Le misure cautelari personali per il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti

Le misure cautelari personali per il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti

di Alberto Galanti

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 15 luglio 2021 (dep. 7 settembre 2021), n. 33087 – Pres. Di Nicola, Est. Reynoud– ric. L. O.

Con riferimento al delitto di cui l’art. 452 quaterdecies c.p., il legislatore ha previsto una doppia presunzione cautelare, sia pure relativa, avente ad oggetto la sussistenza delle esigenze cautelari e l’adeguatezza della misura custodiale carceraria; ciò in forza dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, e dell’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, che contempla, tra gli altri, anche il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p..

Le esigenze cautelari non possono ritenersi venute meno per effetto dell’intervenuto sequestro dei beni aziendali, dovendosi osservare che oggetto del pericolo ex art. 274 c.p.p., lett. c), è la reiterazione non dello stesso identico fatto di reato oggetto di contestazione, bensì di delitti della stessa specie, tra cui quelli che offendono il medesimo bene giuridico e quelli che presentano uguaglianza di natura in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive.

  1. Premessa

La sentenza che qui si annota tocca un aspetto poco “battuto” nella prassi giudiziaria, quello delle misure cautelari personali applicabili (o applicande) nei procedimenti per il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti di cui all’articolo 452 quaterdecies c.p.

È ancora frequente, infatti, imbattersi in provvedimenti in cui le richieste di misure cautelari personali vengono genericamente valutate con riferimento alla esistenza delle esigenze cautelari, ovvero della loro attualità, o ancora in provvedimenti che dispongono misure non coercitive in ragione dell’insussistenza di ragioni per disporre la misura di massimo rigore.

Tali pronunce, tuttavia, non tengono conto della particolare collocazione del delitto in parola all’interno del codice di rito. Ed infatti l’art. 11 della Legge 13 agosto 2010, n. 136 (“Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al governo in materia di normativa antimafia”) ha incluso nel catalogo dei reati di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia l’articolo 260 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (ora 452 quaterdecies c.p.[1]), modificando a tal uopo l’art. 51, comma 3 bis c.p.p.

Tale inserimento riverbera importanti conseguenze (anche) in tema di misure cautelari, come reiteratamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità.

Ma, prima di analizzare il contenuto delle pronunce, occorre fare un passo indietro.

  1. I principi sottesi alle misure cautelari personali coercitive

Le misure cautelare personali coercitive, normalmente, possono essere disposte in presenza di una serie di requisiti, che devono sussistere congiuntamente[2]:

  1. i “gravi indizi di colpevolezza” (art. 273 c.p.p.), da valutarsi ai sensi degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1 c.p.p.

Va tuttavia sottolineato come secondo la giurisprudenza ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, la nozione di indizi di colpevolezza non coincide con quella applicabile per la formulazione del giudizio finale di colpevolezza, bastando, in sede cautelare, l’emersione di “qualunque elemento probatorio idoneo a fondare una qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato[3].

Analogamente, va evidenziato come, in ragione della natura “strumentale” della misura cautelare rispetto al merito, “una volta intervenuta una decisione di merito (anche se non ancora definitiva), resta ormai precluso al giudice della cautela fornire una difforme ricostruzione della vicenda operata in sede di giudizio (per effetto di una diversa valutazione in fatto e/o in diritto) e ciò per evidenti ragioni di certezza e razionalità del sistema (cfr. Corte Cass. pen., Sez. I, 10 agosto 2006, n. 29107; Corte Cass. pen., Sez. I, 8 agosto 2006, n. 28378; Corte Cass. pen., Sez. I,28 gennaio 1998, n. 6825), nonché per l’ovvia funzione servente che il procedimento cautelare ha riguardo a quello di merito, rispetto al quale non può certo porsi come sede decisoria alternativa e potenzialmente in conflitto. La giurisprudenza di legittimità ha fissato il descritto principio non solo con riferimento al tema della gravità indiziaria ma anche in rapporto alla valutazione delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p.

