di Federico Vanetti
La normativa sulla qualifica e gestione dei materiali di riporto è forse tra le più dibattute degli ultimi dieci anni, soggetta a continui e ripetuti interventi normativi finalizzati ad individuare una gestione sostenibile di questi materiali, ma spesso oggetto di prassi applicative distorsive e dispendiose[i].
Il problema è nato intorno al 2010, quando gli enti di controllo si sono posti il tema di come qualificare uno strato di matrice di terreno frammista a materiale antropico ormai diffusa sul territorio urbanizzato che, evidentemente, non rappresentava una matrice naturale dal punto di vista geologico, ma che al contempo si era così consolidata a tal punto da costituire uno come specifico orizzonte stratigrafico.
La domanda fondamentale era se trattare tale strato di riporto alla stregua di un rifiuto ovvero trattarlo come matrice ambientale sottoponendolo e gestendolo all’interno delle procedure di bonifica.
In un primo momento, la scelta interpretativa degli enti era sicuramente virata sulla qualifica di rifiuto, con la conseguente scelta di rimuovere e conferire in impianti autorizzati lo strato di riporto a prescindere dalle sue caratteristiche chimiche e fisiche.
Senonché tale impostazione non solo risultava economicamente insostenibile, ma irrazionale anche da un punto di vista ambientale in termini di movimentazione terre, trasporti, saturazione degli impianti di trattamento e produzione di CO2.
Nel 2012, quindi, il legislatore è intervenuto per porre fine a tale questione e, attraverso l’art. 3 del d.l. 2/2012, ha fornito una interpretazione autentica volta ad equiparare la matrice riporto al suolo naturale, imponendo la bonifica dei riporti in caso di accertate non conformità.
Nel 2013, però, è intervenuto un primo correttivo[ii] che ha imposto una ulteriore verifica su tali materiali, ossia il c.d. test di cessione, analisi mirata a monitorare la lisciviazione in falda dei contaminati presenti in tale matrice.
Tale ulteriore verifica, tuttavia, ha nuovamente aperto il tema della classificazione del riporto, in quanto la non conformità al test di cessione portava a qualificare tale materiale come fonte di contaminazione e, quindi, secondo l’interpretazione di alcuni, quale rifiuto.
Da qui il dubbio su come trattare i riporti non conformi e a quali procedure assoggettarli[iii].
Sul punto, si è anche recentemente pronunciato il Consiglio di Stato, secondo cui “L’art. 3, comma 1, d.l. 2/2012 è una normativa di esenzione e rende inapplicabile la regola generale che impone la rimozione del rifiuto, sulla base, ancora una volta, di una considerazione logica tratta dalla realità dei fatti: trattare sempre e comunque una matrice materiale di riporto come rifiuto potrebbe essere eccessivo, perché vi sono dei casi in cui essa concretamente non è distinguibile dalla matrice naturale, in questo caso dal suolo, e può essere trattata come tale, appunto per i “riempimenti, rilevati e reinterri” di cui parla il citato art. 3, comma 1.
La normativa di esenzione pertanto consente di distinguere fra i casi in cui la matrice di riporto si può assimilare alla matrice naturale e i casi in cui ciò non è possibile.
Se il test di cessione ha esito negativo, la matrice di riporto, nella sua interezza, mantiene la natura intrinseca di rifiuto che andrebbe rimossa ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. 152/2006, salvo che lo stesso art. 3, comma 3, del d.l. 2/2012 ha previsto due ulteriori possibilità, ovvero la decontaminazione e la messa in sicurezza permanente, che però rappresentano deviazioni della regola generale che è quella di rimuovere i rifiuti.
Se invece il test di cessione ha esito positivo, vi sono i presupposti per l’esenzione di cui al d.l. 2/2012, ovvero è possibile trattare la matrice di riporto alla stregua della matrice naturale suolo”[iv].
In estrema sintesi, i Giudici di Palazzo Spada qualificano i riporti non conformi al test di cessione come rifiuti, ritenendo che la disciplina speciale introdotta dall’art. 3 del d.l. 2/2012 rappresenterebbe una semplice norma di esenzione che, di fatto, consentirebbe di gestire il rifiuto anche in deroga alla regola generale che ne impone la rimozione.
