di Vincenzo Morgioni
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 16 luglio 2018, n. 7042 – Pres. Di Nicola – Rel. Aceto
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte di Cassazione contribuisce a plasmare il poliedrico concetto di “rifiuto”, fulcro della disciplina dettata dal D.lgs. 152 del 2006 – Testo unico in materia Ambientale (da adesso anche solo T.U.A.) e, per quel che rileva in questa sede, elemento costitutivo della fattispecie criminosa di cui all’art. 256 del T.U.A., definendo l’ambito di applicazione dell’art. 185 del medesimo decreto il quale, come noto, sottrae alla parte quarta del T.U.A. (appunto dedicata alla gestione dei rifiuti) gli scarti derivanti dallo sfruttamento delle cave.
La pronuncia in esame prende le mosse dal ricorso presentato avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Firenze che, confermando la statuizione del Giudice di prime cure, riteneva l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 256 del T.U.A. per aver esercitato l’attività di smaltimento dei rifiuti liquidi provenienti dall’attività di lavaggio di inerti presenti nelle cave in assenza delle prescritte autorizzazioni amministrative.
Secondo la ricostruzione prospettata in primo grado e confermata dalla Corte d’Appello, l’imputato, legale rappresentante della società gestrice delle due cave, era stato autorizzato unicamente all’esercizio di attività estrattiva di materiale lapideo ornamentale e allo scarico di acque reflue industriali, mentre non era in possesso di alcuna autorizzazione per la gestione e lo smaltimento dei fanghi derivanti dal lavaggio del materiale di cava, da considerarsi a tutti gli effetti rifiuti.
Nello specifico, questi ultimi erano prodotti in abbondanza dai siti produttivi e scaricati senza alcuna autorizzazione “in modo diffuso e non controllabile su tutta la superficie della cava attraverso la rete di naturale infiltrazione delle acque nel suolo”.
Avverso tale decisione, l’imputato ricorreva avanti alla Suprema Corte deducendo, tra l’altro, l’erronea applicazione dell’art. 185 del d.lgs. n. 152 del 2006 per il quale sono sottratti alla disciplina dedicata alla gestione dei rifiuti dal citato decreto e alle relative conseguenze penali, “i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento di cave”.
Ebbene, riprendendo l’orientamento uniforme sinora espresso, la Corte ha ribadito il principio di diritto per il quale “i fanghi derivanti dal lavaggio di inerti provenienti dalla cava non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti solo quando rimangono all’interno del ciclo produttivo dell’estrazione e della connessa pulitura, mentre quando si dia luogo ad una loro successiva e diversa attività di lavorazione devono considerarsi rifiuti sottoposti alla disciplina generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica”.
La Corte, dunque, non si è discostata dal proprio orientamento ormai granitico, assumendo che i fanghi derivanti dallo sfruttamento delle cave potrebbero assumere una duplice forma e, di conseguenza, un diverso trattamento giuridico.
Nello specifico, questi ultimi risulterebbero soggetti alla disciplina dei rifiuti soltanto quando non derivino direttamente dall’attività estrattiva, ricomprendente tutte le fasi strettamente connesse allo scavo, alla raccolta e alla prima pulitura del materiale lapideo.
Diversamente, qualora frutto di una lavorazione successiva dei materiali estratti, tali sostanze ricadrebbero nella disciplina dei rifiuti con la conseguente rilevanza penale del loro accumulo, trattamento o smaltimento in assenza di prescritta autorizzazione amministrativa.
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