La centralità del principio “chi inquina paga” in tema di obblighi di bonifica

La centralità del principio “chi inquina paga” in tema di obblighi di bonifica

Di Roberto Gubello

T.A.R. PUGLIA, Lecce, Sez. I – 9 maggio 2019, n. 755 – Pres. Pasca, Est. Moro – M.C. 2 S.r.l. (avv. Paladini) c. Provincia di Lecce (avv.ti Angelastri e Capoccia) ed altri. 

Nel caso di inquinamento riconducibile alla gestione di una discarica, ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta di determinati operatori ed il fenomeno di inquinamento deve applicarsi la teoria del “più probabile che non”, dandosi rilievo a tutti quegli elementi di fatto – la vicinanza al luogo ove insiste l’attività che ha causato l’inquinamento, la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate nell’area limitrofa e le sostanze utilizzate nel processo produttivo – dai quali possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che inducano a ritenere verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile ai predetti autori.

Con la sentenza annotata il Tar Lecce si pronuncia sulla legittimità di una ordinanza adottata, ai sensi dell’art. 244 d.lg. 152/06[1], dall’amministrazione provinciale nei confronti di una società che aveva gestito per anni una discarica oramai cessata dal 2007.

In particolare, con il provvedimento impugnato l’amministrazione, all’esito di una dettagliata attività di accertamento effettuata dall’ARPA in merito al superamento dei valori limite delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (cd. C.S.C.) nelle acque sotterranee poste nelle vicinanze della predetta discarica, concludeva nel senso che la contaminazione riscontrata dovesse verosimilmente imputarsi all’attività svolta fin dal 1992 dalla ricorrente. Per tale ragione, diffidava quest’ultima affinché avviasse tutte le procedure di cui all’art. 242 d.lg. 152/06, ivi inclusa l’adozione delle necessarie misure di prevenzione e messa in sicurezza dell’area.

Tanto faceva, richiamando la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui (i) l’imputazione dell’inquinamento a un determinato soggetto può avvenire sia per condotte attive che per condotte omissive e (ii) la relativa prova può essere data in forma diretta o indiretta potendo, in quest’ultimo caso, la pubblica amministrazione avvalersi anche di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c.. In tal senso vengono in rilievo tutti gli elementi di fatto da cui possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che, sulla base di un giudizio di verosimiglianza, facciano ritenere che l’inquinamento accertato sia attribuibile a determinati autori[2].

Con la sentenza in commento, il Tar conferma la correttezza di tale percorso argomentativo. Per fare ciò la pronuncia ripercorre la sistematica messa a punto dalla giurisprudenza amministrativa in tema di nesso di causalità[3], muovendo dalla necessità che ogni teoria sul punto sia pienamente compatibile con una interpretazione sostanzialistica del principio “chi inquina paga” e chiarendone le sue ricadute in termini di ripartizione dell’onere della prova[4].

Così, dopo aver precisato che tutte le attività di accertamento dei fatti di inquinamento debbano essere necessariamente svolte in maniera rigorosa e fondate su una assoluta attendibilità scientifica[5], la sentenza dà atto della mancanza, nel settore ambientale, di una definizione normativa di nesso di causalità.

Sicché, l’esatta costruzione di una teoria sulla causalità da applicare a casi come quello di specie (ovvero riferiti ad episodi di contaminazione, peraltro risalenti nel tempo e con concause rilevanti) non può che essere coerente con l’interpretazione del principio “chi inquina paga”[6], principio che impone di addossare ai soggetti responsabili i costi cui occorre far fronte per prevenire, ridurre o eliminare l’inquinamento prodotto[7].

In questo senso, la nozione di causa cui dovrà farsi riferimento è quella di ‘semplice’ aumento del rischio, ovvero di mera contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell’inquinamento[8].

Consequenzialmente, l’attività di accertamento della sussistenza del nesso di causalità andrà condotta non sulla base del criterio penalistico dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, bensì secondo la teoria civilistica del “più probabile che non”[9].

Per affermare il legame causale tra un fatto di inquinamento ed una condotta umana non è, cioè, necessario raggiungere un livello di probabilità (logica) prossimo a uno (cioè la certezza); è sufficiente dimostrare un grado di probabilità maggiore della metà (cioè del 50%).

Con l’ulteriore conseguenza che, soprattutto in relazione a fatti risalenti nel tempo, ai fini dell’individuazione del responsabile della contaminazione debba riconoscersi rilievo a tutti gli elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che inducano a ritenere verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori[10].

Tale impostazione, affermatasi nella giurisprudenza amministrativa, è stata, a ben vedere, avallata anche dalla Corte di Giustizia secondo la quale la Direttiva 2004/35/CE[11] non osta ad una normativa nazionale che consenta all’autorità competente, in sede di esecuzione della direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta di determinati operatori e un inquinamento accertato, allorquando la presunzione sia fondata su indizi plausibili quali la vicinanza al luogo ove insiste l’attività che ha causato l’inquinamento e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate nell’area limitrofa e le sostanze utilizzate per svolgere l’attività che si reputa abbia determinato l’inquinamento[12].

