La complessa identificazione del materiale di riporto. analisi e proposte per un nuovo approccio alla tematica

La complessa identificazione del materiale di riporto. analisi e proposte per un nuovo approccio alla tematica

di Federico Vanetti 

T.A.R. LOMBARDIA – Milano, Sez. III – 18 dicembre 2019, n. 2691 – Pres. Di Benedetto – Est. Plantamura – IRE SGR S.p.A. (Avv. Sanguini) c. Comune di Milano (Avv. Bartolomeo)

La collocazione relativamente recente del materiale e la sua provenienza dalla demolizione delle case preesistenti sono due aspetti convergenti nell’evidenziare la mancanza, nella fattispecie, dell’orizzonte stratigrafico richiesto dalla normativa ai fini della qualificazione del materiale di riporto.

Nel caso in cui l’amianto perda la sua originaria destinazione (essendo state demolite le case di cui costituiva il rivestimento), la classificazione del materiale in questione deve essere di rifiuto speciale pericoloso, non assoggettabile a bonifica. 

La sentenza in commento si rivela di particolare interesse in quanto rappresenta l’occasione per tornare ad affrontare l’annosa tematica dell’inquadramento giuridico del materiale di riporto, la cui sussistenza viene esclusa nella fattispecie in esame sul presupposto che il materiale antropico frammisto a terreno derivi da recenti attività di demolizione e che lo stesso, inoltre, contenga “amianto” al suo interno.

Come noto, i materiali di riporto (o semplicemente “riporti”, il cui rinvenimento risulta ormai diffuso all’interno delle aree urbanizzate) sono definiti dal legislatore come “una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafo specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per riempimenti, di rilevati e reinterri” (art. 3, c. 1 D.L. 2/2012).

Il DM 161/2012 – oggi abrogato – precisava ulteriormente che, in caso di riporti, l’utilizzo di materiale antropico doveva essere avvenuto “nel corso dei secoli”, facendo dunque intendere la necessità che tale materiale, poi compattatosi con terreno naturale, risultasse estremamente risalente nel tempo.

Tale principio – sebbene contenuto in una disposizione non più vigente – è stato comunque fatto proprio dalla giurisprudenza amministrativa, la quale qualifica i riporti come materiale risalente che, utilizzato in passato per la realizzazione di riempimenti, rilevati e reinterri, ha avuto modo (e tempo) di stratificarsi e sedimentarsi nel suolo a profondità variabili, diventando un tutt’uno con la matrice suolo preesistente e determinando in tal modo la creazione di un nuovo orizzonte stratigrafo assimilabile al suolo medesimo[1]. Ad analoga conclusione è giunta anche la decisione in commento.

Occorre, tuttavia, domandarsi se il materiale derivante da demolizioni debba essere sempre e necessariamente qualificato come rifiuto ovvero possa eventualmente costituire “riporto” ai sensi delle disposizioni di legge applicabile, con conseguente sottoposizione di quest’ultimo al “test di cessione”[2] al fine di attestare l’assenza di fonti di contaminazione[3].

La risposta, secondo la sentenza in commento, parrebbe essere negativa, in quanto il d.lgs.152/2006 [4] e il DPR 120/2017[5] qualificano espressamente i residui di demolizione quale rifiuti.

Sebbene la conclusione del TAR risulti sostanzialmente condivisibile con riferimento al caso di specie (rispetto al quale si discuteva di demolizioni eseguite negli anni ’90, periodo in cui esisteva già una disciplina sulla gestione dei rifiuti), non è scontato ritenere che il medesimo principio debba applicarsi indistintamente a tutte le situazioni in cui i materiali di riporto contengano residui derivanti da attività di demolizione.

A parere di chi scrive, infatti, laddove l’assunto “residuo da demolizione uguale rifiuto” venisse applicato indistintamente a tutte le fattispecie, si giungerebbe a svuotare la definizione normativa di riporto atteso che, nella stragrande maggioranza dei casi, il materiale antropico frammisto a terreno è riconducibile ad attività demolitorie. Un caso lampante sono gli strati di riporto/macerie ancora presenti nelle nostre città e risalenti agli eventi bellici verificatisi nel corso della seconda guerra mondiale.

