di Elisa Marini
CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 14 maggio 2021 (dep. 15 giugno 2021), n. 23347 – Pres. Petruzzellis, Est. Galterio – ric. R. C. – N. M.
Ai fini dell’individuazione dell’ingente quantitativo di rifiuti trattati, la circostanza che si tratti di quantitativo ampiamente ricompreso nei limiti dell’autorizzazione non rileva quando la stessa autorizzazione è subordinata al rispetto di specifiche condizioni, la mancata realizzazione delle quali non consente, in difetto di parametri di riferimento, proporzioni di sorta tra i rifiuti astrattamente autorizzati e quelli di fatto gestiti.
- La questione giuridica ambientale oggetto di ricorso
La sentenza in commento ha esaminato – tra le varie questioni prospettate dai ricorrenti – il presupposto dell’«ingente quantitativo di rifiuti» previsto dall’allora art. 260 D.Lgs. n. 152/2006, oggi 452-quaterdecies c.p., definendone i contorni applicativi a fronte di una specifica doglianza difensiva, relativa alla sostenuta circostanza che il quantitativo di rifiuti oggetto di contestazione fosse ampiamente inferiore a quello che gli imputati – nelle rispettive qualità di socio ed amministratore di una società esercente attività di recupero di rifiuti in procedura semplificata – potevano gestire in virtù di regolare autorizzazione.
Segnatamente, nei ricorsi – che sullo specifico punto, lo si anticipa, non sono stati ritenuti meritevoli di accoglimento – veniva lamentato il fatto che la Corte d’Appello di Salerno, nel confermare la condanna inflitta in primo grado, si fosse focalizzata sul solo dato ponderale, senza effettuare un giudizio “complessivo” che tenesse conto anche della effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie.
Al fine di avvalorare la presunta insussistenza di uno degli elementi costitutivi del delitto in contestazione, le difese avevano sottolineato che il quantitativo di rifiuti in oggetto fosse ampiamente ricompreso nei limiti dell’autorizzazione in possesso della società gestita dagli imputati, trattandosi di 1.233 tonnellate a fronte delle 33.700 autorizzate: in sostanza, 1/32esimo del dato ponderale autorizzato.
Il Collegio giudicante riteneva, tuttavia, che tale interpretazione non corrispondesse alla corretta esegesi della norma nello specifico contesto in esame.
- Le motivazioni della sentenza
Dopo aver premesso che la nozione legislativa di «ingente quantitativo» è volutamente elastica – tanto da aver superato questioni di illegittimità costituzionale sollevate in ordine alla sua sostenuta indeterminatezza[1] – in ragione della “esigenza di evitare aprioristici irrigidimenti normativi a fronte di un giudizio che deve necessariamente tenere conto di una serie di variabili concrete quali la tipologia del rifiuto, la sua qualità e le situazioni specifiche di riferimento”, la sentenza in oggetto ha sottolineato che l’elaborazione giurisprudenziale formatasi già sotto la vigenza della abrogata disposizione del T.U.A. (con cui l’art. 452-quaterdecies c.p. si pone, pacificamente, in rapporto di continuità normativa[2]) abbia costantemente ribadito la necessità che l’ingente quantitativo venga individuato considerando il complesso del materiale gestito dal soggetto a cui è ascritto il reato, attraverso “una valutazione complessiva parametrata agli stessi criteri informatori della norma, evidentemente strumentale al contrasto delle più pericolose attività illecite concernenti i rifiuti”.
Da questo presupposto discende l’affermazione – di cui alle pronunce richiamate nella premessa delle motivazioni – secondo la quale “l’ingente quantitativo non può essere individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l’ambiente e nell’ambito del quale l’elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento”[3].
Ed è proprio sul dato ponderale che, da quanto è dato evincere dalle motivazioni, aveva fatto leva la difesa, sottolineando – come detto in apertura – che il quantitativo totale di rifiuti oggetto di contestazione non era che una minima percentuale di quello che la società era astrattamente autorizzata a trattare.
Sul punto, la sentenza ha rilevato che gli imputati avrebbero operato in totale difformità rispetto al contenuto del richiamato titolo abilitativo, senza realizzare alcuna delle opere strutturali previste o provvedere in alcun modo alle operazioni funzionali al trattamento dei rifiuti, ma accumulando in maniera indifferenziata materiali di varia natura e composizione, comprensivi anche di rifiuti pericolosi a diretto contatto col terreno, in condizione di degrado e di abbandono.