In applicazione di tali criteri sostanzialistici, la sentenza in commento conclude per la sussistenza, nel caso di specie, di indizi gravi, precisi e concordanti (prova per presunzioni semplici: art. 2727 c.c.) sui quali basare l’accertamento della responsabilità della ricorrente, stante la riconducibilità degli agenti inquinanti e l’attività svolta dal ricorrente, la vicinanza della stessa al punto di rilevamento della contaminazione.

Ma, a ben vedere, la sentenza merita attenzione anche rispetto alle ulteriori ricadute che tale impostazione pare debba produrre anche sul criterio di riparto dell’onere della prova.

In questo senso, come già chiarito dalla giurisprudenza[13], per superare gli effetti della richiamata presunzione, ancorché semplice, il ricorrente non potrà limitarsi a ventilare genericamente il dubbio circa una possibile responsabilità di terzi[14], dovendo piuttosto precisare – e con sufficiente specificazione – quale sia stata – diversamente da quanto eventualmente opinato dalle amministrazioni – la reale, diversa, dinamica degli avvenimenti e a quale diverso soggetto, in virtù di una specifica e determinata causalità, debba addebitarsi la condotta causativa dell’inquinamento[15].

Non solo. Lo stesso comportamento tenuto dalla parte, sia in sede processuale che, soprattutto, in sede procedimentale, finisce addirittura per rilevare ben più che come un semplice argomento di prova, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c..

Come si legge nella sentenza, infatti, “il contegno tenuto dalla ricorrente, la quale, nonostante l’impegno assunto all’esito del predetto tavolo di produrre una dettagliata relazione tecnica per dimostrare la propria estraneità ai fatti, non ha tempestivamente provveduto a fornire la documentazione promessa, giustifica ulteriormente l’ordinanza impugnata“.

Il comportamento tenuto dagli operatori, sia nella fase dell’accertamento che in quella processuale, finisce cioè per assurgere ad uno di quegli elementi di fatto che, valutati assieme agli altri di cui si è detto sopra, possono fondare un giudizio di responsabilità da inquinamento ambientale.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato

TAR Lecce 755-2019

1 L’art. 244 d.lg. 152/2006 prevede che “le pubbliche amministrazioni che nell’esercizio delle proprie funzioni individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti. La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo. L’ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253. Se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250”.

2 Si veda T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, sent. 31 luglio 2018, n. 766; T.A.R. Piemonte, Torino, sez. I, 24marzo 2010, n. 1575; Cons. Stato, sez. V, 16giugno2009, n. 3885. Per un inquadramento generale delle principali tematiche sottese all’argomento, si veda D. Dima, Bonifica dei siti inquinati: criteri di imputazione e mezzi di accertamento della responsabilità, in Urbanistica e appalti, 2009, 11, 1328; E. Manassero, Una “vexata quaestio”: i requisiti minimi di prova per l’imputabilità del soggetto inquinatore, in Ambiente e sviluppo, 2011, 5, 422; F. Degl’Innocenti, I criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale, in Contratto e Impresa, 2013, 3, 741.

Con riferimento al nesso di causalità, la giurisprudenza ha da tempo elaborato, in mancanza di una definizione normativa del nesso di causalità, la teoria del “più probabile che non“, applicata anche nella materia de qua. Si veda TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, sent. n. 214/2014. Anche la giurisprudenza di primo grado (T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, sent. 6 aprile 2017 n. 346) ha ribadito che, in materia di accertamento del nesso causale tra operatore e inquinamento, nel rispetto del principio “chi inquina paga”, il criterio oggi maggiormente applicato è quello civilistico del “più probabile che non”, escludendo invece la possibilità di applicare il criterio di imputazione penalistico della responsabilità, che richiede una certezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Ha aggiunto la pronuncia che, “riguardo all’individuazione del responsabile, l’odierno Collegio non intravede ragioni per discostarsi dall’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. T.A.R. Marche, Ancona, Sez. I, 6.2.2017, n. 104), e aderente alla decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 marzo 2010, in causa C-378/08 (cui ha sostanzialmente aderito la successiva decisione della stessa Corte, Sez. III, del 4 marzo 2015, causa C-534/13), nella quale si è affermato che è possibile presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra determinati operatori e l’inquinamento accertato attraverso indizi plausibili, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività. Quando disponga di indizi di tal genere, l’Autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato“.

3 Si veda L. Prati, L’accertamento delle responsabilità ambientali e le recenti decisioni della Corte di Giustizia, in Ambiente e sviluppo, 2010, 6, 540.

4 Si veda Cons. St., sez. V, sent. 22 maggio 2015, n. 2569, laddove ancora viene evocato il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio rispetto alle attività ispettive e di accertamento delle condotte inquinanti.

5 Proprio quel principio che, secondo l’impostazione della ricorrente, si porrebbe in contrasto con un accertamento fondato su mere presunzioni semplici.