Invero, la decisione è intervenuta solo pochi giorni prima dell’entrata in vigore della l. 108/2021 che ha convertito in legge il d.l. 77/21, modificando peraltro proprio il citato art. 3.
Ad avviso di chi scrive, a seguito del recente intervento normativo, l’orientamento del Consiglio di Stato e di molte amministrazioni locali deve intendersi definitivamente superato.
La l. 108, infatti, ha proprio modificato il comma 2 dell’art. 3 del d.l. 2/2012, confermando l’applicazione del test di cessione sui materiali da riporto, ma precisando che tale test deve essere eseguito “ai fini delle metodiche e dei limiti da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e devono inoltre rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati”.
Il successivo comma 3, poi, è stato integralmente riscritto prevedendo che “Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono gestite nell’ambito dei procedimenti di bonifica, al pari dei suoli, utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute e per l’ambiente”.
Innanzitutto, occorre rilevare che la nuova formulazione del comma 2 lascia supporre che il test di cessione non debba fare riferimento al D.M. 1998 solo per le metodiche di campionamento, ma anche per i “limiti” di riferimento.
Ciò vorrebbe significare che i risultati del test non debbano più essere comparati con le CSC delle acque di falda fissate dal d.lgs. 152/2006, bensì con i valori e parametri espressamente considerati dal citato D.M., i quali – in linea generale – lasciano maggiori margini di tolleranza.
Si era già avuto modo di rilevare[v] come la comparazione dei risultati del test con i valori delle acque di falda, da un lato, non fosse supportata da dati tecnici e/o scientifici[vi] e, dall’altro, creasse una evidente disparità di trattamento tra la possibilità di riutilizzare in sito materiali esterni recuperati proprio ai sensi del d.m. 1998 e quella di mantenere nello stesso sito materiali analoghi che, sebbene processati e conformi anch’essi al d.m., non risultavano tuttavia conformi alla successiva comparazione con i valori per le acque di falda – come detto – più restrittiva[vii].
In secondo luogo, è stato – si spera – ormai chiarito che la non conformità del materiale di riporto al test di cessione non comporta la sua qualificazione come rifiuto, bensì il suo assoggettamento alle procedure di bonifica previste dal d.lgs. n. 152/2006, sconfessando così l’interpretazione da ultimo fornita dal Consiglio di Stato.
A tale conclusione poteva anche giungersi sulla base della precedente disciplina che si limitava a qualificare i riporti non conformi come fonti di contaminazione, e alla luce della circolare ministeriale del 10 novembre 2017 che chiariva come la rimozione e messa in sicurezza degli stessi dovesse avvenire nell’ambito di una procedura di bonifica.
La fonte di contaminazione, infatti, non necessariamente coincide con un rifiuto, ma può consistere in una semplice passività ambientale che deve essere verificata in termini di rischio per l’ambiente e per la salute nell’ambito della procedura di bonifica.
La modifica normativa, dunque, dovrebbe – si auspica – definitivamente chiarire che la gestione dei riporti debba avvenire nell’ambito delle procedure di cui alla parte Quarta, Titolo V, del testo unico ambientale, rilevando il test di cessione quale ulteriore e specifica indagine da effettuare nell’ambito della caratterizzazione del sito, per acquisire ulteriori informazioni utili ad elaborare il relativo modello concettuale.
Tale conclusione, da un lato, comporta che in caso di sola non conformità dei riporti al test di cessione, debba comunque essere avviata una procedura di bonifica, pur risultando il materiale conforme alle CSC.
Dall’altro, però, dovrebbe ormai risultare chiaro e pacifico che l’analisi di rischio sito specifica possa essere applicata anche alla matrice riporto.
Tale aspetto è forse il più rilevante tra quelli introdotti dal recente intervento normativo, in quanto consentirebbe fattualmente di limitare gli interventi di rimozione e conferimento del materiale di riporto in impianti esterni, a favore di interventi on site.
È ormai pacifico, infatti, che gli interventi in situ – come detto all’inizio – debbano essere privilegiati quanto più possibile atteso che, a fronte di rischi accettabili, comportano sicuramente maggiori benefici ambientali in termini di minor movimentazione di terre, minor produzione di CO2 e minor saturazione degli impianti di trattamento dei rifiuti.
