Di Chiara Tanzarella
CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 16 novembre 2022 (dep. 5 dicembre 2022), n. 45900 – Pres. Ramacci, Est. Scarcella – ric. Imputato F.A.
Ai sensi dell’art. 74 lett. h) D.Lgs. n. 152/2006 sono acque reflue industriali «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento». Ai sensi della lett. g) sono acque reflue domestiche le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche». Pertanto nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, atteso che a tal fine rileva la sola diversità del refluo rispetto alle acque domestiche. È configurabile il reato di cui all’art. 137, comma 1 D.Lgs. n. 152/2006, qualora lo scarico riguardi acque reflue industriali, definite dall’art. 74, lett. h), come qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o con materiali, anche inquinanti.
- Premessa
La sentenza in commento si pone nel solco di un orientamento ormai consolidato della Cassazione che ha nuovamente e – si ritiene – definitivamente sconfessato la pronuncia di segno contrario con cui la Suprema Corte aveva escluso la qualificazione come reflui industriali delle acque meteoriche di dilavamento contaminate da sostanze o materiali impiegati in stabilimenti commerciali o di produzione di beni[1].
Sebbene la pronuncia in esame non abbia portata innovativa, limitandosi a richiamare i precedenti della Cassazione sul tema, si tratta di conferma rilevante alla luce della frequenza con cui è contestata la contravvenzione di cui all’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 (di seguito anche T.U.A.) e da cui discende la necessità di definire, una volta per tutte, la nozione di acque reflue industriali così come ridisegnata dal legislatore nell’ormai lontano 2008.
- Il caso in esame
L’imputato, legale rappresentante di un’industria conserviera, era condannato in ordine al reato punito dall’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere scaricato senza autorizzazione in un torrente acque reflue industriali provenienti dalla lavorazione del pomodoro: l’illecito sversamento sarebbe avvenuto attraverso un foro di 50 cm di diametro presente su una delle tre vasche del vecchio impianto di depurazione, colme di reflui industriali. Per quanto desumibile dalla sentenza in commento, nel corso del dibattimento, il direttore dello stabilimento aveva riferito che le vasche in questione erano in disuso e, come tali, prive di collegamento con l’impianto produttivo i cui reflui confluivano nel depuratore in relazione al quale la società era titolare di un’Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.); pertanto, i liquidi stagnanti nelle vecchie vasche di depurazione e sversati non potevano, a suo dire, che avere natura meteorica.
Il Tribunale giungeva all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato sulla base di vari indici tra cui, in particolare, un test con la fluorescina effettuato dagli operanti di PG dal quale sarebbe emersa, diversamente da quanto sostenuto dal testimone della difesa, l’esistenza di un condotto attraverso cui i reflui della lavorazione transitavano, senza soluzione di continuità, dalla vasca principale di stoccaggio a quella del vecchio impianto di depurazione fino a confluire, senza autorizzazione, nel torrente.
- I motivi di ricorso e la decisione della Corte
L’imputato proponeva tre motivi di ricorso con i quali, per quanto d’interesse, denunciava l’illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza di un effettivo collegamento tra le linee di produzione e le vasche dalle quali era avvenuto lo sversamento nonché la violazione di legge in relazione all’art. 137, comma 1, T.U.A. circa l’esistenza di uno scarico e la natura di reflui industriali attribuita ai liquidi contenuti nelle vasche.
In sintesi, secondo il ricorrente, il Giudice di primo grado avrebbe fondato la sentenza di condanna su di un’erronea valutazione degli elementi probatori a sua disposizione; dalla ricostruzione della vicenda, infatti, sarebbe emerso che:
- la società era dotata di un impianto di depurazione per il quale era titolare di un’Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.);
- le tre vasche del vecchio depuratore erano totalmente in disuso e, come tali, prive di uno stabile collegamento con l’impianto produttivo;
- era plausibile che anche altre imprese scaricassero reflui nel torrente, non potendo quindi dirsi provata con certezza la riconducibilità degli stessi all’attività produttiva della società rappresentata dall’imputato;
- non era stato effettuato alcun campionamento dei liquidi sversati nel torrente funzionale ad accertarne la natura e qualità.
