Rave party e non solo: considerazioni sparse sul nuovo art. 434 bis c.p.

Rave party e non solo: considerazioni sparse sul nuovo art. 434 bis c.p.

Rave party e non solo: considerazioni sparse sul nuovo art. 434 bis c.p.

di Elisa Marini

Ne hanno già scritto e parlato in molti, e non potevamo esimerci dal farlo noi.

La nuova norma sui “rave party”, introdotta dal recente D.L. n. 162/2022, merita una seppur sintetica analisi anche da parte della nostra Rivista, per una pluralità di ragioni che la collegano all’ambito ambientale.

Preliminarmente, per agio di disamina, se ne riporta il testo, che recita: «L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita. È sempre ordinata la confisca ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione».

La principale – e probabilmente più evidente – ragione che rende la norma interessante sotto il profilo ambientale si desume dalla collocazione sistematica, segnatamente nell’ambito dei delitti di cui al Titolo VI del Libro II del Codice Penale: il nuovo reato si pone, difatti, subito dopo il c.d. disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., noto “protagonista” dei più celebri procedimenti penali-ambientali che hanno caratterizzato la giurisprudenza nazionale degli ultimi 10 / 15 anni[i].

Ma cosa c’entrano i rave party con i disastri ambientali?

La prima risposta risiede nel bene giuridico che la disposizione di nuovo conio si propone di tutelare, e che, non bastasse la collocazione di cui si è appena detto, si ritrova espressamente menzionato sia nel primo comma (quello propriamente descrittivo), sia nel titolo: si tratta dell’incolumità pubblica, contestualmente declinata nei concetti “gemelli” di ordine pubblico e salute pubblica, che – come evidenziato nei primi commenti[ii] – sembrerebbero appalesare problemi di legittimità costituzionale, trattandosi di parametri che, per certi versi, possono considerarsi più stringenti di quelli di sicurezza pubblica sulla base dei quali possono essere vietate le riunioni a norma dell’art. 17 della Costituzione.La seconda ragione per cui la norma sui rave party “ci” riguarda risiede nelle condotte tipiche previste, ossia “l’invasione di terreni o edifici, pubblici o privati”, che tanto ricorda un’altra disposizione già esistente, per quanto non inquadrata tra i delitti ambientali, ma tra quelli contro il patrimonio: si tratta del reato di “Invasione di terreni e edifici” (per l’appunto) di cui all’art. 633 c.p., al quale la nuova disposizione aggiunge alcuni elementi specializzanti, tra cui il numero di persone (superiore a cinquanta) necessario per integrare la soglia dell’invasione penalmente rilevante, e il dolo specifico di organizzare un raduno dal quale possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica (in luogo del dolo specifico di occupazione o di profitto).

Proprio sotto il profilo del dolo, la disposizione in commento presenta una delle principali criticità che derivano dalla “tecnica legislativa”, quantomeno discutibile, con cui è stata redatta: secondo una prima teoria – che si ritiene di condividere – “l’invasore” di cui all’art. 434 bis c.p. “oltre al dolo specifico di raduno, deve rappresentarsi e volere anche che dal fatto possa derivare pericolo per taluno dei beni collettivi menzionati nella norma”[iii]; tuttavia, non è mancata l’interpretazione più “restrittiva”, volta a sostenere che il dolo specifico investa esclusivamente il raduno, e che quindi lo “scopo è implicitamente esistente e sarà quindi ritenuto in re ipsa, dal momento che non si vede perché cinquanta persone debbano riunirsi[iv].

I punti critici della nuova fattispecie sono comunque molteplici, e non si esauriscono in quelli di cui si è detto poc’anzi.