In altre parole, l’avvenuta condanna costituisce preclusione processuale a che gli stessi fatti vengano diversamente delibati nel procedimento incidentale de libertate[4];

  1. la sussistenza di almeno una delle tre “esigenze cautelari” di cui all’articolo 274 c.p.p., che determini un pericolo “attuale e concreto” di inquinamento delle prove, fuga o reiterazione del reato[5]. Va evidenziato come l’aggiunta, da parte del legislatore del 2015, del requisito dell’“attualità”, oltre che della concretezza, comporta un rigoroso scrutinio, da parte del giudice, della esistenza di “occasioni prossime favorevoli” alla commissione di nuovi reati[6];
  2. l’“idoneità” (o adeguatezza) della misura in relazione “alla natura e al grado” delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (art. 275 comma 1 c.p.p.)[7];
  3. la “proporzionalità” della misura all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si presume possa essere irrogata. Circa l’estensione della valenza del principio nel corso dell’esecuzione della misura, le Sezioni Unite della Corte[8] hanno precisato che “il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale”;
  4. solo per le misure limitative o privative della libertà personale, una “prognosi negativa” circa la concessione della sospensione condizionale della pena[9].

I due principi di proporzionalità e adeguatezza costituiscono a loro volta espressione, secondo la migliore dottrina, di un principio immanente a tutta la materia delle misure cautelari personali, quello di “gradualità”[10].

Nel sistema delineato dal codice, pertanto, la custodia cautelare in carcere assumerebbe un valore “quasi eccezionale”, come si desume dalla disposizione secondo cui il giudice, nel disporre la custodia cautelare in carcere, deve motivare in ordine alle “concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. non possono essere soddisfatte con altre misure” (art. 292, comma 2, lett. c) bis c.p.p.).

  1. La presunzione di cui all’articolo 275, comma 3 c.p.p.

Tuttavia, per i reati inseriti nel catalogo di cui all’articolo 51, comma 3 bis, c.p.p. (ed alcuni altri delitti, v. infra, nota 11), le regole dianzi evidenziate subiscono una deroga. Per i reati in parola, infatti, l’articolo 275 c.p.p., relativo ai “criteri di scelta del­le misure”, al comma 3, ultima parte, stabilisce che “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3 bis [e 3 quater] del presente codice (…) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure[11].

In sostanza, la norma prevede una “presunzione juris tantum[12] di idoneità e proporzionalità della misura inframuraria: dovrà essere in concreto dimostrata la suf­ficienza di misure di minor rigore rispetto a quella custodiale per applicare misure gradate.

Tale disposizione è stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale. Essa, nel valutare della legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4 bis, del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (per il quale vigeva una presunzione “assoluta” di idoneità della misura custodiale), ha avuto modo di chiarire che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010)”.

Secondo la Corte, l’evenienza ora indicata era puntualmente riscontrabile in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in cui risultava riferita, tra gli altri, tanto ai delitti a sfondo sessuale (sentenza n. 265 del 2010), quanto all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), quanto, ancora, all’associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del 2011)[13]. A tali figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata dalla Corte in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità.

Nel concludere per l’illegittimità costituzionale della norma scrutinata, il Giudice delle Leggi ha tuttavia ritenuto costituzionalmente ineccepibile il caso che qui occupa: “ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”. Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).[14].

La norma in esame introduce quindi un “giudizio semplificato” quanto alle esigenze cautelari in relazione a tali reati, determinando un’inversione dell’onere dalla prova: in presenza di gravi indizi di colpevolezza si presumono sia la sussistenza delle esigenze cautelari, sia l’idoneità e la proporzionalità della misura custodiale “a meno che”, in concreto, non si rinvengano elementi, da indicare in modo chiaro e preciso, che facciano ritenere sufficienti misure di minor rigore o addirittura l’insussistenza di esigenze cautelari.

La giurisprudenza ha poi recentemente ribadito che la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere “è prevalente, in quanto speciale, rispetto alla norma generale stabilita dall’art. 274 cod. proc. pen.; ne consegue che se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. detta presunzione fa ritenere sussistente, salvo prova contraria, i caratteri di attualità e concretezza del pericolo (sez. 5, n. 26371 del 24/07/2020, Carparelli, rv. 279470; sez. 3, n. 33501 dell’08/03/2016, Barra, rv. 268644; sez. 6, n. 29807 del 04/05/2017, Nocerino, rv. 270738).[15].