A parere del ricorrente, la corretta valutazione di tali circostanze, impedendo di qualificare giuridicamente quello in esame quale “scarico” e di attribuire ai liquidi sversati la natura di reflui industriali, avrebbe imposto la riqualificazione del fatto nell’ipotesi di reato di cui all’art. 137, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 (essendo la società titolare di un’A.I.A.) o nella diversa fattispecie di cui all’art. 29 quattordecies D. Lgs. n. 152/2006; tuttavia, «in entrambi i casi, il reato non potrebbe ritenersi sussistente in quanto il comma 5 dell’art. 137 T.U.A.[2] si applica solo in caso di superamento dei limiti delle sostanze indicate in tab. 5 all. 5 e l’assenza dei prelievi precluderebbe tale accertamento e, quanto all’art. 29 quattuordecies, sarebbe applicabile il comma 2 che è punito solo con sanzione amministrativa».
La Corte, pur dichiarando inammissibile il ricorso in ragione dell’infondatezza e della genericità dei motivi volti a sollecitare una rilettura nel merito (notoriamente preclusa in sede di legittimità) delle prove acquisite nel corso del dibattimento, ha colto l’occasione per ribadire la nozione di “scarico” e approfondire quella di “reflui industriali”, rispetto alla quale aveva in passato manifestato alcuni, seppur isolati, tentennamenti a seguito della modifica apportata nel 2008 alla definizione contenuta nell’art. 74, lett. h), T.U.A.
Innanzitutto, la Corte, al fine di evidenziare l’infondatezza del motivo concernente l’inesistenza di un collegamento tra impianto produttivo e vasche, rammenta come per “scarico” si intenda pacificamente «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria», non rilevando la presenza di una condotta in senso tecnico ma «essendo sufficiente, al fine dell’applicabilità della disciplina sugli scarichi [e non di quella sui rifiuti][3], la stabilità del collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale»[4]. Nel caso di specie, l’istruttoria dibattimentale ha fornito prova, con motivazione logica e conforme ai principi di diritto appena richiamati, dell’esistenza di un sistema di deflusso, stabile e senza soluzione di continuità, dei reflui fino al corpo ricettore.
Più articolata, invece, la motivazione concernente le acque reflue industriali.
La Corte, prendendo l’avvio dal testo dell’art. 74, lett. h), D.Lgs. n. 152/2006, secondo cui sono acque reflue industriali quelle scaricate da impianti industriali e diverse dalle reflue domestiche e dalle meteoriche di dilavamento[5], si sofferma sulla definizione di tali due tipologie di acque per desumerne in negativo la nozione di reflui industriali. Mentre, però, del tutto pacifica è la distinzione tra reflui domestici e industriali derivando, i primi, dal metabolismo umano e dalle attività domestiche e i secondi da attività produttive e commerciali[6], più complessa è la differenza rispetto alle acque meteoriche di dilavamento la cui individuazione è stata oggetto – in assenza di una specifica definizione normativa e a seguito delle modifiche normative del D.L. n. 59/2008 – di due diverse interpretazioni giurisprudenziali.
A tale proposito, la Corte – senza dare conto in motivazione del pregresso dibattito giurisprudenziale (di cui si darà atto infra), ma limitandosi a rinviare a quanto dettagliatamente argomentato sul punto in precedenti pronunce[7] – evidenzia come l’originaria formulazione dell’art. 74, lett. h), T.U.A., nel definire le acque reflue industriali come quelle provenienti (e non scaricate) da edifici in cui si svolgono attività industriali e differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento, assimilava quest’ultime a «quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento». L’intervento correttivo del citato D.L. ha eliminato sia il riferimento alla differenza qualitativa tra le acque (con conseguente rilevanza unicamente della natura dell’attività dalle quali le stesse provengono) sia l’ultimo inciso inerente alle acque meteoriche da dilavamento. Conseguentemente, conclude la Corte, avendo la modifica normativa ristretto il concetto di acque meteoriche di dilavamento, queste ultime, laddove venute in contatto con sostanze o materiali contaminanti o inquinanti, perdono la loro originaria consistenza non potendo più, per espressa volontà di legge, essere incluse nelle acque meteoriche di dilavamento.
Secondo la Cassazione, nel caso di specie, il giudice di merito ha fatto corretta applicazione di tale principio: anche ipotizzando che l’acqua stagnante nelle vasche e sversata nel torrente non provenisse dallo stabilimento produttivo per un’assenza di collegamento con lo stesso, tuttavia la stessa, in quanto contaminata da residui di lavorazione e fanghi sedimentati, aveva perso la natura di acqua meteorica di dilavamento. Parimenti incensurabile la qualificazione giuridica dei fatti nell’alveo dell’art. 137, comma 1, D.Lgs. n.152/2006 dal momento che il comma 5 dell’art. 137, punendo il superamento dei limiti tabellari, presuppone l’esistenza di un’autorizzazione allo scarico, nella specie mancante; mentre l’art. 29 quattuordecies, che punisce con una sanzione amministrativa chi non rispetta le prescrizioni dettate nell’A.I.A., non concerne la fattispecie in esame in cui si contesta l’apertura di uno scarico abusivo.