Proprio alla luce di tale esempio, ad avviso di chi scrive, occorrerebbe fare un distinguo: se il “riporto” è stato originato a seguito di una attività illecita (es. abbandono nel terreno di materiali da demolizione, quando già vigeva un obbligo di conferimento di tali materiali in impianti autorizzati), lo stesso deve essere qualificato come rifiuto e gestito come tale. Di contro, invece, qualora il “riporto”, pur contenendo macerie da demolizioni, sia riconducibile ad un periodo storico in cui la materia non era regolamentata, ovvero sia riconducibile ad attività lecite e/o eventi straordinari (es. calamità naturali o simili), lo stesso dovrebbe ricadere nella specifica disciplina recentemente introdotta dal legislatore e dunque essere potenzialmente equiparato al suolo.

Nel caso di specie, il TAR ha affrontato anche una ulteriore questione, ritenendo che la presenza di materiali contenenti amianto (MCA) nel terreno e/o nel riporto debbano essere di per sé qualificati come rifiuti e quindi rimossi e conferiti in impianti a ciò debitamente autorizzati.

In particolare, il percorso argomentativo seguito dai giudici fa sostanzialmente leva su esigenze di salute pubblica che non consentirebbero la realizzazione di interventi di bonifica su MCA laddove l’originaria utilizzazione di questi ultimi sia venuta meno[6], con potenziale dispersione delle relative fibre nell’ambiente. Tale considerazione troverebbe infatti la propria ragion d’essere – sempre secondo il TAR – in una precisa scelta legislativa (L. 257/1992[7] in materia di amianto) la quale, classificando come rifiuti[8]qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua destinazione d’uso e che possa disperdere fibre di amianto nell’ambiente in concentrazioni superiori” ai parametri di legge, ne imporrebbe esclusivamente lo smaltimento presso impianti di trattamento autorizzati[9].

In senso conforme deporrebbero anche le indicazioni recentemente fornite dal Consiglio del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente – SNPA con delibera 54/2019[10].

Tuttavia, anche in questo caso, si ritiene opportuno avanzare una ulteriore riflessione più filosofica che giuridica, ossia la effettiva sostenibilità economica e ambientale degli interventi, nonché l’effettivo perseguimento di una reale tutela della salute.

Infatti, assumendo che la presenza di MCA sia all’interno di uno strato di riporto “legittimo”, occorre domandarsi se la messa in sicurezza di tale materiale non sia un intervento idoneo a gestire anche il rischio salute.

La risposta meriterebbe sicuramente un approfondimento di natura tecnica, ma in linea di principio la messa in sicurezza permanente di un terreno/riporto è una misura evidentemente volta ad interrompere i percorsi di rischio, inclusi quelli riferibili alla salute umana (contatto e inalazione).

Tale impostazione, peraltro, risulterebbe pienamente in linea con la tendenza (oggigiorno particolarmente marcata) volta a favorire gli interventi on site rispetto a quelli off site, così da evitare la movimentazione di terreni e mezzi con conseguente produzione di CO2, nonché la saturazione degli impianti di trattamento dei rifiuti.

Pertanto, sebbene sia evidente che la tematica della gestione dell’amianto ponga problematiche delicate ed altamente sensibili, è comunque auspicabile che, in un’ottica di apertura verso la sostenibilità ambientale ed economica degli interventi di bonifica e della gestione del rischio, vengano riconsiderate le modalità di gestione di tali materiali, fermo restando quanto più sopra precisato in merito alla possibilità o meno di qualificarli come riporti.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato

Vanetti_TAR Lombardia 2691-2019

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NOTE:

[1] Ex multis, TAR Lombardia – Brescia, 29 agosto 2016, n. 1161.

[2] Previsto sia dal D.L. 2/2012 sia dal D.P.R. 120/2017 in materia di terre e rocce da scavo. Tale test è altresì definito “leaching test” e consiste in “una prova simulata di rilascio di contaminanti, effettuata ponendo in contatto per un tempo definito un solido con un lisciviante – agente separatore – e separando quindi le due fasi per ottenere un eluato (liquido prodotto all’esito del test” (TAR Lombardia – Milano n. 2638/2015). In altre parole, la funzione del test di cessione è pertanto quella di determinare il rilascio dei costituenti dei materiali e il potenziale inquinamento dell’ambiente con tali costituenti in un periodo di tempo lungo. La presenza di materiali di riporto nel caso in cui contengano elementi lisciviabili, può configurarsi, infatti, come un elemento di rischio per la qualità delle acque sotterranee.