Pertanto il Giudice deve procedere in un percorso logico articolato nel modo che segue:

  1. a) il “giudizio predittivo” del Giudice comporterà, nei casi in cui vige la presunzione relativa di pericolosità e di adeguatezza del carcere, la “normalità” della valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari e l’adeguatezza del carcere;
  2. b) solo qualora emergano, in positivo, o meglio “siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che l’insussistenza delle esigenze cautelari e la possibilità che siano soddisfatte con altre misure”, il giudice dovrà procedere a valutare tali elementi;
  3. c) solo dunque l’“acquisizione di elementi specifici” consentirà la valutazione dell’adeguatezza di altra misura, altrimenti non consentita;
  4. d) nel momento e nel caso in cui siano “acquisiti tali elementi specifici”, il Giudice dovrà comunque valutarli unitamente agli altri elementi tratti dal caso concreto.

Riassumendo, “la presunzione relativa di pericolosità sociale prevista dall’art. 275, comma 3, inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis, ma soltanto di apprezzamento delle ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione (sez. 1, n. 45657 del 06/10/2015, Varzaru, rv. 265419; in senso conforme Cass., sez. 1, n. 5787 del 21/10/2015, Calandrino, rv. 265986; sez. 6, n. 23012 del 20/4/2016, Notarianni, rv. 267159)”[16].

Sul punto della “attualità” delle esigenze cautelari, va tuttavia segnalata Corte Cass. pen., Sez. VI, 25 marzo 2016, n. 12669, secondo cui “in tema di esigenze cautelari, l’art. 274, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., così come novellato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, per il quale è necessaria la sussistenza di un pericolo di reiterazione del delitto non solo concreto ma anche attuale, va riferito anche alle ipotesi di obbligatoria custodia in carcere previste dall’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., rispetto alle quali, quindi, la presunzione di esistenza di ragioni cautelari viene vanificata solo qualora sia dimostrata l’inattualità di situazioni di pericolo cautelare”.

Analogamente altra giurisprudenza[17] ritiene che la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato, e si tratti, in particolare, di un reato non permanente (caso diverso da quello in esame, come si vedrà nel paragrafo che segue), ha una portata più limitata e “il giudice ha l’obbligo di motivare puntualmente in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull’esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari (Fattispecie in tema di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n, 153, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203)”.

Ciò, in particolare, ove si tratti di “tempo silente”, da definirsi come “quello non segnato da condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità che ove, invece, risultino presenti non faranno che confermare o non incrinare il quadro presuntivo affermato dalla norma[18].

Il giudice dovrà quindi “stabilire se si tratti o meno di condotte criminose distinte e successive rispetto a quelle contestate in via cautelare, idonee ad attribuire un significativo contenuto di pericolosità al trascorso lasso temporale. Per l’indicato percorso non potrà peraltro attribuirsi rilievo a sopravvenuti titoli giudiziali che abbiano sì attinto l’indagato nel lasso di tempo in considerazione, ma per condotte pregresse o coeve a quelle in scrutinio e che, come tali, non possono apprezzarsi come sintomatici di attuale pericolosità e quindi di contrasto degli elementi da cui risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari[19].

In sostanza, la Corte riconosce la “tendenziale capacità del dato cronologico di affievolire le esigenze cautelari, circostanza cui è possibile far fronte con un impianto motivazionale appropriato che rappresenti elementi vettorialmente opposti[20].

Tuttavia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che “la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere posta dall’art. 275, comma 3 c.p.p. è operante non solo nell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, ma, qualora permangano le esigenze cautelari, anche per tutte le successive vicende de libertate, ed, in particolare, nel caso di richiesta di sostituzione della misura[21]. La presunzione è quindi dotata di una “ultrattività” rispetto al suo momento genetico, dispiegando i suoi effetti anche nella successiva fase cautelare.

  1. La presunzione di cui all’articolo 275, comma 3 c.p.p. in riferimento all’art. 452 quaterdecies c.p.

Per quanto concerne più in particolare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti[22], la Cassazione ha affermato che “in caso di presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari, vi è una presunzione, relativa, di adeguatezza della sola misura custodiale intramuraria al fine di garantire il rispetto delle predette esigenze. Tale presunzione può di essere superata solo sulla base di una valutazio­ne, avente un carattere analitico, degli elementi peculiari del caso in esame i quali consentono di affermare che le esigenze cautelari riscontrate nella fattispecie siano suscettibili di essere soddisfatte anche con altre più blande misure[23].