Il test di cessione, dunque, fornisce ulteriori elementi da inserire nell’analisi di rischio sito specifica, ma non comporta automaticamente una riqualificazione del materiale di riporto in rifiuto, confermando di contro che tale materiale – anche se non conforme – resta equiparato a tutti gli effetti al suolo naturale.
Sarà, dunque, l’analisi di rischio lo strumento attraverso cui andrà valutata la gestione dei materiali di riporto, che potranno anche essere oggetto di interventi di messa in sicurezza operativa o permanente.
Resta, poi, il tema dei c.d. riporti recenti e/o riporti storici, già affrontato dalla giurisprudenza[viii].
In tal caso, però, non rileva tanto l’aspetto qualitativo del materiale, quanto l’origine storica dello stesso.
Ad avviso di chi scrive, si dovrebbe distinguere tra strato di riporto “legittimo”, ossia formatosi attraverso attività lecite ovvero, comunque, a seguito di eventi naturali, e riporto “illegittimo”, ossia frutto di azioni illecite poste in essere in violazione della normativa pro tempore vigente.
Nel secondo caso, potrebbe tornare il tema della qualificazione del riporto come rifiuto, fermo restando che gli aspetti di sostenibilità degli interventi meriterebbero comunque una ulteriore riflessione, proprio ai fini della tutela dell’ambiente risultando evidentemente insostenibile pensare di continuare a produrre giuridicamente rifiuti che poi debbano essere avviati a trattamento.
È ormai fatto acclamato che l’Italia ha una capacità di assorbimento di rifiuti molto limitata[ix], che quindi impone una accurata “selezione” dei rifiuti che siano effettivamente da trattare.
Tale aspetto, tuttavia, esorbita dalle modifiche normative recentemente intervenute e meriterebbe una riflessione a livello di politica legislativa generale.
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Vanetti – Commento RGA – riporti – 20211013
Note:
[i] Si veda per un approfondimento, F. Vanetti “La complessa identificazione del materiale di riporto. Analisi e proposte per un nuovo approccio alla tematica”, RGA online, Febbraio 2020; F. Vanetti “Primo ‘round’ di giurisprudenza sui riporti: spunti di riflessione, indicazioni e critiche”, RGA online, 2016; F. Vanetti “Terre e rocce da scavo e riporti: i decreti “Emergenze” e “Fare” introducono ulteriori dubbi da scavo”, RGA 3-4/2016; F. Vanetti “Il punto su riporti, rifiuti, rimozione, messa in sicurezza ed edificabilità”, RGA online, 2015; F. Vanetti “Riporti, cave, rifiuti, bonifica, messa in sicurezza permanente: indicazioni giurisprudenziali che potrebbero far luce e indicare una via d’uscita da eccessivi formalismi e immobilismi”, RGA online, 2014; F. Vanetti e A. Gussoni “D.M. n. 161/2012: note introduttive”, Ambiente & Sviluppo, 12/2012; F. Vanetti “In attesa del D.M. su terre e rocce”, Ambiente & Sviluppo, 6/2012; F. Vanetti “Riporti: devono essere allontanati come rifiuti o possono rimanere in sito ed essere riutilizzati?”, Ambiente & Sviluppo, 11/2011; F. Vanetti, “Terre e rocce da scavo e altri materiali: rifiuti o sottoprodotti?”, RGA 6/2011.
[ii] D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98.
[iii] In merito, lo stesso Ministero dell’Ambiente aveva emanato una circolare (10 novembre 2017) volta a fornire chiarimenti sul punto.
[iv] C. Stato, Sez. IV, 5 agosto 2021, n. 5768.
[v] Si rinvia ai contributi sopra citati in nota.
[vi] Il test di cessione non ricrea e non considera le caratteristiche del sito e, quindi, fornisce una valutazione di rischio teorica del tutto astratta dalla situazione concreta.
[vii] In sintesi, si poteva giungere all’assurdo paradosso che un materiale di riporto in sito, pur conforme al D.M. 1998 e ai parametri da questo stabiliti, dovesse essere rimosso perché non conforme alle CSC delle acque di falda, salvo poi nuovamente riportarlo in sito dopo il suo recupero proprio ai sensi del D.M. 1998 con i medesimi valori.
[viii] TAR Lombardia – Milano n. 2586/2015 e TAR Toscana n. 558/2015.
[ix] https://www.ilsole24ore.com/art/rifiuti-mezzogiorno-servono-altri-121-impianti-AEwObtH.