di Eva Maschietto
Consiglio di Stato, Sez. IV 2 maggio 2022, n. 3424 – (Pres. Poli, Est. Gambato Spisani) – V. S.p.A. (Avv. S. Grassi) c. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (ora della transizione ecologica), Ministero dello sviluppo economico, Ministero della Cultura e Ministero della salute (Avv. gen. Stato), ARPA, ISPRA, ISS, ATS Mantova e altri nei confronti di E. S.p.A. (Avv.ti A Degli Esposti, W.F. Troise Mangoni e R. Villata), INAIL (Avv.ti A. Amato, V. Zammataro e R. Tomba), Comune di Mantova (P. Gianolio)
In materia di bonifica di siti contaminati, ai fini di arginare la contaminazione anche storica di un sito inquinato le misure di sicurezza di emergenza possono essere imposte al proprietario non colpevole della contaminazione del sito sulla base del principio di precauzione, analogamente a quelle di prevenzione, perché non hanno carattere punitivo ma precauzionale.
Il Consiglio di Stato si pronuncia con una decisione di inedita spinta rigorista sugli obblighi del proprietario incolpevole nei procedimenti ambientali, inasprendo le già pesantissime statuizioni del TAR Brescia sul punto (oggetto di commento critico in relazione a una sentenza gemella in questa rivista[i]), anche in accoglimento del ricorso incidentale in appello interposto dal Ministero.
La vicenda riguarda il Polo chimico di Mantova, uno dei siti di interesse nazionale più sfidanti per gli appassionati di operazioni di bonifica intese in senso ampio e una vera e propria palestra di questioni giuridiche per gli studiosi di diritto ambientale. Chi si occupa di questa materia conosce le numerose battaglie giudiziarie che hanno visto contrapporsi le diverse imprese insediate nel sito allo Stato (impersonato dal Ministero ora della Transizione Ecologica e prima dell’Ambiente nelle sue declinazioni) e alle amministrazioni locali competenti nella definizione di complessi procedimenti ambientali[ii]. Il Polo chimico di Mantova, come esordisce il Consiglio di Stato, infatti, “per fatto notorio, è un complesso di industrie chimiche e petrolchimiche, esteso per circa 10 km quadrati, che si trova sul lato dei laghi di Mantova opposto all’abitato, è attivo dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso ad oggi e, per il grave inquinamento da esso determinato, è stato classificato ai fini della sua bonifica e del ripristino ambientale come “sito di interesse nazionale” dall’art. 1 comma 4 lettera p novies) della l. 9 dicembre 1998 n.426 e perimetrato con D.M. 7 febbraio 2003”. Un sito di interesse nazionale (SIN) che è stato oggetto di diversi passaggi societari tra il 1957 al 1991 nell’ambito del principale gruppo chimico italiano dell’epoca almeno fino all’inizio degli anni ’90 quando, dopo un periodo di aggregazione comune tramite joint venture, è subentrato nella proprietà il principale gruppo energetico italiano.
Le questioni giuridiche esaminate dal Consiglio di Stato nella sentenza che si commenta sono diverse, ma il fulcro tecnico della vertenza riguarda un’area esterna agli stabilimenti inquinata da alcuni riporti connessi all’impianto per la produzione c.d. “cloro-soda”, che è rimasto in funzione dal 1957 al 1991 in uno degli stabilimenti e il cui esercizio ha causato un inquinamento importante soprattutto da mercurio (disperso dagli elettrodi utilizzati nel particolare processo produttivo).
Il caso che ci occupa, tuttavia, non prende in considerazione la posizione dei responsabili della contaminazione (la cui responsabilità fu allocata dalla Provincia tra due soggetti, uno responsabile per il 99,57% e l’altro per il residuo) ma si occupa esclusivamente dei doveri della società proprietaria del sito (V.) a prescindere dalla sua responsabilità. Questa, essendo una società che produce e commercializza derivati del petrolio, non ha mai utilizzato il mercurio e di conseguenza non è mai stata ritenuta responsabile dalle autorità competenti per danno ambientale relativo alla specifica tipologia di contaminazione derivante dalla produzione di cloro-soda; essendo risultata destinataria di provvedimenti connessi alla messa in sicurezza e bonifica del sito esclusivamente nella sua qualità di proprietario e gestore attuale dell’area.
La vertenza riguarda un’area specifica, denominata “la Valletta” interna al SIN, ma esterna allo stabilimento (e quindi accessibile al pubblico), interessata da diversi precedenti ricorsi al TAR Brescia, oggetto della decisione n. 1144 del 25 agosto 2016[iii] e della decisione n. 833 del 2019 riguardanti, il primo, il persistente obbligo di mettere in opera ulteriori misure di prevenzione nonostante vi fosse una barriera idraulica in opera e, il secondo, una serie di prescrizioni volte all’adozione di diverse misure in relazione all’asserita pericolosità dell’area per le persone.
