La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla tutela dell’ambiente: approdi, prospettive e portata precettiva

01 Apr 2022 | articoli, contributi

di Alberto Galanti 

1. Introduzione

Come è stato acutamente affermato in dottrina, «la società moderna sembra più minacciata dallo sviluppo insostenibile che dagli attacchi diretti alla libertà individuale»[1].

Gli sconvolgimenti climatici, l’aumento dell’inquinamento atmosferico, la diminuzione dello strato di ozono, la diminuzione della biodiversità, costituiscono gravissimi attacchi alla società civile su scala mondiale. Come è stato sottolineato nella draft resolution del Comitato per gli Affari sociali, la salute e lo sviluppo sostenibile dell’Assemblea del Consiglio d’Europa del 13 settembre 2021[2], «l’inquinamento ambientale, la perdita della biodiversità e le crisi climatiche stanno rendendo le persone e il pianeta malati, portando morti premature per la generazione presente e rubando spazio vitale per le generazioni future»[3].

L’Italia non è rimasta, almeno sulla carta, inerte. E’ di questi giorni l’approvazione definitiva della legge costituzionale (D.D.L. n. 3156-B) che inserisce nell’articolo 9 della Costituzione la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (anche nell’interesse delle future generazioni), e, nell’articolo 41, stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute e all’ambiente[4].

Corrispondentemente, si è assistito negli ultimi decenni ad un sempre maggiore interesse da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo ai profili di tutela dell’ambiente che impingono, in modo variegato, sui diritti individuali riconosciuti dalla relativa Convenzione (come si vedrà meglio, in particolare, nell’ultimo paragrafo).

Non può infatti dimenticarsi che mentre la giurisprudenza costituzionale italiana riconosce e tutela l’ambiente ex se, come valore trasversale ma nella sua componente “oggettiva”, oltre in quella “soggettiva”[5], la Corte EDU si occupa solo delle possibili implicazioni delle aggressioni al bene ambiente nella sua interrelazione con i diritti individuali.

Come è stato rimarcato, «la parola “Ambiente” non è menzionata nelle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) e ancor meno il concetto del diritto ad un ambiente salubre. Analogamente, la convenzione non stabilisce direttamente se un individuo ha un diritto ad un ambiente salubre»[6].

Pur in assenza di una espressa tutela dell’ambiente sano come diritto fondamentale dell’Uomo, la Corte ha tuttavia nel tempo interpretato in via estensiva disposizioni della Convenzione a tutt’altro fine pensate per assicurare dignità e tutela a situazioni soggettive legate alla salubrità dell’ambiente[7].

Rileva accorta dottrina[8] che la mancanza di una espressa tutela, «si spiega con il fatto che l’approvazione della Convenzione risale agli anni Cinquanta, quando non era ancora emersa nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo[9]. Una consapevolezza maturata nel tempo e che ha trovato poi riscontro, a livello di individuazione principi fondamentali del diritto eurounitario, nell’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali (Cdfue), secondo cui “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”», nonché, per il sistema EDU, nei lavori in corso di svolgimento presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che, il 29 settembre 2021, ha presentato una proposta di protocollo addizionale alla Convenzione EDU sul diritto ad un “ambiente salubre, pulito, sicuro e sostenibile”[10].

Ciò non ha impedito alla Corte di rinvenire in altri diritti fondamentali dell’Uomo casi di tutela del diritto all’ambiente. Come è stato osservato, infatti, nella giurisprudenza di Strasburgo «l’ambiente diviene un “valore” della società, che giustifica limitazioni ad altri diritti riconosciuti dalla Carta e che richiede interventi positivi da parte dello Stato per la sua protezione[11]».

In tal senso, si è parlato di “svolta verde” della Corte EDU, grazie alla quale la Corte si prende il diritto di controllare il rispetto dei diritti dell’uomo da parte degli Stati sulla base di un canone ermeneutico da essa stessa definito “necessariamente evolutivo”», che «implica una diversa relazione del diritto col tempo»[12].

E’ stato altresì rilevato[13] come nel corso degli anni la giurisprudenza della corte EDU ha modulato progressivamente l’intensità e la tipologia degli obblighi derivanti dalla violazione delle disposizioni convenzionali, distinguendo dal contenuto “classico” negativo delle libertà fondamentali in termini di dovere di astensione (Abwerrecht) a carico dello Stato obblighi a contenuto positivo (Schutzplicht), aventi ad oggetto, non un divieto, bensì la protezione e il godimento del diritto stesso.

Ciò è avvenuto attraverso il meccanismo di protezione par ricochet, istituto di creazione pretoria che «ha consentito agli organi di tutela di Strasburgo di estendere la protezione di determinati diritti garantiti dalla Convenzione ad altri diritti dalla stessa non direttamente protetti»[14].

Il punto di svolta può essere individuato nell’approvazione, nel 1972, della c.d. “Carta di Stoccolma”, la quale, pur non avendo contenuto vincolante, riconosceva il legame di interdipendenza tra ambiente e diritti umani, creando i presupposti per un intervento della Corte EDU[15]. Da tale momento, il focus della Corte si è lentamente spostato, dapprima con pronunce più “conservatrici”, quindi via via più innovative, sulla tutela dell’ambiente salubre.

Come sottolineato nel “Manual on human rights and the environment”, pubblicato dal Consiglio d’Europa nel 2006, la Corte ha esaminato in modo sempre più ficcante i reclami in cui i singoli hanno sostenuto che fattori ambientali avversi hanno determinato la violazione di uno dei loro diritti della Convenzione. Dalla lettura del documento si evince che i giudici di Strasburgo hanno affrontato la tematica secondo un triplice approccio:

– in primo luogo, i diritti umani tutelati dalla Convenzione possono essere direttamente influenzati da fattori ambientali avversi (ad esempio, gli odori tossici provenienti da una fabbrica o da una discarica potrebbero avere un impatto negativo sulla salute degli individui. Le autorità pubbliche potrebbero quindi essere obbligate ad adottare misure per garantire che i diritti umani non siano gravemente colpiti da fattori ambientali avversi);

– in secondo luogo, fattori ambientali avversi possono far insorgere taluni “diritti procedurali” per l’interessato (la Corte ha stabilito che le autorità pubbliche devono osservare determinati requisiti in materia di informazione e comunicazione, nonché di partecipazione nei processi decisionali e nell’accesso alla giustizia in processi che hanno ad oggetto l’ambiente);

– in terzo luogo, anche la protezione dell’ambiente può essere una pretesa legittima tale da giustificare l’interferenza con alcuni diritti umani individuali (ad esempio, la Corte ha stabilito che il diritto al pacifico godimento dei propri beni può essere limitato se si considera questo sacrificio necessario per la tutela dell’ambiente)[16].

Come si vedrà nelle pagine che seguono, la Corte ha già individuato nella sua casistica giurisprudenziale questioni relative alla ambiente che possono pregiudicare diritti coperti dalla Convenzione, quali «il diritto alla vita (articolo 2), il diritto al rispetto della vita privata e familiare nonché della casa (art. 8), il diritto a un giusto processo e di avere accesso a un tribunale (articolo 6), il diritto a ricevere e trasmettere informazioni e idee (articolo 10), il diritto a un ricorso effettivo (articolo 13) e il diritto al pacifico godimento dei propri beni (Articolo 1 del Protocollo n. 1).

