di Elena Felici e Luca Montolivo
Cassazione Civile, Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 4004 – Pres. Spirito, C. c. Provincia Autonoma di Trento e Assicuratori Lloyd’s Londra
“In tema di responsabilità extracontrattuale, il danno cagionato dalla fauna selvatica in circolazione è risarcibile dalla P.A. non ex art. 2052 c.c., essendo lo stato di libertà della selvaggina incompatibile con qualsiasi obbligo di custodia, ma, anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 157 del 1992, in forza dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che spetta al danneggiato provare la condotta colposa causalmente efficiente dell’ente pubblico. In particolare, il dovere della P.A. di predisporre dispositivi specifici per avvisare dei rischi o scoraggiare l’attraversamento degli animali può trovare fondamento solo in norme particolari poste a tutela di chi si trovi ad attraversare un certo territorio in una situazione di concreto pericolo, da valutare “ex ante”, quale è, con riguardo all’utilizzo della rete viaria, l’art. 84, comma 2, reg. es. c.d.s., che impone, a fini general-preventivi e sulla base di un principio di precauzione, l’installazione di segnali “quando esiste una reale situazione di pericolo sulla strada, non percepibile con tempestività da un conducente che osservi le normali regole di prudenza”. (massima ufficiale)
Con la presente decisione la Corte di Cassazione si pronuncia nuovamente sulla tematica concernente la natura della responsabilità della pubblica amministrazione per danni cagionati da fauna selvatica ed il relativo regime normativo.
La sentenza in oggetto, in particolare, cassa il pronunciamento della Corte d’Appello di Trento che, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda del ricorrente volta ad ottenere la condanna della Provincia Autonoma di Trento al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale cagionato dall’investimento di un capriolo, sull’assunto che, ai sensi dell’articolo 2043 c.c., non fosse ascrivibile un concreto comportamento colposo all’ente pubblico.
La Corte di Cassazione, in primo luogo, richiama la propria consolidata giurisprudenza in materia di individuazione dell’Ente cui sia in concreto riconducibile la responsabilità in oggetto, affermando che la “responsabilità extracontrattuale per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, anche in attuazione della legge n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che trovino la fonte in una delega o concessione di altro ente»”. (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 80 del 08/01/2010; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 21395 del 10/10/2014; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 18952 del 31/07/2017).
Tale orientamento sottolinea, pertanto, la necessità di stabilire a quale ente spettino tali poteri, innanzitutto in base alle leggi nazionali e regionali che regolano le competenze e la delega di funzioni, con la conseguenza che la questione è suscettibile di soluzioni diverse nell’ambito delle diverse regioni.
In secondo luogo, ma non meno importante, che si debba indagare che la delega sia effettiva e che l’ente delegato sia posto concretamente in condizioni di esercitarla con la messa a disposizione di adeguate risorse economiche.
Orbene, nel caso di specie, risultava confermato che la legge aveva delegato in concreto i poteri gestori in materia di fauna selvatica in favore della Provincia di Trento, e, pertanto, quest’ultima risultava esposta alla responsabilità per i danni cagionati da animali selvatici.
Sotto questo profilo la Corte di Cassazione supera per tabulas il più risalente orientamento giurisprudenziale che individuava nella Regione l’ente in ogni caso responsabile quale titolare della funzione normativa, di programmazione e di controllo in detta materia, ai sensi della L. 11 febbraio 1992 n. 157, anche nel caso di delega gestoria a favore della Provincia.
Dopo aver risolto la problematica preliminare afferente all’individuazione dell’Ente competente in relazione al giudizio di ascrizione della responsabilità, la Corte di Cassazione passa alla questione, logicamente successiva, concernete l’individuazione del regime normativo del danno cagionato da fauna selvatica.
Come noto, prima dell’entrata in vigore della legge–quadro sulla caccia n.968 del 1977 i danni provocati da fauna selvatica erano considerati non risarcibili, essendo res nullius gli animali in libertà.
La legge citata cambia i termini della questione, in quanto all’art. 1 (poi ribadito dall’art. 1, legge 157 del 1992), dichiara la selvaggina patrimonio indisponibile dello Stato, così implicitamente individuando il soggetto a cui imputare, in quanto proprietario, la responsabilità per tali danni.
Da ciò discende l’ulteriore questione, ferma la natura extracontrattuale della responsabilità, del criterio di imputazione della stessa, che la giurisprudenza ha affrontato chiedendosi se tale fattispecie trovasse la sua fonte negli artt. 2051- 2052 c.c., ovvero nell’art. 2043 c.c.
In questa direzione la Suprema Corte afferma il principio di diritto in forza del quale la responsabilità della P.A. in materia di danno da fauna selvatica non è equiparabile a quella inerente al controllo sugli animali di cui si abbia una custodia o detenzione, e, pertanto, il danno non è risarcibile né ai sensi dell’art. 2051c.c., né ai sensi dell’art. 2052 c.c., essendo lo stato di libertà della selvaggina incompatibile con qualsiasi obbligo di custodia a carico della P.A..