Essendo l’autorizzazione subordinata al rispetto di specifiche condizioni, tutte ritenute non soddisfatte, la Corte di Cassazione non ha ritenuto possibile operare proporzioni di sorta tra i rifiuti astrattamente autorizzati e quelli di fatto gestiti: “Conseguentemente, equivalendo il titolo abilitativo conseguito nel concreto ad un tamquam non esset, il quantitativo rinvenuto all’interno dell’azienda, la cui illecita gestione non è oggetto di alcuna specifica contestazione svolta con il presente ricorso (…), non può che ritenersi ingente, sol che si consideri, alla luce del significato semantico che riveste l’attributo nel linguaggio comune, e dunque della sua pregnanza, che le 1.322 tonnellate rinvenute all’esito del sopralluogo non solo erano comprensive di materiali pericolosi (…), ma costituivano i rifiuti trattati nell’arco di neppure sei mesi (…), dovendo la relativa valutazione rapportarsi all’attività abusiva nel suo complesso”.
- Qualche riflessione sulle conclusioni della Suprema Corte
La sentenza in commento si pone in continuità rispetto all’elaborazione giurisprudenziale formatasi sulla definizione del presupposto dell’«ingente quantitativo» previsto in materia di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.
Per quanto, dopo il richiamo delle pronunce che sottolineavano la necessità di una valutazione complessiva (in cui l’elemento ponderale rappresenti solo uno dei parametri di riferimento), si sia affermato che “il suddetto principio interpretativo non si attaglia al caso di specie”[4], la Suprema Corte lo ha, nella sostanza, applicato, dando conto – nel ritenere il relativo motivo di ricorso non meritevole di accoglimento – di una serie di elementi (tra cui la sostenuta pericolosità dei rifiuti e il lasso temporale in cui si sarebbe consumata la condotta illecita) che prescindono dal dato numerico, comunque ritenuto, di per sé, significativo.
In altre e precedenti occasioni, la Corte di Cassazione aveva inoltre stabilito che “nel testo della norma non si rinviene alcun dato che autorizzi a relativizzare il concetto, riportandone la determinazione al rapporto tra il quantitativo di rifiuti illecitamente gestiti e l’intero quantitativo di rifiuti trattati nella discarica, per cui l’ingente quantità dev’essere accertata e valutata con riferimento al dato oggettivo della mole dei rifiuti non autorizzati abusivamente gestiti“[5]: argomento, quest’ultimo, fatto proprio dalla sentenza in commento, che ha rigettato quello della difesa volto a sottolineare l’esiguità dei rifiuti illegittimamente gestiti rispetto a quelli oggetto dell’autorizzazione[6].
Nel sostenere – come evidenziato anche nelle premesse della pronuncia in esame – l’impossibilità di definire a priori la nozione di «ingente quantitativo», la Suprema Corte ha offerto una considerazione di sintesi, nel momento in cui ha affermato che l’individuazione del presupposto de quo costituisce un “apprezzamento in fatto rimesso al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione esente da vizi logici o giuridici”[7], aggiungendo, inoltre, che lo stesso può essere desunto “oltre che da misurazioni direttamente effettuate, anche da elementi indiziari quali i risultati di intercettazioni telefoniche, l’entità e le modalità di organizzazione dell’attività di gestione, il numero e le tipologie dei mezzi utilizzati, il numero dei soggetti che partecipano alla gestione stessa”[8].
Come accade sempre più spesso a fronte di norme di legge – volutamente o meno – poco definite (per non dire indeterminate), è stato rimesso all’interprete il compito di chiarire la portata applicativa del dato quantitativo previsto dall’art. 452-quaterdecies c.p. (come dall’abrogato art. 260 D.Lgs. n. 152/2006): sul punto si è formato un orientamento esegetico – di cui, in questa sede, si è cercato sinteticamente di dar conto – che, pur affermando a chiare lettere i poteri discrezionali dell’organo giudicante, ha, per lo meno, contribuito a circoscrivere i potenziali problemi applicativi legati ad un attributo del tutto svincolato da limiti-soglia[9], offrendo parametri di riferimento che sono stati costantemente confermati, da ultimo nella sentenza in commento.