Si pensi, ad esempio: alla definizione tautologica del primo comma (“l’invasione” che consiste “nell’invasione”); ai problemi di accertamento probatorio che tipicamente caratterizzano le fattispecie di reato di pericolo concreto; all’ampio potere discrezionale di intervento che la vaghezza della norma consegna, di fatto, agli organi di polizia; al trattamento sanzionatorio previsto per il partecipe al terzo comma, probabilmente “pensato” come reato autonomo ma, di fatto, costruito come una circostanza attenuante[v], da cui traspaiono profili di “incostituzionalità alla stregua del principio di ragionevolezza-proporzione[vi]; infine, soprattutto, alla potenziale portata applicativa ad un numero di eventi ulteriori e ben diversi, come tipologia, dai rave party, con tutto ciò che ne consegue anche, in termini numerici, in ordine ad eventuali segnalazioni di notizie di reato (potenzialmente riferibili ad un elevatissimo numero di soggetti).

Da questo punto di vista, l’accostamento al disastro innominato è stato ritenuto “di esemplare coerenza: nel caso di specie è stata configurato un altrettanto vago delitto di raduno sedizioso innominato, nel senso che qualunque raduno di qualsiasi natura in luoghi/edifici arbitrariamente occupati è idoneo ad integrare la fattispecie, se dal fatto, come visto, possa derivare pericolo per l’ordine pubblico, incolumità o salute pubblica[vii].

Tale accostamento rivela, peraltro, non poche distonie sul piano sistematico: il nuovo delitto prevede, difatti, una pena detentiva (da 3 a 6 anni) ben superiore alla pena base (da 1 a 5 anni) stabilita per i delitti di attentato compresi nello stesso Titolo VI del Libro Secondo (si vedano in proposito, a titolo esemplificativo, le fattispecie di cui agli artt. 429, 432, 433, 434, 435 c.p.), e i massimi edittali, oltre a consentire – quanto meno astrattamente – l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche e l’applicazione delle misure cautelari, esplicano, altresì, un effetto limitativo in ordine all’applicabilità di altri istituti come la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ex art. 131 bis c.p., e le misure alternative alla detenzione[viii].

Si tenga peraltro conto, ancora con riguardo alle conseguenze procedurali dell’inserimento della disposizione in esame fra quelle relative ai “disastri ambientali”[ix], di una ulteriore implicazione, la cui configurabilità si ritiene particolarmente concreta, quanto meno in termini di rischio: ci si riferisce al comma 2, lett. c) dell’art. 380 c.p.p., che prevede l’applicazione dell’arresto obbligatorio in flagranza  per i reati contro la pubblica incolumità aventi – come quello in esame –  una pena non inferiore, nel minimo, a 3 anni.

Implicazione che si evidenzia soprattutto in ragione del già paventato pericolo di applicazione “elastica” della norma da parte delle forze dell’ordine che saranno chiamate ad intervenire (anche solo allo scopo di vigilanza) nell’ambito di tali raduni, i quali – come detto – potranno astrattamente riferirsi, stando al dato testuale della norma, a contesti, e sostanziarsi in eventi, anche molto differenti dai rave party.

Stiamo parlando, in definitiva, di un reato che – come si è visto – prevede pene edittali più elevate di quelle stabilite dai delitti dello stesso titolo del Codice Penale di cui fa parte, ma anche (e significativamente) più gravose rispetto alle fattispecie più simili nel contenuto, già in vigore nel nostro ordinamento: si è già detto dell’art. 633 c.p., che prevede la pena della reclusione da 1 a 3 anni ed è procedibile a querela, ma si pensi anche alle ipotesi “classiche” di danneggiamento (art. 635 c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.), che presentano connotati di assimilabilità con la disposizione in esame.

Il paragone è ancora più stridente se si pensa che l’ulteriore fattispecie che maggiormente assomiglia a quella di nuovo conio è addirittura una contravvenzione, punita con la reclusione fino a un anno, dal nome tanto arcaico quanto desueto di “Radunata sediziosa” di cui all’art. 655 c.p.

Era dunque davvero necessario introdurre con lo strumento del Decreto Legge, intrinsecamente caratterizzato dai requisiti di necessità e urgenza, una norma volta a reprimere condotte che avrebbero già potuto essere stigmatizzate sulla base di fattispecie di reato già esistenti?