Tali approdi costituiscono quella che potremmo definire la giurisprudenza “di prima generazione” della Corte, successiva alla c.d. “svolta verde”. Nelle pagine che seguono si analizzerà il percorso della corte con esclusivo riferimento ai profili “sostanziali”, assicurati dagli articoli 2 e 8.

Negli ultimi tempi, inoltre, si è affacciato un approccio del tutto innovativo, che considera l’ambiente come un bene collettivo che va tutelato in funzione delle generazioni future (non può sfuggire l’analogia con la modifica costituzionale introdotta in Italia). Nella seconda parte del contributo si analizzeranno quindi i potenziali approdi di quella che si auspica possa divenire la giurisprudenza “di seconda generazione” della Corte.

2. Il valore della Convezione e delle sentenze della Corte EdU per i sistemi giuridici dei Paesi contraenti

Prima di procedere all’analisi delle più significative pronunce della Corte, occorre ora verificare quale sia il loro impatto nel sistema giuridico nazionale.

La tematica può essere affrontata da due differenti punti di vista: il rango della Convenzione EDU nel sistema delle fonti dei vari Stati contraenti, e il valore delle pronunce della Corte EDU per gli Stati stessi e i giudici nazionali.

Quanto al primo aspetto, per quanto riguarda in particolare l’Italia, nel sistema nazionale delle fonti del diritto la Convenzione EDU non riveste valore costituzionale “diretto”, ma “interposto”, ossia norme di rango sub-costituzionale, la cui forza tendenzialmente imperativa va ricondotta all’articolo 117 della Costituzione, in virtù del quale il legislatore interno deve rispettare i vincoli derivanti “dagli obblighi internazionali”, ai quali vengono ricondotti gli obblighi che promanano dall’adesione alla CEDU[17].

In proposito, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 349/2007 ebbe ad affermare che «la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione», verifica che spetta in primo luogo ai giudici nazionali e, in sede di verifica di legittimità costituzionale, alla Corte Costituzionale stessa.

Va tuttavia ricordato che l’articolo 6 del Trattato di Lisbona (versione consolidata) stabilisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati” (comma 1) e che “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (comma 2).

Inoltre, l’articolo 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE, nota anche come “Carta di Nizza” del 2000), stabilisce che “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione”. In proposito, si sottolinea come il documento recante le “Spiegazioni relative alla carta dei diritti fondamentali” (2007/C 303/02), in riferimento al predetto articolo 52 precisa che “il riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.

Della eventuale modifica del “valore gerarchico” della Convenzione EDu nel sistema delle fonti si è subito occupata la Corte Costituzionale, adita sul presupposto che alla luce del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, le disposizioni convenzionali sarebbero divenute parte integrante del diritto dell’Unione, con la conseguenza che i “giudici comuni” risulterebbero «abilitati a non applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della Convenzione, senza dover attivare il sindacato di costituzionalità. Varrebbe, infatti, al riguardo, la ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte sulla base del disposto dell’art. 11 Cost.[18]».

Il Giudice delle leggi ha, al contrario, ritenuto che il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dell’art. 6 del Trattatto UE è una disposizione che riprende lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona: «restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione “rispetta” (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione “fanno parte” – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29). Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui «i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale[19]».

Va peraltro sottolineato, come fece anche la Corte, che ad oggi l’Unione europea non ha ancora ratificato la Convenzione EDU, a seguito del parere negativo espresso dalla Corte di giustizia UE (n. 2/2013), che ha ravvisato numerosi profili di incompatibilità con la normativa unionale del progetto di ratifica.

Il principio espresso è riferibile, secondo la Corte, anche alla restante fonte di tutela, vale a dire la Carta dei diritti fondamentali, la quale, all’art. 51, stabilisce, al paragrafo 1, che “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.

Pertanto, come è stato correttamente osservato, la Carta non costituisce uno strumento di tutela dei diritti fondamentali che va oltre le competenze dell’Unione europea; tale assunto è stato infatti «escluso più volte dalla Corte di giustizia, sia prima che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (tra le altre, sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU)[20]»: il presupposto per applicabilità della Carta di Nizza è che «la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto[21]».

Va tuttavia evidenziato, in uno con la più accorta dottrina, che il meccanismo di “rinvio mobile” contenuto nell’articolo 117 Cost., che conferisce alla CEDU il valore di norma interposta, «consente l’ingresso delle norme della Convenzione così come interpretate, di volta in volta, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ciò, pertanto, implica un rinvio alle diverse interpretazioni che progressivamente andranno a delinearsi nella giurisprudenza sovranazionale»[22].

L’affermazione ha trovato il conforto del Giudice delle Leggi, che con sentenza 230/2012 ha affermato che «le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione[23], integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011): ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub-costituzionale – non venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009), e ferma restando, altresì, la spettanza a questa Corte di un “margine di apprezzamento e di adeguamento”, che – nel rispetto della “sostanza” della giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è destinata ad inserirsi (sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009)».

Tale affermazione ci introduce al secondo aspetto, concernente il valore delle pronunce della Corte EDU per i giudici nazionali. In proposito, accanto al valore di “cosa giudicata” nel singolo caso portato alla sua attenzione, le pronunce della Corte possiedono anche valore di “cosa interpretata” valida erga omnes. Ma in quali casi?

Sul punto la Corte costituzionale, con sentenza n. 49/2015 (c.d. “caso Varvara”) ha precisato che:

«a) compete al giudice comune di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla “dimensione ermeneutica che la Corte Edu adotta in modo costante e consolidato” (sentenza n. 239 del 2009),

  1. b) a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008);
  2. c) il dovere del giudice di cui sub a) è subordinato al “prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu” (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007)[24]».

In ogni caso, il giudice comune è tenuto unicamente ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009)[25].

Il riferimento alla giurisprudenza europea “consolidata” rende necessario indugiare per qualche riga su tale concetto. Ed infatti, nel rapporto esplicativo al Protocollo addizionale n. 14 che ha modificato l’articolo 28, si afferma che «una “giurisprudenza consolidata della Corte” è il più delle volte una giurisprudenza costante di una Camera. È tuttavia possibile, in via eccezionale, che una sola sentenza di principio della Corte possa costituire una “giurisprudenza consolidata”, in particolare nel caso di una sentenza della Grande Camera».

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza ultima citata, evidenzia come «la nozione stessa di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell’articolo 28 della Cedu, a riprova che, anche nell’ambito di quest’ultima, si ammette che lo spessore di persuasività delle pronunce sia soggetto a sfumature di grado, fino a quando non emerga un “well-established case-law” che “normally means case-law which has been consistently applied by a Chamber”, salvo il caso eccezionale su questione di principio, “particularly when the Grand Chamber has rendered it”(così le spiegazioni all’articolo 8 del Protocollo n. 14, che ha modificato l’articolo 28 della Cedu)».

Si deve peraltro evidenziare che «poiché giudice nazionale e giudice europeo dialogano da pari a pari e non all’interno di un sistema giurisdizionale chiuso, il primo sarà evidentemente tanto più disponibile ad utilizzare le sentenze della Corte Edu come «precedenti» ai fini della decisione dei casi che gli sono sottoposti (e ovviamente nei limiti in cui il sistema normativo e istituzionale lo consente) quanto più la creazione del precedente (cioè l’utilizzazione di casi passati per risolvere casi presenti) – e il dipartirsi dallo stesso –, da parte della Corte Edu è coerente, lineare, adeguatamente motivato, trasparente, consistente, rispettoso del principio di parità di trattamento degli Stati Membri»[26].