Resta, tuttavia, l’opportunità di una riflessione sul tema sollevato dal ricorso: un’impresa autorizzata al trattamento o al trasporto di rifiuti gestisce necessariamente – in quanto si tratta anche di soglie indicate nell’autorizzazione o inquadrate dalle stesse categorie di iscrizione all’Albo – quantitativi di rifiuti che sono senz’altro (nella comune accezione) ingenti, il che comporta un maggior fattore di rischio, anche per imprese operanti al di fuori da qualsivoglia circuito di criminalità, di incorrere nella contestazione del gravoso delitto in esame[10].
Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.
Cass. III – 23347_2021 (nota marini)
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RGA Online – Marini – contributo settembre 2021 (def.)
Note:
[1] A tal proposito, la sentenza ha richiamato Corte Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2008, n. 358, che, a sua volta, ha ripreso Corte Cass. pen., Sez. III, 16 dicembre 2003, n. 47918, che aveva già ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata – in relazione all’art. 25 Cost. – per contrasto con i principi di determinatezza e tassatività della norma, nella parte in cui l’individuazione dell’ingente quantitativo di rifiuti è rimessa al giudice e non è preventivamente individuata dal legislatore, in quanto il relativo giudizio “risulta condizionato, di volta in volta, dalla tipologia del rifiuto, dalla sua qualità, dalla situazione specifica del caso concreto”.
[2] In tal senso, ex multis: Corte Cass. pen., Sez III, 12 aprile 2019, n. 16036; Corte Cass. pen., Sez III, 4 giugno 2018, n. 24859.
[3] Sul punto, nello stesso senso, si vedano anche Corte Cass. pen., Sez. III, 30 settembre 2019, n. 39952, Corte Cass. pen., Sez. III, 9 novembre 2016, n. 46950 e Corte Cass. pen., Sez. III, Ord. 6 dicembre 2012, n. 47229.
In dottrina si segnala V. Paone, Traffico illecito di rifiuti: cosa cambia? in Ambiente & Sviluppo, 6/2018, p. 383, che si è pronunciato affermando che deve essere “compiuta una valutazione complessiva del fatto anche in considerazione della natura di reato di pericolo presunto della violazione penale la cui previsione è finalizzata alla tutela della pubblica incolumità”.
[4] Si ipotizza, a livello interpretativo, che con tale espressione la Suprema Corte intendesse affermare che le “variabili concrete” (quali la tipologia del rifiuto, la sua qualità e le situazioni specifiche di riferimento) individuate dalla giurisprudenza non possano rilevare a fronte di una situazione ritenuta complessivamente abusiva e completamente stridente rispetto al titolo abilitativo, oppure – in altri termini – che non possano trovare applicazione le potenziali ripercussioni favorevoli derivanti dalle menzionate sentenze.
[5] Corte Cass. pen., Sez. III, 13 luglio 2004, n. 30373; più di recente, nello stesso senso, Corte Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2015, n. 9224.
[6] Altre sentenze hanno precisato, in passato, come il requisito dell’ingente quantitativo debba essere vagliato anche attraverso la comparazione con le fattispecie contravvenzionali previste in tema di rifiuti. Sul punto si segnala Corte Cass. pen., Sez. III, 3 febbraio 2006, n. 4503.
[7] Corte Cass. pen., Sez. III, 22 giugno 2015, n. 26182. Per approfondimenti sul tema si rimanda ad A. Galanti, Il traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità, in Diritto Penale Contemporaneo, 12/2018, p. 38.
[8] Corte Cass. pen., Sez. III, 11 gennaio 2018, n. 791.
[9] Sul punto si veda ancora V. Paone, op. e loc. cit.
[10] Per un’analisi critica in ordine alla circostanza che la fattispecie di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. sia, nella prassi, collegata non solo a contesti di criminalità organizzata (in virtù dell’inserimento nel corpus dell’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), ma anche, e soprattutto, a realtà imprenditoriali che operano in virtù di regolari autorizzazioni si segnala R. Losengo, Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e diritto vivente: ancora attuale e ragionevole la collocazione tra i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p.?, in Lexambiente – Rivista trimestrale di diritto penale dell’ambiente, 4/2020, pp. 1 e ss.