Era necessario bypassare l’iter legislativo ordinario in nome di una urgenza (forse più mediatica che effettiva) legata ad un singolo evento (quello di Modena, da cui la norma trae espressamente “spunto”, stando alle dichiarazioni pubbliche post Consiglio dei Ministri), peraltro adeguatamente “arginato” sulla base degli strumenti normativi già presenti nell’ordinamento?

Un’ultima osservazione, sempre sulla scia dei parallelismi con la materia ambientale, concerne l’applicabilità della confisca di cui all’art. 240, secondo comma, c.p., relativa alle “cose che servirono per commettere il reato” o a “realizzare l’occupazione”, ed, ancor più, delle misure di prevenzione personali del Codice Antimafia.

Il secondo comma dell’art. 5 D.L. n. 162/2022 ha difatti disposto l’inserimento dell’art. 434 bis c.p. all’interno dell’art. 4 del D.Lgs. n. 159/2011, assimilando, dunque, il reato in esame ai più gravi delitti previsti dal nostro ordinamento, tra i quali quelli ricompresi nell’art. 51, comma 3 bis c.p.p., nell’ambito del quale si annovera anche – come noto – la fattispecie di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” prevista dall’art. 452 quaterdecies c.p.

L’applicabilità delle misure di prevenzione personali è particolarmente significativa in ordine all’estremo disvalore che è stato attribuito alla nuova fattispecie, sostanzialmente per due ordini di ragioni: la prima – forse superflua da evidenziare, trattandosi di disposizioni inserite in un provvedimento conosciuto come “Codice Antimafia” – in quanto le stesse si riferiscono a contesti di criminalità organizzata ben lontani dagli elementi che, per conoscenza comune, caratterizzano i rave party, ed assolutamente inconferenti rispetto a tutte le diverse manifestazioni, adunanze o riunioni che possono essere astrattamente sussumibili nelle “larghe maglie” del nuovo art. 434 bis c.p.; la seconda in quanto l’innesto della nuova disposizione nell’art. 4 D.Lgs. n. 159/2011 si è stagliato nella direzione opposta a quella delineata dalla Corte Costituzione, che ha espressamente auspicato la riduzione dei delitti-presupposto delle misure di prevenzione, a causa delle gravose conseguenze che le stesse comportano, potendo – come noto – essere disposte a prescindere da un effettivo accertamento processuale, ma solo in presenza di elementi indiziari[x].

Come per il traffico illecito di rifiuti, il rischio è quello di una applicazione che si riferisca a contesti empirici del tutto differenti rispetto a quelli per i quali la norma è stata introdotta: conseguenza che si rivelerebbe addirittura paradossale, in quanto la finalità che ne ha caratterizzato l’inserimento potrebbe essere agevolmente aggirata in ipotesi di “invasioni non arbitrarie”, come ad esempio in presenza di una occupazione del tutto legittima, e magari anche regolarizzata a livello contrattuale, di terreni o immobili.

Per concludere, oltre all’auspicio che in sede di conversione possano essere apportate modifiche maggiormente improntate al rispetto dei parametri costituzionali e dei principi di tassatività e determinatezza che devono necessariamente caratterizzare la norma penale, si consenta di prendere in prestito le parole tratte da uno dei commenti già citati, che sintetizzano efficacemente tutte le perplessità che si è cercato brevemente di porre in luce: “non convince l’incriminazione, al di là dello specifico fenomeno del rave party, di qualsivoglia raduno, sol perché preceduto da un’occupazione arbitraria, che di per sé, storicamente e ancora oggi, esprime un modesto disvalore contro il patrimonio immobiliare; valuterà il lettore se l’aggiunta a tale condotta base di un dolo specifico di per sé neutro (allo scopo di organizzare un raduno) e, soprattutto, la vaghissima attitudine del fatto di raduno a causare potenziale pericolo per un bene onnivoro come l’ordine pubblico, renda meritevoli di autonoma incriminazione, e per di più assai severa, fatti che il legislatore ha tipizzato maldestramente e che sicuramente si prestano a applicazioni poliziesche di prevenzione e repressione del dissenso e della devianza”[xi].