Il Consiglio di Stato ci propone alcune lapidarie considerazioni che inchiodano la posizione del proprietario del sito, sia pur incolpevole, proponendo un’interpretazione decisamente dilatata di suoi obblighi sulla base del principio di precauzione.
Il Collegio esordisce ricordando come nei giudizi di impugnazione si applichi rigidamente il principio del tempus regit actum per cui “la legittimità dell’atto impugnato va valutata con riguardo esclusivo alla situazione di fatto e di diritto esistente nel momento in cui esso fu emanato, restando irrilevanti le eventuali sopravvenienze successive”[iv]. E fin qui, la statuizione potrebbe risultare neutra poiché la stessa appellante lamentava che nel primo dei due giudizi le misure imposte dal Ministero non risultassero necessarie.
In secondo luogo, puntualizza come nelle materie tecnico scientifiche l’amministrazione possieda una discrezionalità ampia, anzi amplissima, così ampia che le sue decisioni “quindi possono essere sindacate in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di risultati abnormi o evidentemente illogici e contraddittori”, non essendo invece ovviamente consentito chiedere al giudice di emettere pronunce sostitutive nelle questioni tecniche. Il Consiglio di Stato cita al riguardo un proprio precedente in materia di AIA e VIA (la decisione della seconda sezione n. 5379 del 2020) che, tuttavia, pur pronunciandosi in ambito totalmente diverso (quello dell’impatto delle valutazioni), sembra affermare proprio il contrario, precisando che “vero è che l’Amministrazione, nel formulare il giudizio sull’impatto ambientale, esercita un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in una mera valutazione tecnica, come tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa ed istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con la conseguenza che il sindacato del giudice amministrativo in materia è necessariamente limitato alla manifesta illogicità ed incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria”. Il precedente, quindi, quando si occupa di discrezionalità tecnica, afferma che la medesima sarebbe suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, limitando il sindacato del giudice (in modo meno ampio di quanto proposto nella sentenza che si commenta, comunque) ai soli casi di pura discrezionalità amministrativa su valutazioni extra-tecniche. In effetti, l’esperienza comune condurrebbe a ritenere che fattori tecnici, quali quelli derivanti dalla necessità di approntare misure ulteriori di prevenzione in un sito munito di barriera idraulica, ben possano essere scrutinati nel merito tecnico tramite verificazione o consulenza tecnica di ufficio. Se è condivisibile, quindi, quanto affermato dal supremo Collegio, secondo cui gli studi di parte non sono sufficienti a scardinare un giudizio tecnico dell’amministrazione, si ritiene certamente possibile che gli stessi possano fondare la base per una richiesta di verificazione o di consulenza tecnica di ufficio che determini quale delle posizioni sia corrispondente alla migliore scienza ed esperienza. Ci si permette di soggiungere, inoltre, che tali determinazioni dovrebbero essere effettuate sulla base della migliore scienza ed esperienza in senso evolutivo e cioè proprio tenendo conto di quei progressi che in questa materia, così come in molte altre, si determinano in brevissimo tempo, portando a importanti mutamenti di prospettiva, a volte anche rivoluzionari.
Sulla base dell’enunciazione di questi principi e dell’osservazione che il nesso causale è accertato sulla base della teoria c.d. “del più probabile che non”[v], quindi, la decisone affonda la posizione dell’appellante.
Senza entrare in questa sede nei dettagli della decisione, si deve rilevare una significativa audacia del Supremo Collegio in alcuni passaggi motivazionali: i giudici si appellano al “semplice senso comune” e a un “ovvio dato di esperienza” quando commentano il trasporto degli inquinanti attraverso il dilavamento, affermando che non vi sarebbe alcuna abnormità o illogicità nelle richieste dell’amministrazione di approfondimento dell’indagine vista la notorietà del processo. La contrapposizione da parte del privato di tre studi di parte, in questo senso, non sarebbe sufficiente a superare il senso comune e l’ovvio dato di esperienza. Nella sostanza, quindi, il valore delle perizie tecniche di una società ambientale (la cui mera supervisione da parte di un’Università viene inserita tangenzialmente, non essendo ritenuta sufficientemente pregnante) non supera il dato di esperienza dell’uomo comune e sembra questa la motivazione del rigetto del primo dei due ricorsi riuniti (quello più risalente). Anche il secondo appello non trova miglior sorte e, anzi, viene accolto l’appello incidentale dell’amministrazione. A questo riguardo la statuizione che definitivamente inchioda la posizione del proprietario incolpevole e che determina un precedente estremamente negativo è quella per cui il Collegio decisamente afferma che le misure di messa in sicurezza di emergenza sarebbero senz’altro richiedibili a un proprietario incolpevole per costante giurisprudenza.