In questi termini, si può affermare che la giurisprudenza consolidata della Corte EDU svolga una funzione sostanzialmente “nomofilattica” nei confronti dei giudici nazionali, assumendo rilievo in termini di “armonizzazione” delle legislazioni dei vari Paesi europei ai principi contenuti nella Convenzione. E’ stato in proposito sottolineato dalla dottrina che «la Convenzione Edu non è uno strumento d’uniformazione del diritto interno degli Stati Contraenti, che conservano le loro caratteristiche di fondo e di procedura; è uno strumento di armonizzazione minima del diritto degli Stati Contraenti che hanno “un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto” (preambolo alla Convenzione)[27]» e, purtuttavia, non vi è dubbio che la giurisprudenza di Strasburgo ha una indubbia capacità di “avvicinamento” delle legislazione dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa.

Ma la funzione delle pronunce della Corte non si esaurisce nella nomofilachia nei confronti dei “giudici comuni”. Come è stato acutamente affermato[28], l’influenza della giurisprudenza della CEDU si diffonde in tre diverse direzioni (anche) nei confronti degli stessi Stati contraenti:

  1. a) la presenza di tali obbligazioni positive influenza direttamente l’ordinamento penale dello Stato condannato dalla Corte EDU, il quale deve conformarsi alla sentenza della Corte, al fine di prevenire l’inosservanza procedura prevista dall’articolo 46 della Convenzione;
  2. b) la presenza di tali obbligazioni positive influenza indirettamente anche gli ordinamenti penali di altri Stati contraenti, in quanto potrebbero essere ritenuti responsabili anch’essi dell’inadempimento di tali obblighi, nel caso loro i cittadini presentino ricorso alla Corte;
  3. c) di conseguenza, un adeguato effetto di armonizzazione si ripercuote sugli ordinamenti penali interni, sulla base degli standard di protezione dei diritti umani individuati dalla Corte. Tale effetto di armonizzazione è ulteriormente migliorato dall’obbligo di interpretazione della legislazione interna coerente con i dicta della Corte europea dei diritti dell’Uomo, previsto in molti Stati contraenti.

Alla luce del valore del precedente consolidato, si può concludere questa breve disamina nel senso che dei principi contenuti nella Convenzione EDU e della loro interpretazione da parte della Corte di Strasburgo i giudici nazionali debbono tener conto anche nel valutare l’ammissibilità delle pretese risarcitorie dei singoli soggetti danneggiati nei processi in cui è configurabile un danno legato alle matrici ambientali. Si vedrà di seguito, nel par. 5, entro che limiti.

3. La giurisprudenza “tradizionale” della Corte EDU: l’articolo 8 della Convenzione

La prima delle norme convenzionali di cui la Corte ha fatto uso per garantire una tutela dell’ambiente è stata l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare[29]) della CEDU.

Le prime pronunce di rilievo da parte della Corte sono state rese in seno ai processi Arrondelle contro Regno Unito (1980), e Baggs contro Regno Unito del 1985[30]. In entrambi i casi si trattava di soggetti che abitavano nei pressi  di un aeroporto ( Gatwick e Heatrow); la Corte ritenne ricevibili i ricorsi, ma i procedimenti si conclusero senza alcuna decisione sul merito a seguito di accordo tra le parti (il pagamento di una somma ex gratia ai ricorrenti da parte del Governo britannico). Successivamente (1986), nel caso Powell e Rayner contro Regno Unito la Corte respinse il ricorso, affermando la necessità di coordinare l’articolo 8 della convenzione, con altri diritti fondamentali, quale quello alla sicurezza.

La Corte sostenne in quella circostanza la necessità di un solido bilanciamento tra interessi ex art. 8 e altri legittimi interessi, in applicazione del secondo comma dell’articolo 8 della Convenzione[31]. E’ quello che la Corte chiama “fair balance test”, ossia il bilanciamento tra i vari principi sanciti dalla Convenzione[32].

Nel 1994 si registra quello che può essere considerato a buona ragione il leading case, Lopez Ostra contro Spagna, in cui la Corte, oltre a riscontrare la violazione di art. 8 CEDU, condannò lo stato al risarcimento sulla base del fatto che non solo lo stato spagnolo aveva violato l’art. 8 consentendo la localizzazione dell’impianto in quel sito, ma soprattutto non si era attivato, in un momento successivo, per far cessare le emissioni e anzi aveva impugnato le sentenze dei giudici che avevano sospeso l’attività dello stabilimento.  La Corte sottolinea, e questo è il punto focale della decisione, che «un grave inquinamento ambientale può influire sul benessere delle persone e impedire loro di godere della propria casa in modo tale da pregiudicare la loro vita privata e negativamente la vita familiare, senza tuttavia mettere in serio pericolo la loro salute». Per la prima volta i giudici di Strasburgo sottolineano come non sia necessaria la messa in pericolo della vita o della salute del soggetto, essendo sufficiente la prova della turbativa al godimento della propria vita familiare e del proprio domicilio.

Ma il ragionamento della Corte non si ferma qua, perché sostiene anche che le Autorità devono proteggere il diritto dell’individuo ad un ambiente salubre, come espressione del diritto al domicilio e alla vita privata, con azioni concrete e non solo rispettarlo in astratto; questa protezione deve volgersi sia contro aggressioni dirette verso il bene della vita privata, sia verso aggressioni indirette, ossia derivanti da provvedimenti relativi in via principale ad altre attività, come, nel caso di specie, l’autorizzazione alla localizzazione di un impianto di trattamento dei rifiuti. Si esplicita quindi quell’obbligo di “protezione positiva”, e non meramente negativa.

Nel 1998 (caso Guerra contro Italia), la Corte ha ritenuto che sia preciso obbligo dello Stato intervenire prima che lo stato dell’ambiente sia così degenerato da porre in pericolo la stessa esistenza dell’individuo[33].

Il cammino della corte non è stato tuttavia privo di “inciampi”. Dapprima nel caso Hatton ed Altri contro Regno Unito[34] e [35], quindi nel di poco successivo caso Kyrtatos contro Grecia[36], la Corte ebbe a ritenere ingiustificate le richieste dei ricorrenti. Nel secondo caso, in particolare, la corte ritenne che l’elemento cruciale che deve essere presente «è l’esistenza di un effetto pregiudizievole sulla sfera privata o familiare di una persona e non semplicemente il generale deterioramento della ambiente … Né l’articolo 8 né alcuno degli altri articoli della Convenzione sono specificamente destinati a fornire protezione generale dell’ambiente in quanto tale»[37]. Un enorme passo indietro.

Fortunatamente, le pronunce successive della Corte virarono verso lidi più inclini a una interpretazione eco-friendly del diritto sancito dall’articolo 8 della Convenzione. In particolare, nei casi Fadeyeva contro Russia (Application n. 55723/00. Sentenza del 9 giugno 2005) e Giacomelli contro Italia (Application n. 59909/00. Sentenza del 2 novembre 2006) i giudici di Strasburgo ritennero violato l’articolo 8 della convenzione, operando il “fair balance” tra interesse pubblico e diritto fondamentale dell’individuo in modo meno restrittivo, soprattutto in casi, quali quelli esaminati, di evidenti violazioni della normativa di settore.