La Corte, in dettaglio, riteneva solo “apparente” la motivazione addotta dal Tribunale del riesame di Bari, che giustificava l’applicazione di misura meno afflittiva sulla presenza di un solo precedente penale, “fattore questo privo di consistenza ai fini di elidere il peri­colo di reiterazione del reato laddove si sia ritenuto (…) che vi è comunque pericolo di reiterazione delle condotte criminose del tipo di quelle per cui vi sono indagini in ragione della ritenuta pericolosità dell’indagato legata al suo modus operandi, all’uso di potenti mezzi meccanici espressamente dedicati alla realizzazione del reato ed alla sostanziale professionalità dimostrata da quello nel reiterato compimento delle con­dotte criminose – e che non vi sono elementi da cui dedurre l’eventuale inosservanza da parte sua di una misura cautelare meno afflittiva di quella di massimo rigore”.

Recentemente, la Corte aveva ribadito che il delitto in parola è “retto da una doppia pre­sunzione relativa in materia cautelare: una riguardante la sussistenza delle esigenze cautelari e l’altra riguardante l’adeguatezza della custodia cautelare in carcere[24].

Con la sentenza che si annota, la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che “con riferimento al delitto di cui l’art. 452-quaterdecies cod. pen., il legislatore ha previsto una doppia presunzione cautelare, sia pure relativa, avente ad oggetto la sussistenza delle esigenze cautelari e l’adeguatezza della misura custodiale carceraria; ciò in forza dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., a tenore del quale “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis (…), del presente codice (…) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”, e l’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. contempla, tra gli altri, anche il delitto di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen.”.

In riferimento alla giurisprudenza analizzata nel paragrafo precedente, poi, va evidenziato che la particolare connotazione del reato in parola come reato abituale[25], ossia, “di durata”, consente di ritenere che la valutazione del “lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato” andrà valutato, al fine di escludere la sussistenza in concreto di esigenze cautelari, in modo più severo rispetto ai delitti a consumazione istantanea, proprio in ragione della durata nel tempo del delitto contestato.

  1. Conclusioni

In conclusione, va sottolineato come la presunzione in parola operi nei procedimenti relativi al delitto in argomento e che la precisa motivazione in ordine alle ragioni per le quali, in concreto, non sia possibile ricorrere ad una valutazione di insussistenza delle esigenze cautelari o di sufficienza di misure meno afflittive di quella carceraria, costituisce preciso dovere da parte del giudice in sede di motivazione del provvedimento cautelare, che non potrà limitarsi all’ordinario vaglio, “in positivo”, della sussistenza dell’esigenza cautelare e della necessità del ricorso alla misura inframuraria, ma dovrà, al contrario, valutare “in negativo”, la presenza di elementi escludenti le esigenze cautelari o tali da consentire in concreto il ricorso ad una misura gradata, senza ricorrere a clausole di stile o motivazioni semplificate.

Tuttavia, la circostanza che il delitto in parola non sia sempre correlato a contesti di criminalità organizzata di tipo mafioso o similare rende inapplicabili al caso di specie pronunce, quali quelle relative alla dissociazione ai fini della valutazione del tempo trascorso dal fatto, tipicamente riferibili a quel contesto criminale[26].

Così, parimenti, bisognerà tenere conto in concreto della circostanza che frequentemente gli indagati sono soggetti che non fanno dell’attività illecita la loro unica fonte di sostentamento: nella maggior parte dei casi, infatti, l’attività illecita è strettamente connessa ad attività lecita e autorizzata, per cui effettuare rigidi automatismi può risultare azzardato.

Tutte queste sono circostanze che, nella valutazione della eventuale insussistenza di esigenze cautelari, o di adeguatezza di misure meno afflittive di quella custodiale il giudice, e prima di lui il pubblico ministero, dovranno fare ingresso e dovranno trovare rigorosa spiegazione, anche se la citata Cassazione n. 34142/2020 ha precisato che l’omessa considerazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata risulta irrilevante quando l’ordinanza non si fondi su tale elemento (il “contesto di maturazione dei delitti o dell’ambiente di appartenenza”), bensì “sulla personalità dell’imputato, come desunta dalle modalità del fatto e dalle circostanze dell’azione”.

In chiusura, occorre dare conto anche dei rapporti che intercorrono tra le misure cautelari personali e quelle reali. Non è infrequente infatti imbattersi in provvedimenti che negano l’esistenza del pericolo di reiterazione del reato a fronte della contestuale adozione del sequestro preventivo (impeditivo) dello stabilimento, opificio o delle cose comunque utilizzate per la commissione del reato di cui all’articolo 452-quaterdecies c.p.