6 Come esposto dalla dottrina da ultimo richiamata, Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva, nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali).

Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare – per effetto del calcolo dei rischi di impresa – la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).

Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.

Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale“.

Anche tale direttiva è conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal diciottesimo considerando della direttiva: “secondo il principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l’autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno“.

La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso – ma tale non è il caso di specie – se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori.

Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell’ambiente che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ. (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l'”id quod plerumque accidit” che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.

Ai sensi dell’art. 2729 del cod. civ. “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti“. Orbene tale norma – che spiega il proprio effetto diretto nel giudizio civile – pone un principio generale che consente alla pubblica amministrazione, specie quando deve svolgere complesse attività di indagine su fatti che non sono a sua diretta conoscenza ma che, per essere illeciti, sono conosciuti dai privati, il ricorso alla prova logica, alle presunzioni semplici, ad indizi gravi precisi e concordanti (per un’applicazione del principio in materia di accertamenti di illeciti anticoncorrenziali cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 760; per un’applicazione in tema di urbanistica va ricordato che si è ritenuta ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva, prevista dall’ articolo 18 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, solo quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi agevolmente l’intento di asservire all’edificazione, per la prima volta, un’area non urbanizzata: Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 1991, n. 1157) per la prova di determinati fatti.

Né il difetto della prova testimoniale nel processo amministrativo (arg. ex art. 2729, comma 2, c.c.) esclude la possibilità per la pubblica amministrazione di ricorrere a presunzioni semplici, poiché il canone costituzionale dell’imparzialità della pubblica amministrazione e la previsione del sindacato giudiziario sugli atti della medesima (artt. 97 e 113 Cost.) nonché delle preventive garanzie procedimentali (artt. 3 e 7 della legge n. 241 del 1990) sono sufficienti per ritenere che vi sia un sistema equilibrato di pesi e contrappesi nel riconoscimento del potere – sindacabile dal giudice amministrativo – della p.a. di ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini dell’adozione di provvedimenti amministrativi sfavorevoli ai privati, anche a mezzo di presunzioni semplici ove ciò sia imposto dalla natura degli accertamenti da espletare (come nel caso di illeciti anticoncorrenziali, di lottizzazioni abusive, di gravi fatti di inquinamento et similia).

7 Si fa riferimento a Corte di Giustizia Europea (C-188/07).

8 Anche T.A.R. Puglia Bari, sez. I, sent. 6 aprile 2017 n. 346.

9 In questo senso già Cons. Stato, sez. V, sent. n. 2569/2015, a conferma di Tar Puglia, Lecce, sez. I, 6 giugno 2014, n. 1383; Cons. Stato, sez. V, sent. n.3885/2009; Cons. Stato, sez. V, sent. n. 6055/2008.

10 Direttiva adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio, in data 21 aprile 2004, e riguardante la responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

11 Cfr. Corte di Giustizia UE, 9 marzo 2010, causa C-378/08.

12 Consiglio di Stato, sent. 3165/2014, afferma che “la conclusione circa un collegamento tra l’inquinamento e l’attività della Società ricorrente si rivela dunque attendibile per i predetti gravi, precisi e concordanti elementi, senza che ulteriori (ipotetici) concorrenti fattori causativi siano idonei a escludere la responsabilità. La ricorrente, peraltro, si è limitata, anche nella relazione tecnica di parte, a ricollegare il superamento dei limiti di legge a vaghi “eventi accidentali e occasionali” non meglio specificati, ossia a generiche circostanze esterne ed estranee. In questo contesto, non è accettabile il rilievo per cui la ricorrente non ha mai svolto attività specifica in loco, alla luce della prossimità dell’area con quella interessata dalla produzione.

Come ha affermato il Consiglio di Stato nella già citata sentenza della sez. IV, del 4 dicembre 2017 n. 5668, è nota la difficoltà dei soggetti coinvolti di riuscire a fornire la prova del “dato alternativo”, e tuttavia il soggetto individuato come responsabile non può limitarsi a ventilare genericamente il dubbio circa una possibile responsabilità di terzi, ma dovrebbe provare e documentare con pari analiticità la reale dinamica degli avvenimenti e indicare a quale altra impresa, in virtù di una specifica e determinata causalità, debba addebitarsi la condotta causativa dell’inquinamento. Si vedano in tal senso anche T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15 febbraio 2017, n. 125; Cons. St., sez. VI, sent. 23 giugno 2014 n. 3165.

13 Si veda M.Benozzo, Il risarcimento del pregiudizio ecologico da attività industriale condotta in successione da più imprese: la prova diabolica del Tribunale di Livorno, in Nuova Giur. Civ., 2015, 12, 11085 (nota a sentenza Trib. Livorno, 13 aprile 2015).

14 Ciò soprattutto in caso di più attività produttive insistenti nell’area contaminata: si veda Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, sent. 30 aprile 2014, n. 204; Cons. St., sent. n. 6055/2008.

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