[3] Per lungo tempo ci si è domandati come dovessero essere trattati i c.d. “riporti non conformi” al test di cessione, i quali erano stati inizialmente considerati rifiuti dalla Provincia di Milano che, con l’ordine di servizio del 29 novembre 2010, aveva di fatto posto la problematica.

Detta tematica – oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale – parrebbe tuttavia essere stata definitivamente superata in tempi recenti con circolare del Ministro dell’Ambiente n. 15786 del 10/11/2017 (il cui contenuto è stato altresì confermato dal Consiglio Nazionale per la Protezione dell’Ambiente – CSNA – con delibera 54/2019, nella quale si afferma che alla “rimozione delle matrici materiali di riporto e messa in sicurezza permanente si applica la normativa sulle bonifiche ed in particolare l’art. 240 del d.lgs. n. 152/2006”, rimanendo invero sottoposte alla normativa sui rifiuti quelle operazioni di trattamento volte rendere conformi le matrici materiali di riporto al test di cessione), con la quale è stato chiarito che la gestione dei riporti non conformi ai limiti del test di cessione debba avvenire nell’ambito delle procedure di bonifica previste dal D.lgs. 152/2006, rappresentando questi vere e proprie “fonti di contaminazione”.

Si noti che detto intervento chiarificatore si rivelava altresì necessario in quanto i giudici amministrativi (i quali, in linea con il dettato normativo di cui D.L. 2/2012, avevano iniziato dal 2013 a negare la qualifica di rifiuti ai riporti non conformi) consideravano la procedura dettata dal D.L. 2/2012 una “disciplina speciale e peculiare” rispetto a quella generale sulla bonifica dei siti contaminati prevista dal d.lgs.152/2006 attesa la “non perfetta equiparabilità del materiale di riporto al suolo”, concludendo dunque che ‘la qualificazione dei materiali di riporto come “fonti di contaminazione” prevale sulla qualificazione di “matrici ambientali” e impone di intervenire su tali materiali con le specifiche modalità previste dal citato art. 3 comma 3 (norma speciale), anziché con le procedure ex artt. 242 ss. del Codice dell’ambiente” (T.A.R. Toscana, II, 7 aprile 2015, n. 558, TAR Lombardia-Milano n. 2586/2015). Un’interpretazione questa dei giudici che aveva lasciato aperti molti dubbi, in particolare su come certificare il completamento degli interventi sui riporti.

[4] Art. 184, c. 3, il quale include tra i rifiuti speciali i “rifiuti derivanti da attività di demolizione”.

[5] Il quale, per espressa previsione, non si applica ai “rifiuti provenienti direttamente dall’esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti”.

[6] Nel caso di specie, l’amianto era stato utilizzato ai fini del rivestimento di immobili, successivamente oggetto di demolizione.

[7] Come evidenziato dalla decisione oggetto del presente commento, “la legge 27/03/1992, n. 257, nel dettare le norme relative alla cessazione dell’uso dell’amianto e alla sua rimozione, classifica espressamente i rifiuti d’amianto “tra i rifiuti speciali, tossici e nocivi, ai sensi dell’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, in base alle caratteristiche fisiche che ne determinano la pericolosità, come la friabilità e la densità» (art. 12, comma 6). A sua volta, l’art. 2 della medesima legge n. 257/1992 chiarisce cosa deve intendersi per «rifiuti di amianto», facendo riferimento, fra l’altro, a «qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua destinazione d’uso e che possa disperdere fibre di amianto nell’ambiente in concentrazioni superiori a quelle ammesse dall’articolo 3”.

[8] Rectius, rifiuti di amianto, ergo rifiuti speciale pericolosi.

[9] A tal proposito, viene anche richiamato l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia penalistica (Ex multis, Cass. Pen., Sez. III, sent. 8 marzo 2016, n. 9458).

[10] Nelle quali si afferma che “nel caso in cui fossero presenti all’interno dei riporti rifiuti pericolosi quali quelli contenenti amianto, gli stessi debbano essere gestiti nell’ambito delle procedure previste dalla normativa per i rifiuti”.