In relazione all’art. 2051 c.c., va ricordato, infatti, che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, la presunzione (iuris tantum) di responsabilità, fondata sull’obbligo di custodia, opera contro la P.A. solo quando, per quest’ultima, sia concretamente possibile esercitare un controllo effettivo sulla cosa che genera o provoca il danno.
Con riferimento all’art. 2052 c.c., invece, la giurisprudenza appare piuttosto pacifica nel sottolineare la necessità del rapporto di fatto tra l’animale e il soggetto responsabile dei danni.
La responsabilità della P.A. per i danni cagionati dagli animali selvatici nel territorio di competenza viene valutata, per contro, entro la cornice del danno aquiliano, ex art. 2043 c.c., con tutte le relative conseguenze. Da ciò discende in particolare, la necessità per il soggetto danneggiato di provare la condotta colposa dell’ente pubblico causalmente efficiente rispetto al danno provocato dall’animale[1].
Il soggetto danneggiato, sul quale grava l’onere della prova, dovrà dimostrare oltre agli elementi fondanti la responsabilità ex art. 2043 c.c. – nesso di causalità (giuridica e materiale) tra il fatto e il danno, la colpevolezza e l’imputabilità del fatto lesivo anche l’illiceità del fatto e l’apporto causale della stessa rispetto al danno.
Sarà quindi necessario provare il fatto storico consistente nello scontro con l’animale, l’imputabilità all’impatto dei danni presenti all’autovettura ed il loro ammontare, e, infine, l’esistenza di una specifica condotta colposa dell’Ente che sia eziologicamente connessa al proprio danno e non interrotta da una propria condotta imprudente.
La sentenza in commento specifica, inoltre, che la pretesa di predisporre dispositivi specifici, miranti ad avvisare l’esistenza del pericolo, ovvero a scoraggiare o a impedire l’attraversamento di animali selvatici a tutela degli utenti della strada, non può derivare dalla finalità di protezione delle specie animali e dall’attribuzione dei relativi poteri agli enti territoriali, ma deve rinvenire il proprio fondamento in specifiche norme che impongono alla P.A. di adottare misure preventive a tutela di chi si trova ad attraversare territori in una situazione di concreto pericolo.
La Pubblica Amministrazione non sempre, dunque, è responsabile dei danni cagionati agli utenti della strada dagli “animali vaganti”.
Il dovere di controllo sugli stessi è infatti finalizzato al solo perseguimento di un interesse pubblico consistente nel mantenimento di un corretto e programmato “equilibrio ecologico” (es: censimento, programmazione abbattimento per alta concentrazione in una data zona, etc.).
Ne deriva che non è imposta alla P.A l’attuazione di generali misure di protezione e di sorveglianza atte ad evitare incidenti, fatta salva la concreta segnalazione di pericoli non adeguatamente considerati e per i quali sarebbe lecito pretendere un intervento.
Sotto tale profilo, la norma di riferimento viene individuata nell’ art. 84, comma 2, Reg. Codice della Strada che dispone che il segnale di pericolo deve essere installato quando esiste una reale situazione di pericolo sulla strada, non percepibile con tempestività da un conducente che osservi le normali regole di prudenza.
Il giudizio controfattuale su cui si fonda l’imputazione della responsabilità colposa ex art. 2043 c.c. ha dunque un esito positivo, con conseguente affermazione della responsabilità della Provincia di Trento; l’apposizione di un cartello di pericolo, in altri termini, al pari dell’apposizione di altra tipologia di dissuasori o di un guard rail continuo, sarebbero state tutte misure di prevenzione che, ove adottate dall’ente pubblico, avrebbero potuto contenere il rischio di impatto violento con animali e, pertanto, evitare il verificarsi dell’evento di danno.
Da questo punto di vista la Corte di Cassazione sovverte gli esiti cui erano pervenuti i pronunciamenti di primo e di secondo grado che avevano respinto la domanda risarcitoria sull’assunto che ai sensi dell’art. 2043 c.c., non fosse ascrivibile un concreto comportamento colposo all’ente pubblico ( Provincia Autonoma di Trento), ritenendo irrilevante l’assenza di segnaletica su quel tratto di strada e, quindi, non ravvisabile la violazione di un obbligo specifico di predisporre misure atte a scongiurare il sinistro, in mancanza di una situazione di concreto rischio di presenza, sul luogo dell’impatto, di un numero rilevante ed incontrollato di animali selvatici.
Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato (estratto dal sito della Corte di Cassazione)
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[1] In questo senso si veda anche Cass. Civ. Sez. III, 28 agosto 2019, n. 21757, annotata in questa rivista.