’aumento di temperatura potrebbe essere maggiormente rilevante per le persone che vivono in climi più caldi.

In definitiva, dal punto di vista delle scienze umane, saranno le comunicazioni personalizzate ai diversi tipi di destinatari, le azioni proposte e sostenute all’interno dei gruppi, e le iniziative educative rivolte alle generazioni future, le forze che contribuiranno a migliorare l’ambiente e a ridurre la crisi climatica. Tutte le iniziative devono da un lato incentivare azioni concretamente perseguibili, anche se circoscritte e limitate, ma contemporaneamente devono promuovere una prospettiva a lungo termine, in cui gli sforzi e i costi immediati acquisiscano un senso altruistico, sistemico e proiettato nel futuro.

Una raccolta di contributi sul clima, che sta per essere pubblicata nei prossimi mesi in un numero monografico di Wires-Climate Change 2020, tenta di rispondere alla domanda “E’ troppo tardi?” oscillando tra speranze ottimistiche e duro realismo. I contributi degli autori di formazione psicologica rifiutano l’alternativa tra salvezza o catastrofe, così come è ritenuta inadeguata la determinazione di una terroristica dead-line oltre la quale tutto sarà perduto. E’ invece proposta una ridefinizione dei parametri di che cosa sia la crisi climatica nei termini di giustizia/ingiustizia sociale. Tale ridefinizione, attenta al fatto che le popolazioni più povere sono quelle che già ora stanno patendo gli effetti della crisi climatica, sposta dibattito e interventi su un piano politico molto più esteso e fondativo. E rispetto alla domanda “è troppo tardi?” un cauto ottimismo attraversa molti di questi recentissimi contributi: si basa sulla dettagliata rilevazione delle attività di numerosi e varii  gruppi in tutto il mondo che stanno approntando e attuando modificazioni radicali dei propri comportamenti individuali e collettivi, al fine di contenere i danni climatici e per “dar vita a una società più etica e più capace di prendersi cura di tutti”: un percorso di consapevolezza e azione per una giustizia sociale fondata sul riconoscimento delle diversità, all’insegna di “pragmatismo e umiltà”, e di cui il clima è una delle molte dimensioni. 

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Note: gli studi citati in questo contributo sono tratti dai seguenti volumi o articoli di riviste scientifiche: The social psychology of climate change (2014) Numero speciale dell’European Journal of Social Psychology del 2014; Clayton S. e Manning C. (a cura di), 2018.  Psychology and Climate Change-Human Perceptions, Impacts, and Responses; Abrahamse W., (2019) Encouraging Pro-Environmental Behaviour; Wiley Interdisciplinary Reviews: Climate Change; Wires Climate Change, 2020. DOI: 10.1002/wcc.619; Allen et al., (2014) Early Postnatal Exposure to Ultrafine Particulate Matter Air Pollution; Persistent Ventriculomegaly, Neurochemical Disruption, and Glial Acrivtion Preferentially in Male Mice. Environmental Health Perspectives; DOI: 10.1289/ehp.1307984; Dunlap R.E. et al.(2016) The political divide on climate change: Partisan polarization widens in the U.S., DOI: 10.1080/00139157.2016.1208995; McCright A.M. et al. (2015), Political ideology and views about climate change in the European Union,  DOI: 10.1080/09644016.2015.1090371; Guxens et al., 2018. Air Pollution exposure during fetal life, brain morphology, and cognitive function in school-age children. Biological Psychiatry 2018. DOI: 10.1016/j.biopsych.2018.01.016; Calderón-Garcidueñas et al., 2018. Non-Phosphorylated Tau in cerebrospinal fluidi s a marker of Alzheimer’s Disease continuum in young urbanites exposed to air pollution. Journal of Alzheimer’s Disease, DOI: 10.3233/JAD-180853).

 

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