Nella successiva causa Tatar contro Romania (Application n. 67021/01, Sentenza del 27 Gennaio 2009) la Corte, nel riqualificare il ricorso, introdotto per violazione dell’articolo 2 della convenzione, in violazione dell’articolo 8, compie un significativo passo in avanti, includendo il diritto ad un “ambiente sano e protetto” nell’ambito di protezione della norma convenzionale[38].

L’ultimo step è costituito dalla sentenza Dubetska e altri c. Ucraina[39], in cui la Corte ha ribadito che seppure la  Convenzione non garantisce direttamente il diritto alla conservazione dell’ambiente naturale in quanto tale, una pretesa azionabile ai sensi dell’articolo 8 può sorgere quando un rischio ambientale raggiunge un livello di gravità tale da tradursi in una compromissione significativa della capacità del richiedente di godere della propria vita privata o familiare o della propria casa[40].

 4. Segue: la violazione dell’articolo 2 della Convenzione

In altre successive pronunce, spinta anche dalle opinioni dissenzienti di alcuni giudici dianzi evidenziate, la Corte farà esplicito riferimento proprio all’articolo 2 della Convenzione[41], stabilendo (Grande Camera, sentenza 30.11.2004, Oneryildiz  c. Turchia, ric. n. 48939/1999) la sussistenza di un preciso obbligo positivo a carico dello stato di prendere tutte le misure necessarie a evitare rischi per la vita, in quanto l’art. 2 impone allo stato un dovere “primordiale” di dotarsi di un apparato legislativo e amministrativo tale da dissuadere a condotte che mettono in pericolo la vita dell’individuo[42]. Nella sentenza la Corte ritenne che questo obbligo «deve essere interpretato come valevole nel contesto di tutte le attività, pubbliche o non, suscettibili di costituire un pericolo per il diritto alla vita, a fortiori per le attività industriali, pericolose per natura, quali lo sfruttamento dei siti di stoccaggio dei rifiuti». Nella circostanza la Corte «ha distinto – in linea con la tradizionale tassonomia degli obblighi di tutela fondata sull’art. 2 CEDU – tra obblighi di prevenzione delle violazioni del diritto alla vita come risultato delle attività pericolose (c.d.  “aspetto sostanziale” del diritto alla vita) ed obblighi di risposte giudiziarie effettive alle violazioni del diritto alla vita conseguenti alle attività pericolose (c.d.  “aspetto procedurale” del diritto alla vita)»[43].

Tra gli obblighi sostanziali, la dottrina individua «un “livello primario” di tutela, quale dovere a carico dello Stato di conformare il proprio ordinamento giuridico in maniera tale da dissuadere i consociati dalla commissione di reati contro la vita, attraverso la predisposizione di un quadro legislativo ed amministrativo (legal framework) finalizzato a prevenire le violazioni della Convenzione, e un “livello secondario” quale dovere delle autorità pubblica di prevenire nel caso concreto la violazione (nel caso del diritto alla vita, il dovere da parte dell’autorità di polizia di prevenire nel singolo caso le aggressioni al bene vita in pericolo)»[44].

Analogamente, nel caso Brincat c. Malta (sentenza 24.10.2014, Brincat e altri c. Malta, ric. n. 60908/2011) la Corte ha sanzionato lo Stato per non avere adottato misure idonee a proteggere la salute e la vita di lavoratori esposti ad amianto presso un cantiere navale[45].

Si potrebbe pensare che l’art. 8 CEDU consenta una tutela più ristretta rispetto all’articolo 2, che tutela il diritto alla vita. In realtà, la prima disposizione consente alla Corte un margine di manovra molto più ampio in quanto esige da parte del ricorrente di assolvere ad un onere probatorio di gran lunga inferiore, non dovendo egli dimostrare il nesso di causalità con patologie fisiche da cui sia affetto, perché sono solo la sua vita privata, la sua riservatezza e il suo domicilio ad essere stati lesi. In tal senso, il riferimento alla non necessità di una “evidenza scientifica” del nesso eziologico tra esposizione e patologia appare evidente[46].

Con la sentenza Cordella contro Italia del 24 gennaio 2019[47] (Ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15), relativa ancora al caso Ilva di Taranto, la Corte EDU ha colto l’occasione per fare il punto della situazione, ribadendo i precedenti arresti e condannando l’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu, avendo omesso l’adozione di misure idonee a proteggere l’ambiente dalle emissioni inquinanti, identificando in questo caso la vita privata come “benessere” (bien-être) dei cittadini residenti nelle zone adiacenti lo stabilimento.

Secondo la Corte, «una doglianza difendibile dal punto di vista dell’articolo 8 può sorgere se un rischio ecologico raggiunge un livello di gravità che riduce notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio o della propria vita privata o famigliare. La valutazione di tale livello minimo in questo tipo di cause è relativa e dipende da tutti gli elementi della causa, in particolare dall’intensità e dalla durata delle nocività e dalle conseguenze fisiche o psicologiche di queste ultime sulla salute o sulla qualità di vita dell’interessato». E’ preciso dovere delle autorità nazionali di assicurare il giusto equilibrio «tra, da una parte, l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme». Equilibrio che va ricercato tra gli interessi facenti capo ai singoli, minacciati dall’attività inquinante, e quelli della società nel suo insieme. Ancora una volta la Corte effettua un bilanciamento in concreto tra i vari interessi coinvolti, ravvisando una violazione dell’articolo 8[48].

Il punto saliente della pronuncia, come è stato osservato in dottrina, è comunque quello di «avere dato dignità ad un’offesa alla salute misurabile in termini collettivi, valorizzando così il punto di forza degli studi epidemiologici (ossia la  capacità  di  individuare  relazioni  di  rischio  a  livello  di  popolazione), sdrammatizzandone al contempo i profili di debolezza, ossia l’incapacità di individuare relazioni causali individuali; l’avere messo in luce la rilevanza dei diritti fondamentali anche in un settore che troppo spesso viene considerato appannaggio esclusivo dei policy makers, e da questi ultimi deregolato (o non regolato) a favore degli operatori economici; l’avere, in ultimi analisi, richiamato lo Stato alla sua responsabilità nella definizione del modello di sviluppo che intende adottare, ed alla necessità di includere in tali valutazioni anche i diritti fondamentali dei singoli, e non soltanto (con miopia talvolta esemplare) l’interesse generale ad un’economia più prospera»[49].

Dalla giurisprudenza citata si desume che, secondo la Corte, occorre distinguere due ipotesi: se vi è “evidenza scientifica” che le tecnologie utilizzate nel ciclo produttivo sono nocive per la salute è violato l’art. 2 CEDU; se non vi è certezza scientifica ma solo “possibilità” si rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 8, laddove dal concreto esercizio dell’attività sia derivato un pregiudizio alla vita privata e familiare dei ricorrenti.

5. L’influenza “in concreto” della giurisprudenza consolidata della Corte EDU in materia di ambiente sulle pronunce dei giudici italiani

Si è visto nei paragrafi che precedono come la “consolidata” giurisprudenza della Corte EDU ravvisi un diritto “primordiale” del cittadino a vivere in un ambiente salubre, tramite l’utilizzo degli articoli 2 e 8 della convenzione. A livello domestico, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha fatto (pur non facendovi sempre esplicito riferimento) uso dei principi stabiliti dalla Corte di Strasburgo, affermando, nella sua suprema composizione[50], la risarcibilità del danno non patrimoniale ogni qual volta il pregiudizio patito dal danneggiato sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (ratificata in Italia con la L. n. 88/1955), purché sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 del codice civile.

