Il Piano di adattamento e la scienza

02 Mag 2024 | articoli, contributi, in evidenza 1

Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici è stato approvato dopo sei anni e quattro governi a fine 2023, consta di un documento di sintesi di 106 pagine seguito da 4 appendici: due di natura giuridica e amministrativa (2023), uno di approfondimento scientifico degli impatti e vulnerabilità (2018), e un Excel finale in cui vengono elencate 361 misure, molte delle quali “soft” e al momento senza portafoglio.

A parte l’aspetto e il linguaggio respingente da tesi di laurea, con pagine in cui le note superano il testo, il confronto con i Piani di adattamento di altri paesi quali Francia, Spagna e Germania mette in luce differenze importanti[1]: laddove gli altri hanno iniziato a metà del primo decennio del Duemila e a questo punto hanno pubblicato una nuova edizione del Piano che fa tesoro di diversi cicli di monitoraggio e un collaudo più che decennale, quello italiano è al suo inizio, e si limita a un’analisi degli impatti e vulnerabilità e ad abbozzare la metodologia di quella che sarà nei prossimi anni la messa in campo di una pianificazione a livello regionale e locale ancora da costruire e coordinare a livello centrale.

Venendo alla scienza, il Piano italiano finalmente approvato dedica uno spazio rilevante  (le prime ottanta pagine del documento) all’analisi degli scenari climatici e alla caratterizzazione dei rischi. Rispetto alla versione del 2018, per esempio, dove veniva usato un solo modello, nella versione finale si è deciso di utilizzare un insieme di modelli climatici regionali disponibili in letteratura alla risoluzione di 12 km, sotto 3 diversi scenari emissivi (“alte emissioni” RCP8.5; “scenario intermedio” RCP4.5 e “mitigazione aggressiva” RCP 2.6), così da ottenere simulazioni dei possibili cambiamenti e impatti nelle cinque partizioni territoriali del Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole.

I principali impatti e vulnerabilità da qui a fine secolo vengono caratterizzati nei diversi settori: acqua, criosfera, mari, biodiversità, foreste, agricoltura, pesca, economia, turismo, salute,  città, energia, trasporti, beni culturali e altro ancora. Come analizzato nei contributi a seguire, nonostante la buona qualità scientifica dell’analisi, per molti di questi ambiti non mancano lacune e dimenticanze anche importanti[2]. La dimensione dell’incertezza, cruciale in questi modelli, viene citata ma poco spiegata. E in generale il tono del documento è di tipo accademico e decisamente ostico anche per uno strato acculturato della popolazione[3]. Al contrario di piani come quello francese e spagnolo, chiaramente concepiti, scritti e impaginati per un pubblico generale, mancano o sono assai deboli i richiami alle disuguaglianze sociali e di genere, a una prospettiva di giustizia climatica e di pace (come sottolineato in particolare del piano spagnolo), alla dimensione transdisciplinare alla base dei processi di adattamento e una adeguata valorizzazione delle conoscenze e competenze locali che possono utilmente integrare quelle strettamente scientifiche in un dominio come quello dell’adattamento, per sua natura locale.

Per alcuni ambiti – come quello relativo al dissesto geo-idrologico (frane, alluvioni, erosioni costiere), valgono le considerazioni del contributo specifico a cui rimandiamo, in cui si rileva la vaghezza delle misure di riduzione dell’esposizione e vulnerabilità, concentrate soprattutto sulle azioni di monitoraggio, allerta ed educazione della popolazione. Ma non su quelle di delocalizzazione di edifici posti nelle aree più a rischio, e su politiche più stringenti di governo del territorio, e altre misure praticate altrove dove vi è ormai un ampio consenso tecnico-scientifico. 

Infine, la parte su comunicazione, educazione e partecipazione – davvero cruciale per una matura cittadinanza scientifica sull’adattamento climatico – non è compiutamente elaborata, come descritto nel contributo specifico che pubblichiamo, e debole soprattutto nei meccanismi di partecipazione (demandati a un forum) «che si riducono a mera cassa di risonanza e non a gruppi di lavori territoriali di ascolto e confronto, visto che molte opere e azioni inevitabilmente creeranno conflitto sociale ed economico»[4].

Nonostante questi limiti, il PNACC italiano è un punto di partenza che ora va riempito di contenuti, strumenti di governance e risorse, con cicli serrati di monitoraggio, di prove, errori e correzioni, anche per evitare il rischio concreto di mal-adattamenti. E accompagnato da una attività scientifica che andrà a sua volta orientata e finanziata adeguatamente.

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NOTE:

[1] A questo link le diverse situazioni nazionali: https://climate-adapt.eea.europa.eu/#t-countries

[2] In particolare nei settori biodiversità, salute e geo-idrologia.

[3] Il compito di aggiungere stakeholders, e – naturalmente tutta la popolazione – viene demandato alla Piattaforma Nazionale Adattamento al Cambiamento Climatico di ISPRA: https://climadat.isprambiente.it/

[4] Si veda il commento al link: https://www.renewablematter.eu/articoli/article/arriva-pnacc-piano-nazionale-adattamento-cambiamenti-climatici-delude-tutti

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