di Alberto Abrami
Abbiamo già avuto occasione di osservare in questa Rivista che un’utilizzazione legnosa del bosco senza limitazioni sia alla base del testo unico forestale n. 34 del 2018, non riconoscendo il legislatore altra funzione al bosco che quella di produrre legname: un’utilizzazione non solo indiscriminata, quindi, della vegetazione arborea, ma anche insipiente, perché non si cura di aumentare la provvigione dei nostri boschi, notoriamente scadente, secondo i criteri dello sviluppo sostenibile, ma solo di ottenere un risultato economico, che giova senz’altro all’utile immediato, ma manca di prospettive per il futuro come, invece, si richiede ad una politica forestale che sia lungimirante.
Riemerge nella normazione forestale del 2018, mentre ci troviamo in piena crisi climatica e viene valorizzata la protezione della biodiversità, la vecchia cultura forestale che stava alla base della legislazione del 1923, per cui, fatto salvo l’interesse alla stabilità idrogeologica, nessun’altra attenzione si ha per la salvaguardia del bosco. Eppure questo modo di pensare era stato superato dal decreto n. 227 del 2001 che aveva orientato l’esercizio della selvicoltura in senso naturalistico ed è stato abrogato dal testo unico del 2018, mentre vive il decreto n. 3267 del 1923.
Quest’idea è stata contestata in modo evidente dall’intervento del legislatore ambientalista che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria sulla qualità dell’aria, nonché, seppur indirettamente, dalla recente modifica dell’art. 9 della Costituzione a tutela della biodiversità.
Entrambi questi interventi normativi hanno impresso una svolta al modo di fare selvicoltura, in base al quale il bosco doveva considerarsi “abbandonato” se non veniva utilizzato per la produzione del legname. Infatti, secondo il testo forestale del 2018, per essere considerato in condizione di abbandono era sufficiente che il bosco ceduo avesse superato di una volta e mezzo il turno previsto per il taglio degli alberi. A quel punto la mancata produzione del legno diveniva un valore tale da acquistare la dimensione dell’interesse pubblico, con la conseguenza che la gestione del bene bosco poteva essere espropriata al suo possessore, avendo questi di fatto rinunziato all’utilizzazione legnosa per valorizzare le ulteriori potenzialità del bosco, ossia i servizi ecosistemici di evidente interesse collettivo.
Ma lo spettro di interessi ambientali che si rinvengono nel bosco non poteva lasciare indifferente il legislatore che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria sulla qualità dell’aria – dove la vegetazione arborea svolge, per questo fine, un ruolo di primissimo piano: il risultato è una selvicoltura che non considera più il bosco come un agglomerato produttivistico senz’altra accezione, senza preoccuparsi di operare una distinzione fra i vari territori forestali di diversa importanza ambientale.
Ci riferiamo a due prescrizioni di natura forestale che si rinvengono nella legge 12 dicembre 2019 n. 141, di conversione del decreto-legge 14 ottobre 2019 n. 11 sul contrasto al cambiamento climatico e il miglioramento della qualità dell’aria, attuativa della direttiva comunitaria. Queste due prescrizioni, inserite nel decreto legislativo n. 34 del 2018, costituiscono un segnale importante per una selvicoltura su basi naturalistiche, perché esse contraddicono l’intero sistema creato dal testo unico forestale contrastando, in particolare, l’idea dell’utilizzazione ad oltranza del bosco, come del suo abbandono qualora si rinunzi all’estrazione del legname.
Esistono nei territori boscati, per il legislatore che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria di natura ambientale, valori diversi dall’estrazione del legname, trascurati dal decreto n. 34 del 2018, avvertiti come prevalenti, nella sensibilità sociale, rispetto al dato economico -produttivistico.
Consideriamo, dunque, distintamente, come si diceva, le due disposizioni legislative. La prima – che integra l’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 34 del 2018 mediante il disposto costituito dalla lettera “s bis” del testo unico forestale – ha per oggetto la tutela dei boschi “vetusti” e cioè, di quelle superfici boscate che, come si legge nel testo normativo, non sono state utilizzate per la produzione di legname per almeno sessanta anni e, più in generale, non abbiano, per lo stesso periodo di tempo, subito “disturbi”, costituiti dagli sfolli e dai diradamenti, ossia le cosiddette cure colturali. L’assenza di tali interventi è sufficiente per il testo unico del 2018, qualora protratta per venti anni, perché i boschi ad altro fusto siano considerati abbandonati, con la conseguenza della sottrazione della gestione al loro proprietario.
Analoga dimensione naturalistica si rinviene nella disposizione inserita nell’art 7 del decreto n. 34 del 2018 e costituente il comma 13 ter dove viene previsto l’impegno delle Regioni di favorire, in accordo con i principi di salvaguardia della biodiversità, il rilascio in bosco di alberi da destinare all’invecchiamento a tempo indefinito con particolare riferimento alla conservazione delle specie dipendenti dalle necro-masse legnose.
Si tratta di una vegetazione assolutamente improduttiva della quale, per il legislatore del 2018, occorre disfarsi in quanto inutile per la produzione del legname.
Per il legislatore del 2019 questa condizione è, invece, di tutto rilievo ai fini della protezione della biodiversità e integra un deciso cambio di rotta nell’esercizio della selvicoltura.
Insieme alle due disposizioni normative delle quali fin ora si è detto, occorre dare il rilievo che merita alla recente costituzionalizzazione della tutela della biodiversità con il suo inserimento tra i principi generali del nostro ordinamento costituzionale. Il rispetto di questa norma ha una ricaduta sull’utilizzazione del bosco, ovvero su un’entità biologica ricca di biodiversità vegetale e animale, una “realtà vivente”, come ha osservato la Corte di Cassazione, costituita non solo dagli alberi, ma anche dal cosiddetto sottobosco, dalla micro fauna e dalla fauna. Si può, quindi, affermare che l’approccio al bosco richieda ora un’attenzione particolare e l’esercizio di una selvicoltura rispettosa dei valori ecologici del bosco, incompatibile con la generale massificazione produttivistica disposta dal testo unico n. 34 del 2018.
In conclusione, un ultimo rilievo relativo al fenomeno forestale nel suo complesso. Esso concerne la constatazione, fatta propria dall’Unione Europea, che il bosco sia una risorsa rinnovabile, sicché non esistono limiti al suo consumo. Questo comporta la necessità di tenere conto dei tempi di riproduzione delle diverse specie boschive e della scansione temporale che si manifesta tra la recisione del bosco e la sua ricostituzione, scansione temporale diversa dai tempi di maturazione dei prodotti agricoli.
Si tratta, infatti, di un arco di tempo non breve, soprattutto se si ha riguardo al bosco d’alto fusto, poiché le fustaie di latifoglie situate nelle zone più fertili raggiungono la maturità dopo circa mezzo secolo, per andare oltre la stessa vita media dell’uomo se ci riferiamo alle fustaie di conifere.
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