In materia di ambiente, va rammentato come l’articolo 311 del D.Lgs. n. 152/2006[51] riserva al solo Stato, per il tramite del dicastero dell’ambiente, l’azione volta al risarcimento del danno ambientale “pubblico”, mentre l’art. 313, comma 7, secondo periodo, stabilisce che “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”[52].

Sotto tale profilo la Cassazione[53] ha stabilito che «in tema di danno ambientale, è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell’ambiente ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall’art. 2043 cod. civ. (in questo senso: Cass., Sez. 3, sentenza n. 34789 del 22/06/2011). In altre parole, il cittadino non si deve dolere del degrado dell’ambiente, ma deve far valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni». In altra occasione[54], ha precisato che «il danno ambientale non consiste soltanto in una compromissione dell’ambiente in violazione di leggi specifiche bensì pure, contestualmente ed inscindibilmente, in una “offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale”», confermando che la legittimazione a costituirsi parte civile non spetta solo ai soggetti pubblici, in nome dell’ambiente come interesse pubblico, ma «anche alla persona singola o associata, in nome dell’ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo e valore di rilevanza costituzionale (Cass. Pen., Sez. 3^, 19.11.1996, n. 9837, Locatela; idem, 23.11.1989, n. 16247, Castaldi)».

Tale impostazione dei giudici italiani, che riconosce quale diritto costituzionale assoluto quello di vivere in un ambiente sano quale diritto della personalità, diverso e scisso rispetto al diritto alla salute, appare coerente con i principi espressi dalla giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’Uomo, spingendo per tale verso la normativa nazionale, per via interpretativa, ad armonizzarsi con quella dei Paesi aderenti alla Convenzione.

Da ultimo, si segnala come un ulteriore profilo di “riavvicinamento” tra i vari Stati aderenti è inoltre rappresentato dall’adozione protocollo n. 16 alla CEDU, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013 (ed entrato in vigore il 1° agosto 2018 a seguito della ratifica da parte di più di dieci Stati contraenti), in virtù del quale “le più alte giurisdizioni, di un’alta parte contraente […], possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli”, secondo uno schema non dissimile da quello adottato in sede euro-unionale per il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia UE. Tale strumento dovrebbe in prospettiva limitare i giudizi di condanna della Corte nei confronti dei vari Stati contraenti.

6. La nuova frontiera della giurisdizione EDU: la tutela contro il “global warming”

Sembra in conclusione necessario dare conto anche di alcune prospettive evolutive della stessa “idea” di giurisdizione coltivata dalla Corte negli ultimi anni in materia di ambiente.

Ai sensi degli articoli 1, 19 e 34 della CEDU, il singolo Stato ha l’obbligo di “assicurare a tutti coloro che rientrano nella sua giurisdizione” i diritti sanciti dalla Convenzione. Da ciò sembrerebbe escludersi la possibilità che una pretesa sia azionabile dinanzi alla Corte avverso diversi Stati Contraenti.

Tuttavia, il mutato quadro internazionale e l’accresciuta sensibilità al tema degli sconvolgimenti climatici hanno operato una accelerazione improvvisa.

Un primo respiro di “aria nuova” si è avuto verso la fine del 2019, anche se su scala nazionale. Ci si riferisce al c.d. “Caso Urgenda”, giudicato dalla Corte di Cassazione olandese (Climate case Urgenda, proc. 19/00135, sentenza 20 novembre 2019), chiamata a confermare o riformare la sentenza della Corte di Appello con cui lo Stato era stato condannato a ridurre, entro la fine del 2020, le emissioni di gas serra provenienti dal suolo olandese di almeno il 25% rispetto al 1990.

La Corte olandese, con un approccio “rivoluzionario”, ha ritenuto che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), uno Stato contraente è obbligato dalle disposizioni della Convenzione (artt. 2 e 8) ad adottare misure adeguate quando esiste un rischio reale e immediato per la vita o il benessere delle persone e lo Stato è consapevole di tale rischio. L’obbligo di adottare misure adeguate si applica, e questo è uno degli snodi fondamentali della pronuncia, «anche quando si tratta di rischi ambientali che minacciano un gran numero di persone o la popolazione nel suo insieme, anche se i rischi si materializzeranno solo nel corso del lungo termine».

La Corte ricorda anche che i Paesi Bassi sono parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 (UNFCCC, nota anche come “Accordi di Rio”), il cui obiettivo è di mantenere la concentrazione di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire uno sconvolgimento del sistema climatico dovuta all’azione umana. La Convenzione si basa sulla premessa che tutti i Paesi membri devono adottare misure per prevenire il clima cambiamento, in conformità con le loro specifiche responsabilità e opzioni. Ogni paese è quindi responsabile pro quota.

Ciò significa, prosegue la Corte, che un Paese non può sfuggire alla propria parte della responsabilità in ordine alle misure da adottare sostenendo che, rispetto al resto del mondo, le sue proprie emissioni sono di portata relativamente limitata e che una loro riduzione comporterebbe uno scarso impatto su scala globale.

La Corte olandese conclude nel senso che «lo Stato è obbligato a conseguire la riduzione dei gas serra, a causa del rischio di pericolosi cambiamenti climatici che potrebbero avere un grave impatto sulla vita e il benessere dei residenti nei Paesi Bassi».

L’espresso riferimento alla Convenzione EDU, unitamente all’affermazione della potenziale responsabilità dello Stato verso un numero indeterminato di cittadini, ha gettato un sasso nello stagno la cui onda è arrivata fino a Strasburgo.

Ma prima di muoverci in avanti, occorre fare un passo indietro.

Già nella sentenza Güzelyurtlu et al. c/ Cypro e Turchia (GC, ricorso n. 36925/07), resa in tema di criminalità transfrontaliera, la Corte ha sottolineato il «carattere speciale della Convenzione, come un Trattato per l’applicazione collettiva dei diritti umani e delle libertà fondamentali», precisando che questo carattere speciale «può, in alcune circostanze, implicare un dovere per gli Stati contraenti di agire congiuntamente e di cooperare al fine di proteggere i diritti e le libertà che si sono impegnati a garantire nell’ambito della loro giurisdizione»[55].

Su questa sottile linea, resa meno esile dal caso Urgenda, si muove la causa Duarte Agostinho et al c/ Portogallo + 32, in cui i ricorrenti (sei giovani portoghesi) denunciano che 33 Stati firmatari del Trattato di Parigi del 2015 (tra cui l’Italia), il cui preambolo stabilisce tra i “considerando” che “le parti dovrebbero, quando agiscono per affrontare i cambiamenti climatici, rispettare, promuovere e considerare i rispettivi obblighi in materia di diritti umani, diritto alla salute, diritti delle popolazioni indigene, comunità locali, migranti, bambini, ecc.”, sarebbero venuti meno al loro obbligo di limitare il cambiamento climatico tramite la riduzione delle emissioni di gas serra (greenhouse gas emissions), in modo da riportare le emissioni al periodo pre-rivoluzione industriale, così violando gli articoli 2, 8 e 14 della CEDU. La causa è attualmente all’esame della Grande Camera.

Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, intervenuto quale terzo interessato, nel premettere che grazie alla giurisprudenza della Corte sugli articoli 2 e 8 della Convenzione, quest’ultima già ricomprende in larga parte il diritto ad un ambiente salubre, sottolinea che la Convenzione è uno «strumento vivo», le cui disposizioni devono essere interpretate e applicate in modo da rendere pratiche ed efficaci le sue salvaguardie, per poi concludere che:

– il degrado ambientale, e in particolare il cambiamento climatico, possono pregiudicare il diritto alla vita, il diritto alla vita privata e familiare, la libertà da trattamenti inumani o degradanti e il divieto di discriminazione. Il cambiamento climatico ha anche un impatto significativo su una varietà di aspetti sociali ed economici e diritti culturali;

– l’impatto negativo sempre più evidente del cambiamento climatico sui diritti umani pone quale onere speciale sugli stati di adottare misure preventive concrete, piuttosto che seguire un approccio frammentario che si limita a reagire ai reclami individuali;

– l’accordo di Parigi e altri strumenti chiave del diritto ambientale internazionale dovrebbero essere considerati come parametri di riferimento per valutare la performance degli Stati nell’adempimento dei propri obblighi in materia di diritti umani;

– la natura straordinaria del cambiamento climatico e le conseguenti sfide per i diritti umani creano la necessità di adeguare la tutela offerta dalla Convenzione: un’interpretazione rigorosa e formalistica dei requisiti di accesso quando sono in gioco violazioni umane causate dai cambiamenti climatici, in particolare quando si tratta di bambini, avrebbe l’effetto indesiderato di privarli ogni ragionevole prospettiva di cercare e ottenere un risarcimento per le violazioni dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali enunciate nella Convenzione.

Nel senso dell’intento, anche da parte della Corte, di garantire una tutela effettiva senza arroccarsi su posizioni formalistiche, sembrano potersi leggere le dichiarazioni rese il 5 ottobre 2020 (nell’ambito di una conferenza tenutasi nel corso delle celebrazioni del 70° anniversario della Convenzione) dall’attuale Presidente della Corte, il giudice irlandese Robert Spanó, secondo cui «viviamo in un momento trasformativo della storia umana, un momento di impatto e importanza planetaria. Nessuno può legittimamente mettere in discussione che siamo di fronte a una terribile emergenza che richiede un’azione concertata da parte di tutta l’umanità. Da parte sua, la Corte europea dei diritti dell’uomo svolgerà il suo ruolo entro i limiti delle sue competenze di tribunale, sempre consapevole che le garanzie della Convenzione devono essere efficaci e reali, non illusorie»[56].

Il tempo ci dirà il ruolo che la Corte EDU vorrà e potrà ritagliarsi nella lotta al surriscaldamento globale, imboccando la strada di un case law “di seconda generazione”, o “globalista”.

E’ stato in dottrina sottolineato che la Corte potrebbe non essere felice del ruolo che le si vuole attribuire, avendo più volte sottolineato che nel settore dei rischi ambientali, non spetta alla Corte contraddire le scelte politiche nella “difficile sfera sociale e tecnica” del diritto ambientale, svolgendo la Corte una “funzione primaria” di vigilanza[57]. E, tuttavia, una circostanza sembra deporre in senso contrario: quando la Corte ha comunicato ufficialmente la causa (30 novembre 2020), ha chiesto alle parti di commentare non solo le presunte violazioni degli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione, ma, in base al principio jura novit curia, ha invocato anche l’articolo 3, ossia il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti[58].

In tale prospettiva, la giurisprudenza EDU sul “senso di paura e ansia” (sviluppato soprattutto in tema di “non refoulement”) potrebbe svolgere un ruolo rilevante. A tal fine, i ricorrenti hanno allegato «il timore di catastrofi naturali come gli incendi boschivi, nonché la prospettiva di vivere per tutta la vita in un clima sempre più caldo. La Corte ha già rilevato, sebbene in circostanze molto diverse, che uno stato permanente di ansia e incertezza sul proprio futuro può violare l’articolo 3, così come un senso o un sentimento di vulnerabilità»[59].

Proprio il tema della “vulnerabilità” è importante da considerare in questo contesto, in quanto esso è frequentemente utilizzato dalla Corte per interpretare efficacemente i diritti in concreto. «Invocare la vulnerabilità di un ricorrente, sia come individuo che come membro di un particolare gruppo, consente una valutazione più sensibile al contesto dei fattori che modellano la sua esperienza o situazione»[60].

Si può definire “persona vulnerabile”, in via approssimativa, un soggetto che possieda congiuntamente tre caratteristiche soggettive: «1) una persona sia esposta al rischio di subire un danno; 2) manchino in quel soggetto resilienza e risorse per evitare il verificarsi del danno; 3) manchino, infine, le risorse per rispondere al danno qualora questo venga a concretizzarsi»[61].

Per quanto riguarda in particolare la “vulnerabilità ambientale”, la dottrina[62] mette in risalto da un lato lo studio della conformazione geofisica, diretto a prevedere e mitigare gli effetti degli eventi catastrofici e, dall’altro, in un’ottica biocentrica, «la relazione di dominazione distruttiva posta in essere dall’uomo nei confronti dell’ambiente»: in altre parole, l’atteggiamento “predatorio” dell’uomo nei confronti del pianeta.

Non vi è dubbio, astrattamente ragionando, che soprattutto i giovani delle nuove generazioni possano considerarsi “soggetti vulnerabili dal punto di vista ambientale”, in quanto sono esposti agli effetti nefasti della “dominazione distruttiva” dell’uomo nei confronti dell’ambiente, non hanno capacità di resilienza nei confronti degli sconvolgimenti climatici né le risorse per porvi rimedio.

In tal senso, spazi di manovra per una giurisprudenza di “nuovo corso” della Corte EDU sembrano potersi profilare all’orizzonte.

7. Conclusioni

Volendo tirare le fila di quanto visto nei paragrafi che precedono, si possono riassumere i seguenti punti salienti.

In primo luogo, le norme della Convenzione EDU hanno il valore di norme interposte “sub-costituzionali”, prevalenti rispetto alla legge ordinaria e costituzionale ma soggette, comunque, alla verifica del rispetto dei principi generali della costituzione.

Le norme della Convenzione, poi, vanno lette e applicate secondo quella che ne è l’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo; in tal senso, le pronunce della Corte oltre ad assumere valore di “cosa giudicata” nel caso concreto, hanno valore di “cosa interpretata”, valida erga omnes. La portata di precedente vincolante per i “giudici comuni” è tuttavia limitata, secondo quanto affermato a più riprese dalla Corte Costituzionale, alla “giurisprudenza consolidata” della Corte.

La Corte EDU ha ripetutamente affermato che il diritto ad un “ambiente salubre”, pur se non espressamente contemplato dalla Convenzione EDU, può ricavarsi dalla sfera di tutela di altri diritti individuali riconosciuti dalla Convenzione stessa; ritiene in particolare che esso possa essere tutelato dall’articolo 2, se da fenomeni di inquinamento o dall’esercizio di attività pericolose, o addirittura da eventi climatici avversi, viene leso il diritto alla vita e alla salute del cittadino; ovvero dall’art. 8, quando, indipendentemente dalla lesione ai beni predetti, tali eventi limitano o impediscono il diritto ad una serena vita privata e familiare.