Sul punto, la sentenza che si commenta è chiara, precisando che le esigenze cautelari non possono ritenersi “venute meno per effetto dell’intervenuto sequestro dei beni aziendali, dovendosi osservare che oggetto del pericolo ex art. 274, lett. c), cod. proc. pen. è la reiterazione non dello stesso identico fatto di reato oggetto di contestazione, bensì di delitti della stessa specie, tra cui quelli che offendono il medesimo bene giuridico e quelli che presentano uguaglianza di natura in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive (cfr. Sez. 6, n. 47887 del 25/09/2019, I., Rv. 277392)”.

Al fine di ribaltare la presunzione, pertanto, occorrerà motivare non dell’impossibilità di reiterare quello specifico reato, ma reati della stessa specie rispetto a quello per cui si procede, in tale formula ritenendosi inclusi anche gli altri delitti inclusi nel Titolo VI-bis (quali l’inquinamento o il disastro ambientale), il delitto di cui all’articolo 256 bis D.Lgs. n. 152/2006 (combustione illecita di rifiuti), nonché altri delitti contro la pubblica incolumità diretti alla compromissione di matrici ambientali (quali gli artt. 439 e 440 c.p.).

Non potranno invece essere prese in considerazione le altre violazioni del testo unico ambientale, stante la loro natura contravvenzionale.

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galanti – nota a Cass. III, 33087_2021 (rev. em)

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cass. pen., Sez. III, 33087_2021 (galanti)

[1] L’art. 3, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, emanato in attuazione del principio della riserva di codice nella materia penale, ha inserito nel codice penale l’originaria norma incriminatrice contenuta nel Testo Unico Ambientale (T.U.A.), abrogando contestualmente la vecchia norma (art. 7 comma 1 lettera q). L’articolo 51, comma 3 bis, c.p.p., non è stato tuttavia aggiornato con la nuova nomenclatura. Comunque, l’articolo 8, comma 1 del citato D.Lgs. stabilisce che “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto”. La tabella A, allegata al decreto, alla riga 17, contiene l’espresso riferimento alle due disposizioni. Si deve ritenere, quindi, che non si sia verificata alcuna aporia nel tessuto normativo del codice di procedura penale, anche se sarebbe opportuno un piccolo maquillage formale per adeguare le disposizioni del codice alla nuova sistematica.

[2] Per una ampia ed esaustiva disamina sul tema, si rinvia a C. De Robbio, Le misure cautelari personali, Giuffrè, 2016.

[3] Così A. Cavaliere, I presupposti per la disposizione ed i criteri di scelta delle misure cautelari personali, pubblicato on line sul sito www.diritto.it, 6 maggio 2019, che cita Corte Cass. pen., Sez. IV, 15 dicembre 2016, n. 53369.

[4] Corte Cass. pen., Sez. VI, 19 febbraio 2014, n. 8016. È il c.d. “principio di assorbimento”, in riferimento al quale si rinvia a F. Tribisonna, Il principio di assorbimento in materia cautelare reale: nessuna rivalutazione del fumus commissi delicti dopo il passaggio dal sequestro preventivo alla confisca, pubblicato on line sul sito www.processopenaleegiustizia.it, n. 4/2017.

[5] Corte Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2018, n. 5821, ha icasticamente riassunto il contenuto delle 3 esigenze cautelari:

– il “pericolo di inquinamento probatorio” va identificato in tutte quelle situazioni in cui l’indagato abbia dimostrato, con la propria condotta illecita o sulla base della personalità manifestata, di voler inquinare le prove e deve essere ancorato a comportamenti concreti dell’interessato;

– quanto al “pericolo di fuga”, è imprescindibile che vi siano elementi indicativi della volontà dell’indagato di sottrarsi alla giustizia, che non possono essere evinti da una sua particolare condizione soggettiva preesistente, senza condotte concrete cui ancorarsi, pur non essendo necessaria la presenza di segni di un’attività già in atto. Sono quindi dati meramente “statici”, e insufficienti, il fatto che un indagato prevalentemente viva ovvero abbia interessi commerciali e professionali in un Paese dell’Unione europea; la disponibilità di alloggi e conti correnti, ovvero la mera residenza, all’estero, quando il trasferimento non sia finalizzato a sottrarsi alle conseguenze giudiziarie del proprio operato;

– quanto al “pericolo di reiterazione del reato”, è necessario prevedere, in termini di alta probabilità, che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti della stessa specie, e quindi valutare se permane la situazione di fatto che ha reso possibile o, comunque, agevolato la commissione del delitto per il quale si procede.