- Le argomentazioni sviluppate dalla giurisprudenza e sottese alle conclusioni raggiunte dalla Corte
La decisione assunta dalla Corte è espressione dell’orientamento giurisprudenziale (ormai predominante[8]) abbracciato per la prima volta dalla sentenza n. 2832 del 2 ottobre 2014[9], che ha avuto il pregio non soltanto di sottoporre a revisione una precedente pronuncia di segno contrario (Corte Cass. pen., Sez. III, 30 ottobre 2013, n. 2867), rimasta del tutto isolata nonostante il favore espresso dalla dottrina[10], ma anche di fornire, in assenza di una definizione normativa, la nozione di acque meteoriche di dilavamento.
In breve, secondo la citata pronuncia, l’eliminazione dal testo dell’art. 74, lett. h), T.U.A. del riferimento qualitativo alla tipologia delle acque e dell’assimilazione delle acque meteoriche di dilavamento a quelle venute a contatto con sostanze inquinanti non provenienti dall’attività industriale costituisce frutto di una precisa scelta del legislatore finalizzata – diversamente da quanto sostenuto dal precedente di tenore contrario – non ad allargare il concetto di acque meteoriche di dilavamento facendovi rientrare anche quelle contaminate da sostanze impiegate in stabilimenti industriali, quanto piuttosto a restringerla «in un’ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acque e quelle reflue industriali o quelle reflue domestiche». È per espressa volontà di legge, quindi, che le acque piovane, laddove venute a contatto con sostanze o materiali inquinanti, non possono più essere incluse nella categoria delle meteoriche da intendersi come «quelle acque che cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche non subiscono contaminazioni di sorta con sostanze o materiali inquinanti»[11].
Tale approdo ermeneutico è stato inizialmente criticato per essere, da un lato, non conforme al nuovo dettato normativo che, stabilendo che le acque reflue industriali debbano ora essere “scaricate” da edifici e impianti, escluderebbe ogni possibilità di considerare tali le acque meteoriche contaminate; dall’altro, interferente con il disposto dell’art. 113 T.U.A. che disciplina le «acque meteoriche di dilavamento e le acque di prima pioggia»[12].
Le critiche così mosse sono state risolte dalla successiva giurisprudenza (tra cui la sentenza in commento) che ha precisato, innanzitutto, come la modifica apportata al testo dell’art. 74, lett. h), D.Lgs. n. 152/2006, lungi dal voler incidere e ampliare la nozione di acque meteoriche, aveva come finalità quella di «riaffermare la nozione di scarico diretto, in maniera da riproporre in forma più chiara e netta la distinzione esistenza tra la nozione di acque di scarico da quella di rifiuti liquidi»[13] con le immaginabili conseguenze in punto di normativa caso per caso applicabile. Non è stato, infine, ravvisata alcuna interferenza con la competenza regionale fissata dall’art. 113 D.Lgs. n. 152/2006 perché essa «ha ad oggetto, per espresso dettato normativo, le acque meteoriche di dilavamento, le acque di prima pioggia e le acque di lavaggio esterno», vale a dire tipologie di reflui diversi dai reflui industriali.
A tale proposito, è stato chiarito che:
- il primo comma dell’art. 113 T.U.A. disciplina le ipotesi di dilavamento “ordinarie”, concernenti le acque meteoriche che mantengono la loro originaria natura di acque piovane senza subire contaminazioni se non quelle derivanti dalla commistione con detriti e polveri per effetto, appunto, del dilavamento sulle superfici[14]. Come precisato dal secondo comma, si tratta di acque che, qualora non regolamentate dalle Regioni ai sensi del primo comma, non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti dalla parte terza del T.U.A.;
- il terzo comma, invece, demanda alle Regioni di disciplinare i casi in cui potrebbe rendersi necessario, per la particolare attività svolta, che le acque di prima pioggia e quelle di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e trattate in impianti di depurazione: trattandosi di situazioni diverse e ritenute meritevoli di maggiore attenzione in cui la presenza di un pericolo di contaminazione richiede particolari accorgimenti, la violazione delle eventuali prescrizioni regionali è sanzionata penalmente (invece che in via soltanto amministrativa come nel caso del comma 1)[15];
- tutte le situazioni idonee a determinare un pericolo di inquinamento ma non rientranti, per mancanza dei presupposti o per l’assenza di specifiche disposizioni regionali, nell’alveo applicativo dell’art. 113 non possono essere sottratte alle disposizioni del D.Lgs. n. 152/2006, sia perché una simile soluzione interpretativa sarebbe irragionevole sia perché l’art. 113, comma 2, esclude dall’assoggettabilità alle norme del T.U.A. solo le acque meteoriche disciplinate dal comma 1, vale a dire quelle che rimangono tali e che non subiscono alcun tipo di contaminazione (se non quella conseguente al normale dilavamento e alla commistione con polveri e detriti).