Tali approdi possono ormai considerarsi “giurisprudenza consolidata” della Corte EDU, vincolante per i giudici comuni.

Questi sono gli approdi della giurisprudenza “di prima generazione” della Corte EDU. Essa, tuttavia, è stata investita anche in ordine alla responsabilità degli Stati contraenti in ordine alla lotta contro il riscaldamento globale, aprendosi così la strada verso una giurisprudenza della Corte EDU “di seconda generazione” in ordine alla tutela dell’ambiente.

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Galanti

Note:

[1] Bosselmann, Un approccio ecologico ai diritti umani, in Greco (a cura di): “Diritti umani e ambiente”, ECP, 2000.

[2]Anchoring the right to a healthy environment: need for enhanced action by the Council of Europe”.

[3]Environmental pollution, loss of biodiversity and the climate crisis are making the people and the planet sick, leading to premature deaths in the current generation and stealing viable living space from future generations”.

[4] Per un primo commento ai contenuti della legge si veda M. Ferrari, Tutela dell’ambiente e degli animali nella Costituzione: la riforma è legge, pubblicato on line sul sito www.altalex.com il 9 febbraio 2022.

[5] V. ad esempio le sentenze nn. 210 del 28 maggio 1987, 641 del 30 dicembre 1987, 226 del 19 giugno 2003.

[6] Sul punto v. D. Scalia, The European Court of Human Rights and Environmental Crime, consultabile sul sito www.efface.eu, gennaio 2015, p. 6 (la traduzione è di chi scrive).

[7] V. D. Scalia, ibidem (la traduzione è di chi scrive).

[8] P. Fimiani, Inquinamento ambientale e diritti umani, su Questione Giustizia, 24 gennaio 2019.

[9] Sottolinea infatti M. Lo Verso (L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa propone l’adozione di un protocollo addizionale alla CEDU sul diritto ad un ambiente “safe, clean, healthy and sustainable”, in www.masterdirittiumanisapienza.it, 12 ottobre 2021) che la CEDU «contempla solo i cosiddetti “diritti di prima generazione”, secondo la classificazione proposta da Norberto Bobbio, ossia i diritti civili e politici», contrapposti a quelli che vengono definiti i “new generation human right”, quale appunto il diritto ad un ambiente salubre.

[10] articolo 1: «For the purposes of this Additional Protocol, the “right to a safe, clean, healthy and sustainable environment”, means the right of present and future generations to live in a non-degraded, viable and decent environment that is conducive to their health, development and well-being»; articolo 3: «Everyone has the right to a safe, clean, healthy and sustainable environment».

[11] F. Vollero, Il diritto ad un ambiente salubre nell’elaborazione della giurisprudenza di Strasburgo, pubblicato on line sul sito www.diritto.it, 2017.

[12] E. Mazzanti, La protezione penale dell’ambiente come diritto umano. inquadramento e rilievi critici, che cita Delmas, Marty, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, a cura di F. Palazzo, trad. it. A. Bernardi, Milano 1992, 94.

[13] V. Manca, La tutela delle vittime da reato ambientale nel sistema Cedu: il caso Ilva, Riflessioni sulla teoria degli obblighi convenzionali di tutela, su Rivista DPC n. 1/2018, 260.

[14] Così V. Esposito, Danno ambientale e diritti umani, in Diritto Penale Contemporaneo, 12 novembre 2012, 4.

[15] Di particolare rilievo ai fini che qui interessano sono l’articolo 1 (“L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’uguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere. Egli ha il dovere solenne di proteggere e migliorare l’ambiente a favore delle generazioni presenti e future”) e 13 (“Al fine di razionalizzare l’amministrazione delle risorse e di migliorare l’ambiente, gli Stati dovrebbero adottare un concezione integrata e sviluppata delle loro pianificazioni dello sviluppo in modo tale che il loro progresso sia compatibile con la necessità di proteggere e di migliorare l’ambiente, negli interessi della loro popolazione”).

[16] La traduzione è di chi scrive, N.D.R.

[17] S. Novelli, Fonti nel diritto nazionale ed europeo a confronto nel dialogo tra le corti supreme, pubblicato on line sul sito www.ilnuovodirittoamministrativo.it, parla in proposito di «rinvio mobile ad una fonte».

[18] Corte Costituzionale, sentenza n. 80/2011.

[19] Corte Cost., sentenza ult. cit..

[20] G. Leo, C. Cost., 11 marzo 2011, n. 80 (Sent.), Pres. De siervo, Rel. Frigo (pubblicità  del procedimento di prevenzione ed attuale efficacia della CEDU nell’ordinamento italiano), pubblicato on line sul sito www.penalecontemporaneo,it, 12 marzo 2011.

[21] Corte Cost., sent. n. 80/2011, cit..

[22] S. Novelli, Fonti nel diritto nazionale ed europeo a confronto nel dialogo tra le corti supreme, cit..

[23] Il corsivo è di chi scrive, N.D.R..

[24] Civivini, cit.

[25] La Corte ha comunque confermato l’«impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far derivare la riferibilità all’ECHR dell’art. 11 della Costituzione dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come “principi generali” del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione)».

[26] M. G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, pubblicato su Questione Giustizia n. 4/2018

[27] di M. G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit..

[28] Scalia, cit., 24 (la traduzione è di chi scrive).

[29] “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

[30] Ricorso n. 9310/81, Frederick William Baggs vs United Kingdom, Decisione del 16 ottobre 1985.

[31] “Non   può   esservi   ingerenza   di   una   autorità   pubblica   nell’esercizio  di  tale  diritto  a  meno  che  tale  ingerenza  sia  prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica,   è   necessaria   alla   sicurezza   nazionale,   alla   pubblica  sicurezza,  al  benessere  economico  del  paese,  alla  difesa  dell’ordine  e  alla  prevenzione  dei  reati,  alla  protezione  della  salute  o  della  morale,  o  alla  protezione  dei  diritti  e  delle  libertà altrui”.

[32] Si è in proposito rilevato in dottrina (Vollero, ibidem, 2) come nella prospettiva della Corte «il valore ambientale abbia un’intersettorialità tale da non consentire soluzioni delle problematiche in termini di diritti assoluti, ma di coordinamento tra valori, dovendo tener conto di volta in volta della proporzionalità e non arbitrarietà delle reciproche limitazioni».

[33] E’ stato sottolineato in dottrina (V. Esposito, Danno ambientale e diritti umani, pubblicato sulla Rivista DPC, 2012, pag. 6) come per la prima volta, «nelle distinte opinioni sulla motivazione della sentenza, i giudici Walsh, Jambrek e Thor Vilhjalmasson, pur concordando sulla soluzione adottata, ritennero che i fatti accertati potessero avere rilevanza anche nel quadro della protezione della vita, garantita dall’articolo 2 della Convenzione», aprendo così la strada (come si vedrà nel prossimo paragrafo), alla possibilità di contestare violazioni a tale ulteriore articolo della Convenzione».

[34] Application n. 36022/97, Sentenza della Grande Camera dell’8 luglio 2003.