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RGA Online – Marini – contributo dicembre 2022 (434 bis)

NOTE

[i] Solo per citarne alcune, basti pensare alle vicende giudiziarie relative alla discarica di Bussi Sul Tirino, al polo chimico di Spinetta Marengo o alla raffineria di Cremona.

[ii] Si veda, sul punto, il contributo video “I pericoli del Decreto Rave (con Andrea Soliani)” in https://www.youtube.com/watch?v=1gUKiTzdC7w.

[iii] C. Ruga Riva, “La festa è finita. Prime osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro)”, in Sistema penale, 3 novembre 2022. L’autore ha – correttamente, si ritiene – sottolineato come  La questione non è puramente teorica, perché è ben plausibile che il partecipante al rave party non voglia offendere l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica, o comunque rappresentarsi e volere che dal fatto della partecipazione possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico, ma solo divertirsi; o che il partecipante ad una manifestazione non autorizzata voglia esprimere il suo dissenso o rivendicare alcune idee, senza necessariamente attribuirvi carattere pericoloso per i beni tutelati dalla fattispecie penale in esame.

[iv] A. Castaldo, “L’infelice norma sul divieto dei “rave party”, su Il Quotidiano Giudico, 11 novembre 2022.

[v] Il terzo comma prevede, infatti, che per il partecipe “la pena è diminuita”: in assenza di ulteriori indicazioni, la riduzione della pena prevista per gli organizzatori al comma precedente dovrebbe teoricamente determinarsi sulla base dei parametri generali di cui all’art. 65 c.p.

[vi] Sul punto si è soffermato G. Fiandaca, “La giustizia meloniana è un manifesto del pensiero illiberale” su Il Foglio, 3 novembre 2022, che ha evidenziato come “in base a tale principio, essendo sensibilmente diverso il disvalore delle rispettive di condotte dei soggetti che rivestono un ruolo apicale o quello di meri partecipanti, il corrispondente trattamento punitivo dovrebbe risultare marcatamente differenziato già nelle soglie edittali astratte: cosa che non avviene nel caso di specie, essendo (inspiegabilmente in base ai princìpi) la condotta di partecipazione al raduno ridotta a una sorta di circostanza attenuante. Ci sono i presupposti per una possibile declaratoria di incostituzionalità”.

[vii] C. Ruga Riva, op. cit.

[viii] Tali osservazioni sono valorizzate da D. Pulitanò, “Penale party. L’avvio della nuova legislatura”, in Giurisprudenza Penale Web, 2022, 11.

[ix] Definizione consapevolmente imprecisa, ma – si auspica – efficace ai fini del discorso generale.

[x] Si richiama, sul punto, un passaggio della sentenza della Corte Costituzionale del 21 febbraio 2018, n. 33, che ha espressamente stabilito come “A fronte del ricordato processo di accrescimento della compagine dei reati cui è annessa la misura ablativa speciale, questa Corte non può astenersi, peraltro, dal formulare l’auspicio che la selezione dei “delitti matrice” da parte del legislatore avvenga, fin tanto che l’istituto conservi la sua attuale fisionomia, secondo criteri ad essa strettamente coesi e, dunque, ragionevolmente restrittivi”. È evidente che tale auspicio, che si riferiva alla confisca di prevenzione, debba ritenersi a maggior ragione valido per le misure personali che propriamente interessano il delitto in esame. Sempre la Consulta, nella sentenza del 27 febbraio 2019, n. 24 – emessa, questa volta, in tema di misure di prevenzione personali – aveva incidentalmente affermato (richiamando due precedenti) che nella materia penale l’interpretazione giurisprudenziale non può di per sé “colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale” (sentenza n. 327 del 2008), in quanto nessuna interpretazione può “surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta” (sentenza n. 115 del 2018).

[xi] C. Ruga Riva, op. cit.