In proposito, la decisione propone una lettura estremamente restrittiva della decisione della Corte di Giustizia UE sez. III 4 marzo 2015 C 534-13, per cui l’impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile si giustificherebbe solo per la natura sanzionatoria della bonifica e si ricollega al precedente (relativo al sito di Porto Marghera nella decisione della stessa sezione n. 1658 del 2021, sull’appello alla decisione del TAR Veneto, III n. 6 del 2018) di cui cita in maniera testuale i passaggi motivazionali, osservando che si tratterebbe appunto di costante giurisprudenza (sono citati anche i precedenti delle sezioni VI e V n. 81 del 2019 e 1089 del 2017 e 1509 del 2016).
In realtà, deve sottolinearsi come tale giurisprudenza non sia affatto costante (e, lo si sarà intuito, ad avviso di chi scrive, niente affatto condivisibile), essendo stata smentita anche recentemente da una attenta giurisprudenza dei TAR che rilevano come solo le misure di prevenzione siano legittimamente imponibili al proprietario non responsabile della contaminazione, dovendo la messa in sicurezza di emergenza dar conto di una riconducibilità dell’evento a una responsabilità del proprietario, anche per via presuntiva. In questo senso l’ottimo TAR Lazio, Roma, Sezione III – 5 settembre 2019, n. 8970[vi] che ricorda altre significative pronunce conformi (dello stesso Consiglio di Stato, ad esempio la n. 3756 del 2015 e la n. 4425 del 2015) e soprattutto si fonda sul chiaro dato normativo di cui all’art. 245 del D.Lgs. 152 del 2006 e pure sulle due ordinanze di rimessione del medesimo Consiglio di Stato all’Adunanza Plenaria n. 21 del 25 settembre 2013 e n. 25 del 13 novembre 2013. Tali pronunce fondano un principio sacrosanto di diritto per cui “nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
Le misure di sicurezza di emergenza sono cosa ben diversa dalle misure di prevenzione alle sole quali può ricondursi l’eccezionale applicazione del principio di precauzione a un soggetto per il quale non sia provata non solo una responsabilità soggettiva, ma neppure la sussistenza di un nesso causale nella generazione dell’inquinamento.
Si segnala, peraltro, al riguardo una recentissima decisione dello stesso Consiglio di Stato (diversa sezione VI), con la sentenza 4445 del 2022 che afferma – in un passaggio, ma si avrà modo di vedere come anche questa decisione non sia del tutto univoca – come “resta fermo che il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell’inquinamento (c.d. proprietario incolpevole) e che non sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale – per una sua condotta commissiva od omissiva – sia imputabile l’inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502, e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604)”.
Ci si domanda se, a distanza di meno di dieci anni, sia giunto il momento di ripresentarsi dinanzi all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato per tornare a un’interpretazione non solo letterale della norma, ma certamente più in linea con il carattere assolutamente eccezionale degli obblighi del proprietario di un sito contaminato cui la situazione ambientale non sia riconducibile neppure sotto un profilo meramente causale.
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Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.
NOTE
[i] Commento a TAR Brescia I, 831/2019 (nota di chi scrive) in RGA Online.
[ii] Si vedano, oltre al commento in nota (i), i commenti su questa rivista alle sentenze del CdS (IV) 2195/2020 (nota di chi scrive), TAR Brescia I, 142/2021 (nota di EM Volonte’),
[iii] Altra decisione che ha visto in parte soccombere l’amministrazione resistente.
[iv] Corte cost., ordinanza 13 aprile 2018 n.76 e sentenza 22 maggio 2013 n.90; Cons. Stato, sez. IV, 3 giugno 2021 n. 4246; sez. III, 15 maggio 2012 n.2801.
[v] Per cui si vedano – tra le moltissime – le sentenze TAR Lombardia, Milano, Sez. III – 2 dicembre 2019, n. 2562 (commento di P. Roncelli), TAR Puglia, Bari, Sez. I, 16 settembre 2021 n. 1367 (commento di R. Gubello), TAR Sicilia Catania Sez. I – 15 settembre 2020, n. 2174 (commento di E. Pomini).
[vi] Commentato da chi scrive in questa stessa rivista.