[35] Non può tuttavia non evidenziarsi il “duro parere dissenziente” con cui «i giudici Costa, Ress, Zupancic Turmen e Steiner anticiparono l’inevitabile evoluzione giurisprudenziale, sottolineando come “lo stretto legame tra la protezione dei diritti umani e la necessità urgente di decontaminare l’ambiente, ci deve indurre a considerare la salute come il bisogno umano più fondamentale ed a considerarla su tutti i diritti preminente”» (così Esposito, op. cit., 6).

[36] Application n. 41666/98, Sentenza del 22 maggio 2003.

[37] Da sottolineare l’accorto parere dissenziente del giudice italiano Zagrebelsky, secondo cui «non c’è dubbio che l’ambiente non è protetto in quanto tale dalla Convenzione. Ma allo stesso tempo non c’è dubbio che un degrado dell’ambiente possa costituire una violazione di un diritto specifico riconosciuto dalla Convenzione (Powell e Rayner c. Regno Unito, López Ostra c. Spagna, Guerra c. Italia). Un tale approccio sarebbe perfettamente in linea con l’interpretazione dinamica e l’evolutivo aggiornamento della Convenzione che la Corte adotta attualmente in molti campi».

[38] Nella successiva sentenza Di Sarno (Corte EDU 10 gennaio 2012, di Sarno e a v. Italia, in caso n. 30765/08), relativa all’emergenza dei rifiuti campana, la Corte (nel premettere che la Convenzione «non garantisce una specifica protezione dell’ambiente in quanto tale») ha ritenuto che le autorità nazionali per un lungo periodo di tempo si fossero dimostrate incapaci di assicurare il corretto funzionamento del sistema di raccolta, gestione e smaltimento dei rifiuti, «violando conseguentemente il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e della loro abitazione» (così C. Feliziani, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia e della corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 06, 2).

[39] Ricorso n. 30499/03, sentenza 10 febbraio 2011.

[40] La valutazione di tale livello minimo è relativa e dipende da tutte le circostanze del caso, come «l’intensità e la durata del disturbo e i suoi effetti fisici o psichici sulla salute o sulla qualità della vita dell’individuo».

[41] “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena”.

[42] Sul punto v. Manca, La tutela delle vittime da reato ambientale nel sistema Cedu: il caso Ilva, Riflessioni sulla teoria degli obblighi convenzionali di tutela, cit., 266.

[43] Così D. Vozza, Obblighi di tutela penale del diritto alla vita ed accertamento del nesso causale. Riflessioni a margine della decisione della Corte europea dei diritti umani sul caso “Smaltini c. Italia”, in Rivista DPC n. 2/2016, 41 ss.. 47.

[44] Manca, cit., 260.

[45] In quel caso la Corte ha ravvisato la violazione dell’art. 2 in riferimento al decesso di un ricorrente per mesotelioma pleurico, e dell’art. 8 in riferimento ai ricorrenti che, pur avendo subito un pregiudizio apprezzabile della propria integrità psico-fisica, non avevano corso un serio rischio di morte.

[46] Tuttavia, la dottrina rileva che mentre il concetto di “vita” di cui all’art. 2 è piuttosto chiaro, l’ambito di applicazione dell’art. 8 «risulta assai meno cristallino, essendo affidato ai più vaghi concetti di “benessere” e “qualità della vita”, a loro volta definiti dalla Corte attraverso il richiamo ad un catalogo aperto altri interessi – quali la salute, la tranquillità personale, il godimento dell’abitazione e delle attività famigliari, ecc. – suscettibili di essere compromessi ogni qualvolta l’uomo si trovi a condurre la propria esistenza all’interno di un ambiente contaminato» (così S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva. Nota a C. Eur. Dir. Uomo, sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri c. Italia, pubblicata on line su Rivista DPC, n. 3/2019, 150).

[47] Per una più completa disamina dei contenuti della sentenza si rimanda a Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, cit..

[48] In ordine ai rapporti tra l’articolo 2 e l’articolo 8 della Convenzione EDU, la Corte ha di fatto ritenuto sussistere un rapporto di “sussidiarietà” tra le due norme, ritenendo che vi sia violazione dell’articolo 2 in caso di morte o gravi lesioni all’integrità psico-fisica connesse all’esposizione a fattori di rischio dimostrate, dell’articolo 8 negli altri casi, purché si tratti di lesioni di trascurabile importanza, con l’ulteriore precisazione che in questo caso non è necessaria la prova del danno per ogni singolo individuo, essendo sufficiente una prova “di corte” relativa alla popolazione esposta.

[49] Zirulia, cit., 145.

[50] Sezioni Unite Civili, Sentenza 11/11/2008, n. 26972.

[51] “Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale”.

[52] Per un più approfondito esame della tematica si rinvia a quanto già scritto in “La tutela penale in sede civile” (AA.VV., a cura di A. Galanti), Wolters Kluwer, 2022, pag. 230 ss.

[53] Sez. III, Pen., sentenza n. 20 gennaio 2020, n. 1997.

[54] Cass. pen., sez. III, 03/11/2006, n. 36514, in proc. Censi.

[55] La traduzione è di chi scrive, N.D.R.. Per un commento alla sentenza si rinvia a D. Sartori, Güzelyurtlu and others v. Cyprus and Turkey: the duty to cooperate under Article 2 ECHR, pubblicato on line sul sito www.internationallaw.blog, 15 aprile 2019. Circa la potenzialità della pronuncia di espandere l’obbligo di cooperazione tra Paesi in Guerra Fredda, v. N. Hadjigeorgiou, Güzelyurtlu and Others v. Cyprus and Turkey: An Important Legal Development or a Step Too Far?, pubblicato on line sul sito www.crossroads.ideasoneurope.eu, 27 novembre 2019 («Güzelyurtlu breaks new legal ground by expanding the obligation to cooperate in contexts of frozen conflicts»).

[56] La dichiarazione è riportata nell’intervento del giudice della CEDU Tim Eicke “Human Rights and Climate Change: What role for the European Court of Human Rights”, Inaugural Annual Human Rights Lecture, Department of Law, Goldsmiths University, 2 marzo 2021.

[57] O. W. Pedersen, The European Convention of Human Rights and Climate Change – Finally!, pubblicato on line sul sito www.ejiltalk.org, 22 settembre 2020.

[58] C. Heri, The ECtHR’s Pending Climate Change Case: What’s Ill-Treatment Got To Do With It?, pubblicato on line sul sito , 22 dicembre 2020.

[59] C. Heri, cit..

[60] C. Heri, cit..

[61] V. Lorubbio, Soggetti vulnerabili e diritti fondamentali: l’esigenza di un portale della giurisprudenza CEDU, pubblicato on line sul sito www.rivistafamilia.it, 10 Marzo 2020, che cita J. Herring, Vulnerability, Childhood and the Law, (cap. II, What is Vulnerability), Springer, Oxford, 2018, pp. 9-10

[62] A. De Giuli, Sul concetto di “vulnerabilità” secondo la Corte di Giustizia UE – La “vulnerabilità”, e la sua polisemia, in ambito sociale, economico ed ambientale nelle decisioni della CGUE, pubblicato on line sul sito www. https://dirittopenaleuomo.org, 21 ottobre 2020, che cita M. Esparza Flores, M.A. Díaz Barragán, Vulnerabilidad ambiental y región: algunos elementos para la reflexión, in Observatorio del desarrollo. Investigación, reflexión y análisis, vol. II, 6, 2013, pp. 26 ss.. Al contributo si rinvia anche per un’ampia casistica della giurisprudenza della Corte.

 

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