[6] Dopo la novella introdotta con la L. 47/2015, la Cassazione ha delineato in modo chiaro i connotati del requisito in parola:

– Corte Cass. pen., Sez. III, 15 settembre 2015, n. 37087, secondo cui “non è più sufficiente ritenere – in termini di certezza o di alta probabilità – che l’imputato torni a delinquere qualora se ne presenti l’occasione, ma è anche necessario, anzitutto, prevedere – negli stessi termini di certezza o di alta probabilità – che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti”;

– Corte Cass. pen., Sez. IV, 28 ottobre 2015, n. 46803, secondo cui “la novella della legge 47/2015, posto che la stessa si è semplicemente limitata a recepire, rendendo esplicita la lettera della legge, l’orientamento interpretativo che ha sempre richiesto una rigorosa valutazione e motivazione nell’applicazione delle misure cautelari in dipendenza del decorso di un periodo significativo di tempo dalla commissione del fatto rispetto all’adozione dell’ordinanza cautelare”;

– Corte Cass. pen., Sez. II, 25 novembre 2015, n. 46649: “in tema di misure coercitive, la distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare, giacché tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare, comporta un rigoroso obbligo di motivazione sia in relazione a detta attualità sia in relazione alla scelta della misura (ex ceteris: Cass. Sez. 4, sent. n. 24478 del 12/03/2015, dep. 08/06/2015, Rv. 263722”;

–  Corte Cass. pen., Sez. VI, 24 novembre 2015, n. 46617: “il requisito dell’attualità è collegato alla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, distinguendosi da quello della concretezza, inteso come sussistenza di elementi di valutazione non meramente congetturali sulla base dei quali possa affermarsi che l’imputato, verificandosi l’occasione, possa facilmente commettere reati che offendono lo stesso bene giuridico di quello per cui si procede (in termini v. Sez. 5, sent. n. 24051 del 15/05/2014, Lorenzini e altro, Rv. 260143)”;

– Corte Cass. pen., Sez. VI, 20 novembre 2015, n. 46080: “ai fini della valutazione del pericolo che l’imputato commetta delitti della stessa specie, il requisito della concretezza non si identifica con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello  dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendano lo stesso bene giuridico”;

– Corte Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 2015, n. 45920: “con la riforma di cui alla I. n. 47 del 2015, invece, il legislatore richiede che l’ordinanza applicativa o confermativa della misura contenga specifiche indicazioni anche in ordine all’attualità del pericolo (concreto) stesso, da ricavare dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati. Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi”;

– Corte Cass. pen., Sez. IV, 26 settembre 2016, n. 39854: “Come è noto, “attualità” dell’esigenza cautelare non costituisce un predicato della sua “concretezza”. Si tratta, infatti, di concetti distinti, legati l’uno (la concretezza) alla capacità a delinquere del reo, l’altro (l’attualità) alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza, anche se desumibile dai medesimi indici rivelatori (specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell’indagato o imputato), deve essere autonomamente e separatamente valutata, non risolvendosi il giudizio di concretezza in quella di attualità e viceversa (Sezione III, 18 dicembre 2015, Gattuso)”.

[7] C. Morselli, L’ambidestrismo della Cassazione penale nella ricostruzione della motivazione in sede di adozione dell’atto impositivo della custodia cautelare in carcere, in Giurisprudenza Penale Web n. 1/2020, sottolinea come “in materia di misure cautelari, a fronte della tipizzazione da parte del legislatore di un “ventaglio” di misure di gravità crescente, il criterio di “adeguatezza” di cui all’art. 275, comma 1, del c. p. p., dando corpo al principio del “minore sacrificio necessario” (anche ribadito dalla Corte costituzionale, nella sentenza 22 luglio 2011 n. 231), impone al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelare ravvisabili nel caso di specie” (Corte Cass. pen., S.U., 19 maggio 2016, n. 20769).

[8]  Corte Cass. pen., S.U., 22 aprile 2011, n. 16085.

