La Corte Europea dei Diritti Umani si pronuncia sul cambiamento climatico

01 Giu 2024 | articoli, contributi

All’epoca in cui è stata adottata la Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; conosciuta come Convenzione europea dei diritti umani) le preoccupazioni ambientali non costituivano un tema prioritario. Questo spiega perché la Convenzione non contenga alcuna norma relativa al diritto umano all’ambiente (e nemmeno i suoi successivi protocolli la contengono).

Ciononostante, la Corte Europea dei Diritti Umani in diverse sue sentenze, a partire da quella del 9 dicembre 1994 sul caso López Ostra c. Spagna, ha indirettamente tutelato il diritto umano all’ambiente, facendo propria un’interpretazione estensiva di due disposizioni della Convenzione: l’art. 8, relativo al rispetto della vita privata e familiare (“everyone has the right to respect for his private and family life, his home and his correspondence”), e l’art. 2, par. 1, relativo al diritto alla vita (“everyone’s right to life shall be protected by law”). Per quanto l’ambiente non sia affatto menzionato nelle due disposizioni, la Corte ha costantemente deciso che esse implicano anche un obbligo dello Stato di prevenire o reprimere forme d’inquinamento o di rischio d’inquinamento che incidano negativamente sulla salute, sul benessere o sulla qualità della vita degli individui.

Di recente, con la sentenza del 9 aprile 2024 sul caso KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, la Corte ha avuto modo di pronunziarsi per la prima volta in relazione alla più grave emergenza ambientale odierna, giungendo alla conclusione che la Svizzera non ha adempiuto agli obblighi derivanti in proposito dall’art. 8 della Convenzione.

Il ricorso era presentato da quattro anziane signore, che sostenevano che il cambiamento climatico e le conseguenti ondate di caldo verificatesi nelle località di residenza pregiudicavano il loro diritto alla vita privata. La domanda era sostenuta e condivisa da un’organizzazione non governativa svizzera. Nel decidere la questione, la Corte ha sviluppato un esteso e articolato processo logico, che sarà qui di seguito riassunto alla luce di quelli che sembrano i punti più importanti, e che si è basata su di un accurato esame della pratica internazionale e nazionale rilevante.

La Corte si dichiara consapevole che la questione portata in giudizio, fermo restando che gli obblighi della Convenzione sono dovuti dagli Stati parti a individui viventi e non a quelli futuri, coinvolge il tema dell’equità intergenerazionale. Infatti, le generazioni future, pur non partecipando alle decisioni che oggi sono prese, dovranno subire le conseguenze delle mancanze e degli errori commessi dalle generazioni presenti nella lotta al cambiamento climatico (par. 420 della sentenza).

Sulla base di un imponente insieme di dati scientifici, in particolare quelli risultanti dai rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, Gruppo di Esperti Intergovernativo sul Cambiamento Climatico), la Corte dà per provato che, a causa del fenomeno antropogenico del cambiamento climatico, il rischio di conseguenze gravi e irreversibili su equilibri naturali fondamentali si avrà se l’aumento delle temperature non sarà limitato a 1,5° C al di sopra del livello dell’epoca preindustriale (par. 436), ossia il livello del periodo di riferimento 1850-1900, il primo durante il quale sono avvenute misurazioni di temperatura complete e omogenee.

Ritenendo che il concorso di tutti gli Stati nel determinare il fenomeno del cambiamento climatico non esoneri un singolo Stato dalla propria responsabilità (par. 442), la Corte affronta il problema della legittimazione attiva. In proposito, la Corte rileva che, non ammettendo la convenzione un’actio popularis con la quale un individuo faccia valere un danno generale all’ambiente (par. da 460 a 463), occorre che un ricorrente sia vittima di una violazione diretta, indiretta o potenziale di un diritto riconosciuto dalla convenzione e che questa violazione determini un danno grave o durevole con lui sufficientemente collegato (par. 472).

Pur essendoci prove scientifiche persuasive che il riscaldamento atmosferico contribuisca all’aumento della morbilità e mortalità in gruppi particolarmente vulnerabili (par. 478), la Corte nota come l’insieme delle persone pregiudicate dal fenomeno in vario modo e a diversi livelli sia indefinito, non potendo venire limitato a specifici individui ed estendendosi in modo ampio a tutta la popolazione (par. 479). Consentire un accesso generalizzato alla giustizia equivarrebbe, secondo la Corte, ad alterare il principio costituzionale di separazione tra il potere giudiziario e il potere legislativo, in quanto lo strumento giudiziario sarebbe utilizzato per promuovere cambiamenti nelle politiche generali (par. 483 e 484). Ne risulta che, per avere la qualifica giuridica di vittima di una violazione della Convenzione, il ricorrente deve dimostrare che è personalmente e direttamente esposto al rischio elevato di subire danni dal cambiamento climatico e che mancano misure ragionevoli da parte dello Stato per ridurre tali danni (par. 487). La soglia per soddisfare tali condizioni è particolarmente alta e richiede una valutazione discrezionale da parte della Corte di una serie di fattori, quali le condizioni prevalenti in un determinato luogo e le specificità e vulnerabilità di singoli individui (par. 488).

Nel caso specifico, ai fini dell’art. 8 della Convenzione, la Corte ritiene che non vi sia un livello di sufficiente gravità nell’interferenza del pregiudizio ambientale sulla vita privata delle ricorrenti, tenuto anche conto delle caratteristiche proprie della vita in ogni moderna città (par. 517). Pur appartenendo a un gruppo particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico (le donne anziane), le ricorrenti non avevano dimostrato, nei loro singoli casi, l’esistenza del livello di gravità richiesto. In particolare, esse non avevano provato che le ondate di caldo cui erano state esposte o lo sarebbero state in futuro fossero di una tale intensità da richiedere una protezione individuale (par. 533). Mancava, pertanto, la legittimazione attiva delle ricorrenti.