In definitiva, quindi, al di fuori delle specifiche ipotesi disciplinate dall’art. 113 T.U.A., le acque meteoriche contaminate, avendo perso la loro originaria natura, saranno qualificabili come reflui industriali in presenza degli ulteriori presupposti richiesti dall’art. 74, lett. h), T.U.A., vale a dire: (i) la diversità rispetto ai reflui domestici; (ii) la provenienza da attività produttive (qualifica, invero, già caratterizzante l’elemento sub. i); (iii) il convogliamento in uno “scarico”, dovendosi altrimenti applicare la normativa relativa ai rifiuti liquidi.
- Alcune riflessioni conclusive
La pronuncia in esame non brilla certamente per accuratezza o innovazione: la Corte non propone letture alternative né si avventura in nuovi orizzonti ermeneutici, motivando piuttosto il proprio convincimento attraverso l’integrale richiamo ai precedenti intervenuti sul tema. In ogni caso, le conclusioni cui perviene, aderenti all’indirizzo maggioritario (se non, in realtà, unico) in tema di qualificazione delle acque meteoriche contaminate quali reflui industriali, sono condivisibili.
Si ritiene che l’interpretazione dell’art. 74, lett. h), T.U.A. abbracciata dalla sentenza in commento costituisca l’unica in grado di impedire che situazioni analoghe, anche sotto il profilo della pericolosità ambientale, finiscano con l’essere trattate diversamente su un piano normativo e sanzionatorio. A ben vedere, infatti, l’adesione all’opposto indirizzo giurisprudenziale secondo cui «non sono qualificabili come reflui industriali le acque meteoriche di dilavamento, anche se contaminate da sostanze o materiali impiegati in stabilimenti commerciali o di produzione di beni» comporterebbe che, non sussistendo i presupposti per l’applicazione dell’art. 113 T.U.A., lo scarico senza autorizzazione di acque piovane contaminate da materiale diverso da polveri o detriti tipici del “dilavamento” rimarrebbe del tutto impunito[16].
É evidente che, su un piano pratico, si impone un maggiore livello di attenzione e controllo da parte delle imprese che, anche laddove non vincolate a specifiche prescrizioni imposte ai sensi dell’art. 113, comma 3, T.U.A., devono verificare che non sussista un rischio di commistione delle acque meteoriche con sostanze o materiali provenienti dalla produzione, con conseguente “trasformazione” delle acque piovane in reflui industriali. Chiara sul punto a sentenza in commento che, nell’evidenziare la corretta qualificazione da parte del giudice di merito dell’acqua presente nelle vasche dell’ex depuratore come reflui industriali, precisa che «tali conclusioni non risultano in alcun modo sconfessate posto che l’impresa conserviera aveva comunque l’obbligo di verificare che i liquidi stagnanti fossero esclusivamente di natura meteorica».
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Cass_Pen_45900_22_nota_RGA_Tanzarella (rev.)
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Cass. III 45900_2022 (Tanzarella)
NOTE:
[1] Il riferimento è a Corte Cass. pen., Sez. III, 30 ottobre 2013, n. 2867.
[2] Come noto, l’art. 137, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 punisce la condotta di chiunque, titolare di un’autorizzazione allo scarico, superi, rispetto a determinate sostanze, i limiti tabellari fissati nel T.U.A.
[3] Si richiama a tal proposito Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 che, partendo dalla definizione di “scarico” fornita dalla giurisprudenza di legittimità, ribadisce che «la disciplina delle acque è applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile, mentre in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si applica la disciplina sui rifiuti». Cfr. sul punto anche Corte Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6998; Corte Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 16623 e Corte Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 2010, n. 22036.
[4] Cfr. punto 5.1.1 della sentenza in commento.
[5] L’art. 74, lett. h), T.U.A., nella sua attuale formulazione, definisce le reflue industriali come «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».