[9] L. Fidelio, Custodia in carcere e prognosi sanzionatoria: la proporzionalità delle misure tra predizione e realtà, pubblicato su Questione Giustizia, 10 maggio 2021, sottolinea l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza. Rileva l’Autore come “Secondo un primo indirizzo, il limite di tre anni di pena detentiva deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura cautelare ma non anche nel corso della protrazione della stessa, di tal che l’irrogazione all’esito del giudizio di una pena non superiore a tre anni di reclusione non comporta alcuna automatica caducazione della misura inframuraria (così, da ultimo, Cass. Pen. Sez IV n. 21913/2020 RV 27929901 e, nello stesso senso, Cass. Pen. Sez VI n. 47302/2015 Rv 265339 e Cass. Pen. Sez IV n. 13025/2015 Rv 262961)”. Ad avviso di un altro orientamento, al contrario “il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275, comma 2-bis, c.p.p., opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite (così Cass. Pen. Sez. Feriale n. 26542/2020 Rv 279632 e, nello stesso senso, più di recente, Cass. Pen. Sez V n. 4948/2021 Rv 280418)”.

[10] G. Di Chiara, art. 281, in Commento al Codice di procedura penale, 15 aprile 1993, Torino, 1993, p. 103, secondo cui “il principio di gradualità, plasticamente espresso dall’ampia tipologia di misure di afflittività crescente tratteggiate dal codice, segna la chiave di volta dell’impianto, da cui scaturiscono gli ulteriori principi di proporzionalità e adeguatezza che si riflettono in correlativi parametri di scelta offerti al giudice dall’art. 275 c.p.p..

[11] Ai sensi della prima parte del secondo periodo, invece, “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Per tali reati non è quindi consentito il ricorso a misure meno afflittive della custodia cautelare in carcere. Viceversa, la Corte Costituzionale, con sentenza 26 marzo 2015, n. 48, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo periodo di tale comma, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis codice penale, è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

[12] Prima dell’art. 4 della Legge 16 aprile 2015, n. 47, che ha modificato la norma in esame nel testo attuale, la presunzione di idoneità era “assoluta”. La modifica fu resa necessaria da una se­rie di pronunce della Corte Costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione “assoluta” con riferimento da un lato ai delitti commessi con “metodo mafioso” o per agevolare l’attività di associazioni mafiose (sentenza n. 57 del 2013) e, dall’altro, al concorso esterno in associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), nelle quali si è fatto leva proprio sulla insussistenza, rispetto agli autori di tali delitti, di quelle caratteristiche di “appartenenza”, tendenzialmente perdurante, al sodalizio mafioso su cui si basa la (legittima) presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere rispetto ai partecipi dell’associazione (così, testualmente, Corte Costituzionale, sentenza n. 447/2020).

[13] A partire dal 2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione a singole figure delittuose comprese nel catalogo di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 11/2009. In particolare, tale presunzione è stata giudicata illegittima rispetto:

– ai delitti di pornografia minorile, violenza sessuale aggravata e atti sessuali con minorenne, di cui rispettivamente agli artt. 600 bis, primo comma, 609 ter e 609 quater c.p. (sentenza n. 265 del 2010);

– al delitto di omicidio di cui all’art. 575 c.p. (sentenza n. 164 del 2011);

– al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”) (sentenza n. 231 del 2011);

– a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) (sentenza n. 331 del 2011);

– al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, di cui all’art. 416 c.p., finalizzata alla commissione dei delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p. (sentenza n. 110 del 2012);

– ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, e cioè ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (sentenza n. 57 del 2013);

– ai delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 c.p. (sentenza n. 213 del 2013);

– al delitto di violenza sessuale di gruppo, di cui all’art. 609 octies c.p. (sentenza n. 232 del 2013);

– al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. (sentenza n. 48 del 2015).

Viceversa, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 191/2020 ha ritenuto costituzionalmente legittima la norma nella parte in cui pone una presunzione relativa di esistenza e adeguatezza in ordine al delitto di partecipazione all’associazione terroristica. Sul tema si veda A. Fortunato, Le misure cautelari coercitive. La presunzione assoluta dell’art. 275 c.p.p. e i dubbi di costituzionalità, pubblicato on line sul sito www.altalex.com, 2021.