Diversa è la conclusione della Corte a proposito della legittimazione ad agire delle associazioni non governative. Esistono casi speciali in cui un’associazione può rappresentare più individui, anche in assenza di una misura da parte dello Stato che leda direttamente tale associazione (par. 475). Il cambiamento climatico è il più importante di questi casi speciali, coinvolgendo questioni che si rivelano particolarmente complesse e che si estendono a tutto il genere umano e a più generazioni (par. 489; cfr. anche par. 497).

Al fine di chiarire il ruolo delle associazioni di protezione dell’ambiente, la Corte si basa su dati relativi alla situazione europea, quali i diritti ad esse riconosciuti dalla Convenzione di Århus del 1998 sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica alla presa di decisione e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (par. 491, 492 e 494) e il fatto che il diritto di agire in giudizio delle associazioni sia riconosciuto nell’ordinamento e nella pratica di diversi Stati membri dell’Unione europea (par. 493). La conclusione cui la Corte perviene è che sia appropriato riconoscere il diritto delle associazioni a ricorrere in giudizio per tutelare i diritti umani degli individui che potrebbero essere pregiudicati dagli effetti negativi del cambiamento climatico (par. 499). Tuttavia, per poter presentare un ricorso contro uno Stato parte che abbia omesso di prendere misure adeguate a proteggere gli individui da tali effetti, un’associazione deve soddisfare alcune condizioni, quali la legittima costituzione in uno Stato parte, l’obiettivo statutario di difesa dei diritti umani e la genuina capacità di rappresentare gli individui membri o altri individui sottoposti a tali effetti (par. 502). Nel caso specifico, la Corte ritiene che l’associazione ricorrente possa soddisfare le condizioni indicate (par. da 521 a 526).

Risolta la questione della legittimazione attiva, la Corte pone in evidenza l’obbligo degli Stati parti alla Convenzione di adottare le misure legislative e amministrative effettivamente utili a proteggere i diritti umani alla vita e alla salute. In proposito, pur godendo gli Stati parti di un ampio margine di apprezzamento, la Corte può sindacare se essi abbiano agito con la dovuta diligenza e con adeguata considerazione di tutti gli interessi in gioco (par. 538). L’obbligo primario degli Stati parti è, secondo la Corte, quello di adottare e applicare in modo effettivo e tempestivo le norme e le misure atte a mitigare gli effetti gravi e potenzialmente irreversibili del cambiamento climatico e, in particolare, le misure previste a livello internazionale (par. 545), con particolare riguardo alla Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (New York, 1992) e all’Accordo di Parigi, concluso nel 2015 nel quadro della convenzione stessa. Data l’urgenza della situazione, il margine di apprezzamento degli Stati parti risulta necessariamente ristretto per quanto riguarda gli obbiettivi, mentre si rivela più ampio in riferimento agli strumenti utili per raggiungere gli obbiettivi stessi (par. 549).

Significativo è che la Corte ritenga opportuno specificare in dettaglio quali siano gli obblighi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra che gli Stati devono adempiere e che essa si propone di sindacare (par. 550). Inoltre, la Corte precisa che, in conformità agli sviluppi avuti con l’Accordo di Parigi, le misure di adattamento si devono accompagnare a quelle di mitigazione (par. 552). Gli Stati parti devono anche mettere a disposizione degli individui, in particolare di coloro che possono essere pregiudicati dal cambiamento climatico, adeguate informazioni e strumenti procedurali perché i loro interessi siano tenuti in considerazione (par. 554).

Nel caso specifico, dopo un attento esame dei dati di fatto (par. da 558 a 572), la Corte giunge alla conclusione che la Svizzera non aveva adempiuto agli obblighi derivanti dall’art. 8 della Convenzione, sia non rispettando in passato gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, sia omettendo di stabilire nuovi limiti a tali emissioni (par. 573).

Come si vede, la Corte, non esitando a svolgere un suo ruolo rispetto al più grave rischio ambientale oggi esistente, ha sindacato l’adeguatezza delle misure per far fronte al cambiamento climatico prese da uno Stato parte alla Convenzione e ha stabilito vari criteri utili a svolgere una simile valutazione in casi che in futuro, come è facile prevedere, coinvolgeranno anche altri Stati parti. Le posizioni prese dalla Corte potranno essere utilizzate anche da coloro che fanno valere violazioni degli art. 2 e 8 della Convenzione di fronte a giudici nazionali. Va, tuttavia, detto che la Corte non ha riconosciuto agli individui un’indiscriminata legittimazione attiva, dimostrando un’implicita preferenza per i ricorsi presentati da associazioni non governative di protezione dell’ambiente. Tanto è vero che, in due altri casi decisi lo stesso 9 aprile 2024, la Corte ha seguito una concezione restrittiva della legittimazione attiva, concludendo che il ricorrente non era legittimato ad agire come vittima di un’eventuale violazione degli articoli 2 e 8 della Convenzione (caso Carême c. Francia) e che i ricorrenti (sei cittadini portoghesi, tra cui alcuni minorenni) non avevano adempiuto all’obbligo di previo esaurimento delle vie di ricorso interne (caso Duarte e altri c. Portogallo e 32 altri Stati).

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