[6] Ai sensi dell’art. 74, lett. g), T.U.A. sono acque reflue domestiche le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche». Sulla scorta di tale definizione, la giurisprudenza in più occasioni ha ribadito che nelle acque reflue industriali, individuate per diversità dalle acque reflue domestiche, «rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente alla coabitazione ed alla convivenza di persone, al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche» (in tal senso, Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 che richiama Corte Cass. pen., sez. III, 15 giugno 2018, n. 51006; Corte Cass. pen., Sez. III, 21 luglio 2016, n. 51889; Corte Cass. pen., Sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3199; Corte Cass. pen., Sez. III, 7 luglio 2011, n. 36982).
[7] Il rinvio è, in particolare, a Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 che, per pervenire alle medesime conclusioni della sentenza in commento, ripercorre nel dettaglio l’iter giurisprudenziale che ha interessato le acque meteoriche di dilavamento.
[8] L’orientamento abbracciato dalla citata sentenza n. 2832/2014 è stato confermato anche da Cass. Pen., Sez. III, 11 gennaio 2018, n. 28725 (con nota critica di Carlo Melzi d’Eril, Sulla assimilabilità di acque meteoriche e acque reflue industriali, in Lexambiente, n. 1/2018); Corte Cass. pen, Sez. III, 5 luglio 2018, n. 46693; Corte Cass. pen., Sez. III, 5 ottobre 2018, n. 6260 (con commento di E. Pomini, La qualificazione delle acque meteoriche di dilavamento contaminate, in questa Rivista, 16 settembre 2019), Corte Cass. pen., Sez. III, 3 luglio 2019, n. 36701 e Corte Cass. pen., Sez. III, 26 ottobre 2021, n. 38196 (con nota di G. Rota, Assimilabilità delle acque meteoriche di dilavamento ai reflui industriali¸ in questa Rivista, 27 dicembre 2021).
[9] In Riv. giur. amb., 2015, p. 62 con nota di A.L. Vergine, L’evanescente certezza del diritto. La “marcia indietro” della Cassazione in tema di acque meteoriche di dilavamento.
[10] Si rinvia a C. Melzi d’Eril, Nota a Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2013, n. 2867, in RGA, 2014, p. 545 che ha accolto con favore l’indirizzo ermeneutico secondo cui le acque meteoriche non sono qualificabili come reflui industriali, anche se contaminate da sostanze o materiali impiegati in stabilimenti commerciali o di produzione di beni.
[11] Si riporta integralmente il passaggio della motivazione relativo alla definizione di acque meteoriche: «oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge. Va pertanto riaffermato il principio di diritto secondo cui le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato, dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi recettori (cfr. Sez. III, sentenza n. 33839 del 2007). Per acque meteoriche di dilavamento si intendono quindi solo quelle acque che cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche non subiscono contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti».
[12] Nello specifico, tale disposizione, al comma 1, assegna alle Regioni il compito di eventualmente introdurre una disciplina per il controllo degli scarichi delle acque di dilavamento, nonché i casi in cui le immissioni delle medesime tramite condotte separate siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione; il comma 2 precisa che le acque non disciplinate ai sensi del primo comma non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti dalla parte terza del Codice Ambiente. Infine, il comma 3 attribuisce alla Regioni il compito di disciplinare «i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici».
[13] In tal senso Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 che richiama Corte Cass. pen., Sez. III, 21 maggio 2008, n. 26543. Tale principio è stato poi ribadito anche dalla pronuncia in commento.
[14] La sentenza Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 cit., richiamata anche dalla pronuncia in commento, ha precisato che «per acque meteoriche di dilavamento debbano, in sostanza, intendersi quelle originate da una precipitazione atmosferica che, non evaporate o assorbite dal suolo, esercitano un’azione di dilavamento della superficie sulla quale scorrono».
[15] Precisa la giurisprudenza (tra tante Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2021, n. 11128 cit) che sono acque di prima pioggia quelle che cadono su una determinata superficie nella fase iniziale della precipitazione atmosferica con effetti di dilavamento maggiormente incisivi in relazione proprio a tale dato temporale ed alle condizioni in cui originariamente versa la superficie raggiunta dalle acque; mentre sono acque di lavaggio quelle utilizzate volontariamente per pulire una determinata superficie mediante il dilavamento indotto.
[16] Tale evenienza è ipotizzata anche da C. Melzi d’Eril, Nota a Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2013, n. 2867, cit. sebbene molto critico, anche nei successivi contributi, rispetto all’orientamento abbracciato anche dalla sentenza in commento.