[14] La soluzione della Corte è contestata da chi, in dottrina (A. De Francesco, Sulle presunzioni legali in tema di custodia cautelare – Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 16 dicembre 2011, n. 331, pubblicato on line sul sito www.filodiritto.com, 2012), ritiene che se “dovere del giudice di applicare la custodia cautelare, sussistendo il periculum, può trovare in casi del tutto eccezionali un fondamento di accettabilità istituzionale, è chiaro che non si può per ciò stesso ammettere che il Legislatore sia libero di prevedere la custodia in carcere come la misura generalmente adeguata ai fini cautelari ed in ogni caso che si possa considerarla accettabile in via di principio solo che sia ammessa la “prova contraria” della sua adeguatezza al fine”. Senza entrare nel merito della questione, va tuttavia sottolineato come la Corte non abbia “sdoganato” un utilizzo generalizzato delle presunzioni relative in sede cautelare, ma confinato le stesse ad ipotesi di “semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato”.

[15] Corte Cass. pen., Sez. I, 16 novembre 2020, n. 32142.

[16] Corte Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 2017, n. 13132.

[17] Corte Cass. pen., Sez. V, 6 giugno 2018, n. 25670.

[18] Corte Cass. pen., Sez. I, 17 ottobre 2019, n. 42714.

[19] Sottolinea F. Lombardi (Il decorso del tempo nel giudizio cautelare: l’attualità del pericolo di reiterazione e l’obbligo motivazionale, pubblicato in Giurisprudenza Penale Web n. 7-8/2020) come la giurisprudenza ritenga che mentre il “tempo silente” trascorso dalla commissione del reato deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’art. 292, comma 1, lett. c), c.p.p., da parte del giudice che emette l’ordinanza genetica, analoga valutazione non è richiesta dall’art. 299 c.p.p. ai fini della revoca o della sostituzione della misura, rispetto alle quali l’unico tempo che assume rilievo è quello trascorso dall’applicazione o dall’esecuzione della misura, essendo esso qualificabile, in presenza di ulteriori elementi, come fatto sopravvenuto da cui poter desumere il venir meno ovvero l’attenuazione delle originarie esigenze cautelari (Corte Cass. pen., Sez. II, 19 febbraio 2020, n. 12807).

[20] F. Lombardi, cit., p. 4, che rinvia a A. Macrillò, Il pericolo di reiterazione ex art. 274 comma 1, lett. c), c.p.p. dopo la L. n. 47 del 2015 al vaglio della Cassazione, in Dir. pen. e proc., 2016, 4, 487 ss.

[21] Corte Cass. pen., S.U., 10 settembre 2012, n. 34473. Per un commento alla sentenza si rinvia a E. Farinelli, L’ambito di operatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in Archivio Penale, 2012. Sottolinea la Corte, oltre alla natura eccezionale della norma, che: 1. non risponderebbe a criteri di logica – avuto riguardo alla ratio della disposizione quale individuata già sulla scorta del dato letterale – imporre, per delitti ritenuti dal legislatore di particolare gravità, l’adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva; 2. Mentre il primo comma dell’articolo 275 c.p.p. dice che la misura custodiale è “disposta” (con evidente riferimento al momento genetico della misura)) solo se le altre sono inadeguate, il comma 3 dice che è “applicata”; 3. nell’art. 299 c.p.p., che pur contiene le disposizioni che disciplinano la revoca e la sostituzione delle misure, vi è, nell’incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di adeguatezza di cui all’art. 275, comma 3 c.p.p.

[22] Il tema è già stato affrontato da chi scrive in A. Galanti, I delitti contro l’ambiente – analisi normativa e prassi giurisprudenziali, Pacini, 2021, p. 337 ss.

[23] Corte Cass. pen., Sez. III, 3 novembre 2020, n. 30629.

[24] Corte Cass. pen. Sez. III, 16 aprile 2021, n. 14248.

[25] Sul punto si vedano, ex plurimis, Corte Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2009, n. 46705; 8 luglio 2010, n. 29619; 15 ottobre 2013, n. 44449; 14 dicembre 2016, n. 52838.

[26] Si legga, ex plurimis, la citata Corte Cass. pen., Sez. I, n. 13132/2017, secondo cui è in ogni caso escluso, onde evitare pericolosi automatismi, che il mero dato oggettivo del tempo trascorso dal compimento delle condotte illecite addebitate possa costituire un elemento di per sé solo sufficiente a consentire il superamento della presunzione suddetta tenuto conto della specifica natura di reato permanente della partecipazione ad associazione di stampo mafioso, soprattutto ove sia accertata la perdurante vitalità dell’organismo criminoso, richiedendosi l’indicazione anche di elementi dimostrativi della dissociazione o comunque dell’allontanamento in senso fisico o delinquenziale da parte dell’affiliato-imputato.