di Stefano Nespor
Assistiamo a un crescente e tumultuoso moltiplicarsi di iniziative per contenere il cambiamento climatico o i suoi effetti, promosse da associazioni e organizzazioni ambientaliste a livello locale, nazionale o sovranazionale. Continua a aumentare anche il numero delle imprese multinazionali che si impegnano a ridurre e emissioni prima della metà del secolo, sottoscrivendo il Climate Pledge lanciato da Amazon (www.theclimatepledge.com/): tra queste Microsoft, IBM, Unilever e molte altre si stanno via via aggiungendo.
A fronte di questi segnali positivi continua però a mancare l’impegno dei Governi.
L’Accordo di Parigi, basato su impegni volontari degli Stati, è attuato in modo frammentario e approssimativo. Il risultato è che le attuali politiche dei leader dei principali paesi responsabili di emissioni di gas serra non si attengono all’indicazione dell’Accordo di contenere l’aumento della temperatura alla fine del secolo entro 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali: continuando così, si preannuncia un aumento di 3°C, secondo i calcoli pubblicati alla fine di dicembre del 2020 di Zeke Hausfather, il direttore del Breakthrough institute. Negli stessi giorni, i calcoli diffusi da Climate Action Tracker offrono un dato altrettanto preoccupante: se i paesi che si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050 rispettassero l’impegno (molti non lo stanno facendo), comunque il riscaldamento globale sarebbe superiore a 2,1° C.
Sembra che in molti paesi ricchi stia prevalendo, seppur non dichiarata, l’idea che sia più semplice e meno gravoso economicamente adottare, quando servirà, interventi di adattamento al cambiamento che non avviare serie politiche di contenimento delle emissioni. Un calcolo miope, perché, a prescindere da ogni considerazione di carattere etico, l’impatto del cambiamento climatico nei paesi poveri o più climaticamente esposti, impossibilitati a realizzare le opere di adattamento necessarie, produrrà la fuga di milioni di rifugiati climatici verso luoghi più vivibili, con tutte le immaginabili conseguenze.
In questa situazione, sta assumendo un ruolo sempre più importante il potere giudiziario e l’intervento dei giudici nel decidere le “controversie climatiche”.
Molto è cambiato in questo settore negli ultimi anni. In via di prima approssimazione possiamo ricondurre le controversie climatiche a quattro diverse categorie, tre delle quali comprendono azioni giudiziarie che si sono diffuse solo recentemente.
La prima categoria ricomprende le controversie “tradizionali”, culminate nel noto caso Urgenda deciso dalle Corti olandesi. Sono ricorsi proposti da cittadini sostenuti da associazioni ambientaliste e da esperti dei vari settori interessati (non solo climatologi e scienziati, ma anche economisti e sociologi) che, adducendo la lesione di loro diritti, chiedono al giudice di imporre a imprese private il rispetto delle normative nazionali o a governi e enti pubblici l’adeguamento delle proprie normative o delle proprie politiche all’Accordo di Parigi.
La seconda categoria comprende le azioni proposte a seguito di eventi naturali catastrofici; sono rivolte a ottenere il risarcimento del danno da enti pubblici o imprese private che avrebbero dovuto attivarsi per impedire o ridurre gli effetti, oppure, in via preventiva, per ottenere che siano adottati tutti gli investimenti necessari per prevenire i danni. Non mi risulta che fino ad oggi ci siano state sentenze che hanno accolto le domande di risarcimento, ma è facile prevedere che assisteremo a forti innovazioni nella giurisprudenza in queste materie, in applicazione del principio chi inquina paga (finora trascurato nelle controversie climatiche).
La terza categoria comprende le azioni giudiziarie promosse da consumatori o azionisti contro le imprese che non hanno correttamente dichiarato il rischio al quale le proprie attività erano sottoposte per il verificarsi di eventi climatici o hanno sottaciuto il proprio coinvolgimento in attività produttive di gas serra. Sono azioni che riflettono una domanda sociale più estesa che si va affermando: la pretesa, in un’epoca di enorme disparità di ricchezze e di profonde disuguaglianze sociali, di piena trasparenza sia da parte delle imprese private che maggiormente contribuiscono al cambiamento climatico sia da parte dei Governi e dalle istituzioni pubbliche in merito alle loro attività per limitarne gli effetti.
Infine, l’ultima categoria include tutte le azioni proposte di fronte a corti arbitrali internazionali: le decisioni sono quasi sempre non vincolanti ma hanno un forte effetto persuasivo.
Nel loro insieme, quindi, le controversie climatiche costituiscono un insieme eterogeneo che copre vari settori del diritto e coinvolge varie competenze scientifiche e giuridiche.
Sono controversie in continuo aumento nel mondo, secondo il rapporto appena pubblicato dall’UNEP insieme al Sabin Center for Climate Change at Columbia University che aggiorna i dati oggetto del precedente Rapporto del 2017 (Climate Change Litigation: A Global Review).
Erano 884 le controversie proposte in 24 Stati nel 2017, sono 1550 in 38 Stati nel 2020. Di queste, 1200 sono stati proposte nei soli Stati Uniti. Al secondo posto è l’Australia; 58 le controversie proposte nel Regno Unito, 55 quelle in tutta l’Unione europea.
La tendenza all’aumento delle controversie climatiche è destinata ad accentuarsi nel prossimo futuro con il connesso, crescente coinvolgimento del potere giudiziario, sempre più costretto a prendere posizione da azioni che espongono nuove esigenze rispetto a quelle tradizionali dei movimenti ambientalisti ed evitano di scontrarsi contro la barriera della mancanza di legittimazione o della separazione dei poteri. Sono azioni proposte da giovani e studenti a tutela del loro futuro, da cittadini che assumono la violazione di diritti umani, da proprietari di immobili in località esposte agli effetti del cambiamento climatico a tutela dei loro beni, da azionisti e fondi di investimento a tutela dei loro investimenti, da consumatori per ottenere trasparenza sulle merci e i servizi offerti.
Potrà essere proprio il coinvolgimento del potere giudiziario, se ci saranno sentenze favorevoli ai ricorrenti nei vari settori, la leva che, insieme alla pressione dei movimenti ambientalisti e all’assunzione di responsabilità di importanti multinazionali cui abbiamo accennato, imporrà ai Governi di adottare scelte politiche più decise per attuare l’obiettivo posto dall’Accordo di Parigi.
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